Brexit, numeri e bugie: quello che non sapevamo e abbiamo detto

Appena l’annuncio della Brexit è iniziato a rimbalzare sui media di tutto il mondo, sui social soprattutto, sono piovute centinaia di analisi e commenti del risultato epocale e inaspettato con cui l’Europa ha dovuto fare i conti. L’incertezza e le incognite dominano però quasi tutti i discorsi, perché mai prima ci siamo trovati in questa situazione, e perché nessuno sa cosa accadrà ora, dal punto di vista economico e politico. L’Europa rischia di disgregarsi e di far avanzare i nazionalismi? Siamo davanti al risultato inevitabile di anni di politiche europee sbagliate? I vecchi hanno tradito i giovani europei? La Brexit porterà vantaggi economici ai britannici? Cerchiamo di capirci qualcosa, con alcune cifre apparse insistentemente sui media in questi giorni, perché qualunque posizione si assuma essere correttamente informati è prerequisito fondamentale per prendere decisioni oculate. E soprattutto perché la frenesia dei media porta a condividere dati e analisi senza essersi sicuri delle fonti e della veridicità dei dati, rischiando così di fare cattiva informazione e inquinare le varie posizioni e punti di vista.

17.410.742 Sono i cittadini britannici che hanno votato per il Leave, esprimendo la propria volontà di lasciare l’Unione Europea. Al netto del fatto che la segmentazione del voto è stata alta fra soggetti di diversa età, istruzione e condizione sociale, commentare il risultato di un voto popolare assumendo la posizione dell’élite illuminata che si contrappone allo zoccolo di popolazione ignorante è probabilmente controproducente. Perché forse si può discutere dell’uso dello strumento referendario, ma non si dovrebbe perdere il rispetto della democrazia in ogni sua manifestazione, perché si può alludere al fatto che si preferì Barabba a Gesù o che Hitler vinse libere elezioni, ma senza dimenticare che Winston Churchill stesso disse che “la democrazia è il peggiore dei sistemi, a parte tutti gli altri” e che la lesione della democrazia avviene semmai quando un esito referendario viene tradito.

73% e 40%. Sono le percentuali di chi ha votato per il Remain, rispettivamente per le fasce d’età comprese fra 18-24 anni e più di 65 anni. Appena saputo il risultato del voto, che davvero in pochi avevano previsto, in tantissimi sui social network hanno iniziato a far circolare queste cifre, omettendo però di specificare fossero sondaggi pre-elettorali effettuati una settimana prima del voto da YouGov, la stessa organizzazione che affermava avrebbe vinto il Remain con il 52% dei voti. Il conflitto generazionale c’è però effettivamente stato, poiché il giorno successivo questi numeri sono stati confermati da un sondaggio commissionato da LordAshcroft (http://lordashcroftpolls.com/), su un campione di 12 mila soggetti. Anche il Financial Times ha fornito poi interessanti dati (https://next.ft.com/content/1ce1a720-ce94-3c32-a689-8d2356388a1f) sostenendo ci sia una chiara indicazione di come chi abbia votato per rimanere nell’Unione Europea sia tendenzialmente più giovane ed istruito.

36% e 83%. Sono rispettivamente le percentuali dell’affluenza alle urne per le fasce d’età comprese fra 18-24 anni e più di 65 anni. Dopo aver infatti scritto analisi e considerazioni sul fatto che il voto è stato un conflitto fra generazioni, i media si sono affrettati ad affermare che i giovani non possono lamentarsi, poiché sono stati la fascia di popolazione che è andata meno a votare. Questo scenario potrebbe rivelarsi veritiero, ma i dati utilizzati sono stati divulgati da SkyData, che per produrli ha però utilizzato estrapolazioni dalle elezioni generali del 2015, elezioni politiche ben diverse dal recente referendum. Ad oggi infatti non ci sono sondaggi che possano indicare come l’affluenza alle urne si sia divisa per fasce d’età. Gli unici dati interessanti che abbiamo sono stati divulgati dal Financial Times che ha trovato una relazione positiva tra città con popolazione più anziana e affluenza alle urne, individuando però importanti outliers come Cambridge e Oxford, dove nonostante la giovane età della sua popolazione di studenti, si è registrata un’affluenza maggiore del previsto o Glasgow, città relativamente giovane, che ha avuto invece uno dei dati più negativi dell’intero Regno Unito.

