L’Italiano? Non lo sappiamo scrivere, né parlare. E quindi?

L’hanno detto forte e chiaro i seicento professori universitari firmatari della lettera del 4 febbraio indirizzata Al Presidente del Consiglio, Alla Ministra dell’Istruzione, Al Parlamento.

“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare.”

Come potete immaginare, la denuncia della cosiddetta Lettera dei Seicento ha sollevato un gran polverone. Da un lato c’è stato chi ha additato la dilagante negligenza nello studio della grammatica italiana e nell’esercizio di scrittura, rivendicando una maggiore attenzione all’apprendimento della lingua italiana nei programmi scolastici del primo ciclo d’istruzione. Dall’altro c’è chi ha sottolineato la complessità del problema e chiamato in causa fenomeni socio-culturali — o meglio, socio-linguistico-culturali — di più ampia portata (interessante l’intervento di Maria Lo Duca, docente di Linguistica dell’Università di Padova).

Quali che ne siano le cause, per Accademici della Crusca e linguisti, storici e filosofi, pedagogisti, neuropsichiatri e matematici, un fatto è certo: gli studenti universitari l’italiano — quello buono, s’intende — non lo sanno più scrivere, né parlare.

E noi studenti, ammettiamolo, da questa accusa ci sentiamo chiamati in causa. E un po’ feriti nell’orgoglio. Tanto più se con l’italiano ci sembra di cavarcela. Certo, però, se un po’ di sensibilità linguistica la possediamo, non possiamo negare che ogni tanto qualche bel congiuntivo mancato, concordanza stonata, o uso semantico improprio li abbiamo sentiti uscire dalla bocca di colleghi, e non al bar con gli amici, dove un italiano un po’ meno rigoroso e controllato sarebbe del tutto legittimo (i linguisti lo chiamano ‘italiano dell’uso medio’). No, la cosa spiacevole è che talvolta questi strafalcioni linguistici vengono fuori in sede d’esame, o li troviamo in articoli, saggi, tesi e tesine che magari qualche amico o compagno di corso ci ha passato, giusto per l’ultimo controllo prima della consegna finale.

E quindi, a malincuore, un po’ di ragione ai Seicento professori ci tocca dargliela.

Sul tema si potrebbe dire moltissimo. Potremmo dilungarci in eterne apologie, o in lunghe disquisizioni sulle ipotetiche origini d el fenomeno. Potremmo per esempio chiamare in causa la democratizzazione dell’università italiana, non più, come nell’Italia pre-sessantottina, ad accesso pressoché esclusivo dei rampolli di buona famiglia, che l’italiano non avevano certo bisogno di impararlo a scuola, perché potevano benissimo apprenderlo a casa dai genitori, o dai libri delle fornite biblioteche paterne. Potremmo far presente, a nostra discolpa, che oggi corridoi, aule e biblioteche sono — per fortuna — sempre più frequentati da quelle che negli Stati Uniti chiamano first gens  (prime generazioni, che – cosa che a noi può anche un po’ far ridere – in molte università USA dispongono di specifici servizi di supporto emotivo e psicologico), che portano con sé un background culturale e linguistico molto diverso rispetto a quello dei figli di laureati; oppure potremmo fare riferimento alla generale scarsa propensione degli italiani alla lettura (vd. https://www.istat.it/it/archivio/178337); o al ritorno dalla parola scritta all’ideogramma (emoticons, GIFS, ecc.); ma sarebbero tutti discorsi che dovremmo limitarci a trattare solo superficialmente e, dopotutto, un po’ fini a se stessi.

Un altro è l’aspetto della questione su cui credo valga piuttosto la pena di interrogarsi. Ammesso che, per i motivi più svariati, gli studenti arrivino all’università con competenze linguistiche molto diverse gli uni dagli altri e che non tutti abbiano una padronanza della lingua adeguata a esprimersi in maniera appropriata al contesto universitario, com’è possibile che dopo ulteriori cinque anni di formazione tali differenze (se proprio farle sparire è impossibile) non si siano quanto meno appianate? Com’è possibile che a ridosso della consegna e discussione di una tesi di laurea magistrale uno studente universitario non sappia adeguare la propria lingua al contesto comunicativo del caso e sfoggiare un italiano, se non elegante, quanto meno grammaticalmente passabile? (si veda l’esempio portato in un suo articolo dal professor Claudio Giunta, dove per di più lo studente in questione è uno studente della Facoltà di Lettere).