350 milioni di sterline. E’ la cifra, che secondo il fronte del Leave, il Regno unito spenderebbe a settimana come contributo all’Unione Europea. O almeno lo pensavano fino a due giorni prima del referendum, quando Nigel Farange, leader del partito di estrema destra Ukip, è strato costretto ad ammettere in televisione che la cifra era errata e che era stato un errore fondare gran parte della campagna elettorale su ciò. La cifra infatti è incredibilmente esagerata: il Regno Unito (secondo dati del 2013) contribuisce all’UE con circa 17 miliardi di euro all’anno e riceve benefici per poco più di 6 miliardi, e quindi a conti fatti gli 11 miliardi di differenza sarebbero 207 milioni di euro a settimana; inoltre i contributi all’UE rappresentano soltanto l’1,2 per cento del totale della spesa pubblica in servizi del Regno Unito. Ma durante tutta la campagna, nonostante istituti di statistica e autorevoli giornali come il Financial Times abbiano smentito tutto ciò, Boris Johnosn ha girato mezza Inghilterra a bordo di un autobus dove campeggiava la scritta “Invece di mandare 350 milioni all’Europa, utilizziamoli per il nostro sistema sanitario nazionale”, dato che questo sarebbe, secondo chi ha votato per lasciare l’Europa, in pericolo di collasso per dover sostenere i costi della salute di tutti gli immigrati in Regno Unito.

118 miliardi. Sono i miliardi di euro all’anno corrispondenti ai beni che il Regno Unito importa dall’Unione Europea. Si, perché il Regno di Sua Maestà è un importatore netto nei confronti dell’Europa e quindi forse la Brexit potrebbe causare qualche serio problema anche a noi, volendo tralasciare i miliardi già bruciati su tutte le borse europee in questi giorni. Anche perché il PIL del Regno Unito è pari a 2.658 miliardi, su un totale di 14.635 miliardi dell’intera Eurozona a 28. Ragionando in termini di commercio internazionale è poi lecito chiedersi che interesse abbia un paese come la Gran Bretagna a stringere legami commerciali con un’area che appena arriva una crisi è costretta a tagliare la propria domanda interna (praticando politiche di austerità) per ripristinare i rapporti di competitività interni, e così facendo però si priva nell’aggregato di risorse per comprare i beni altrui. Questa politica economica manda poi in dissesto le finanze dei paesi, il che rende la sterlina un bene rifugio, costringendola ad apprezzarsi nel momento in cui avrebbe magari bisogno di svalutarsi poiché dollaro, euro e yen hanno ingaggiato una race to the bottom nel sentiero della svalutazione. Considerando in termini razionali il problema, nulla sembra quindi facile e scontato, e non è possibile affermare ora se a subire gli svantaggi della Brexit saranno i cittadini britannici o gli altri europei. Se infatti i dati forniti sopra parlano di potenziali vantaggi per il Regno Unito, le stime del Fondo monetario internazionale suggeriscono, anche nel miglior scenario possibile, rallentamenti nella crescita del PIL britannico.

Questi erano solo alcuni esempi di come dati e statistiche vadano utilizzati nel modo corretto, poiché estrapolati dal loro contesto originale e utilizzati per sostenere un punto di vista interessato possono ingannare il lettore, e soprattutto di come i commenti sulla Brexit possano per ora essere solo frammentati ed incerti, data la complessità della vicenda e i risvolti epocali, culturali e politici, che sorgeranno nel momento in cui essa si concretizzerà.

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