Per altro, puntare il dito contro maestri e professori dei cicli di studio precedenti, lamentarsi che ormai è troppo tardi, che con un ventenne che ancora non si sa esprimere correttamente non c’è nulla da fare, non serve a nulla. Anzi. Esime dal fare un serio esame di autocoscienza, e, presa nota di un problema reale e ripetutamente denunciato, dal farsi carico di possibili soluzioni.

Dovremmo invece forse chiederci: l’università italiana garantisce agli studenti che abbiano la necessità di lavorare sulle proprie competenze linguistico-comunicative la possibilità di migliorarsi?

Non so quale sia la vostra esperienza in merito, ma io, studentessa all’ultimo anno della laurea magistrale in Lettere, ammetto che in cinque anni di università, fatta eccezione per la tesi di laurea triennale, un’unica volta ho dovuto cimentarmi in una produzione scritta (e si è trattato di un saggio di Letteratura italiana, che era poi in realtà una raccolta di brani antologizzati, per un totale di una quindicina di pagine, dove di mio pugno c’erano solo introduzioni e commenti: ben poca roba).

Se ho imparato a scrivere, non è stato certo in Italia, né in italiano. Paradossalmente, io, studentessa italiana, laureanda in Lettere, ho imparato a scrivere in inglese, dapprima preparandomi per il TOEFLibt, poi durante un soggiorno negli Stati Uniti, dove papers di tremila battute l’uno erano all’ordine del giorno. Così come quotidiani erano l’interazione coi professori, il dibattito con gli altri studenti, presentazioni ed esposizioni orali.

Qui, in Italia, all’università non ci fanno né scrivere, né parlare. E poi si lamentano se non ne siamo capaci; ma che occasione ci avete dato, voi, di imparare?

Perché imparare – anche ad esprimersi – si può (e se non ci credono nemmeno i professori, che ci stanno a fare loro, lì, in cattedra?).

In questo senso l’esperienza negli Stati Uniti può essere un punto di partenza per una riflessione costruttiva e propositiva rispetto al problema.

Nel college che ho frequentato esiste un servizio (anzi, per la verità ne esistono due: il Writing Center e lo Speaking Center): studenti e ricercatori, madrelingua inglesi o stranieri possono prenotare un appuntamento con un writing/speaking fellow, un peer tutor specificamente formato per un intero semestre tramite appositi corsi, a cui rivolgersi in fase di stesura di un paper o di una presentazione, per la correzione di una bozza, o anche solo per un feedback finale. Un servizio così ampiamente usato che in alcuni periodi bisogna organizzarsi con settimane d’anticipo per garantirsi un appuntamento. Perché il servizio funziona. Davvero aiuta le persone a migliorare, a diventare scrittori e oratori più consci, sicuri e disinvolti. Perché garantisce la possibilità di avere un feedback sincero da parte di qualcuno che non è lì a giudicare i contenuti del tuo paper, a darti un voto, ma semplicemente osserva dall’esterno il tuo modo di scrivere, o di parlare, e ti aiuta a individuare i tuoi punti di forza o debolezza e strategie per migliorare le tue competenze espressive.

La differenza tra quel college americano e la nostra università (oltre, probabilmente, alla disponibilità di fondi)? In quel college, preso atto di un problema che evidentemente non è solo italiano, hanno individuato e attuato una strategia, apparentemente vincente, per risolverlo. Noi invece stiamo a lamentarci e scriviamo lettere al Ministero in cui ci scandalizziamo per il fatto che “alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”.

Che dite, la smettiamo di fare i nostalgici e di attaccarci a un passato che non tornerà più? Di lamentarci che gli studenti non sono più quelli di una volta e non si esprimono più come un tempo? Ce la creiamo un’università in cui non siano gli studenti a doversi adattare a percorsi didattici ormai inadeguati, ma in cui questi mutino al mutare delle esigenze formative, del fabbisogno didattico degli studenti? Un’università che risponda ai nostri bisogni, anche a quelli nuovi, e che ci sappia garantire libertà d’espressione? Perché di questo, alla fine, si tratta.

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