The OOZ di King Krule

DI Alberto Carraro

Archy Marshall ha molti soprannomi, nel suo percorso artistico ne ha cambiati molti a seconda delle diverse esperienze musicali. Per questo molti lo hanno confuso nei suoi diversi nomi, da Edgar The Beatmaker, Zoo Kid, The return of Pimp Shrimp a DJ JD Sports fino a quello con cui è conosciuto da tutti oggi, King Krule.

Se lo si ascolta la prima volta, si potrebbe pensare di ascoltare un rapper di colore dal baritono sproporzionato; ma quando lo si conosce, ci si imbatte in un ragazzo di appena 23 anni:  carnagione pallida, capelli rossi,viso lentigginoso, lineamenti tipicamente inglesi.

Per comprendere la sua musica è necessario avvicinarsi al suo mondo addentrandosi nella sua avvincente quanto precoce storia.

Quando nel 2013, dopo il debutto del suo primo album 6 feet beneath the moon a meno di 18 anni rilasciò la sua prima intervista al The Guardian; parlando riguardo le sue difficoltà passate si congedò con una fredda sentenza finale che suona: “Basically, I hated everyone”. In questa affermazione si coglie lo stato d’animo che farà da sfondo a tutta la sua musica. Archy e suo fratello Jack infatti furono segnati fin da bambini dalla separazione dei genitori,
entrambi artisti e musicisti, la madre è creatrice di vestiti per professione mentre il padre è direttore artistico della BBC. I due fratelli trascorsero la loro infanzia rimbalzando tra la casa della madre a East Dulwich e l’appartamento del padre a Peckham sempre nella Londra sud-est. Archy si rifiutò di andare a scuola già a 13 anni, e lo fece come farebbe qualsiasi ragazzino della sua età, ovvero marinando ripetutamente le lezioni.

I genitori non sapevano come affrontare il problema fino al punto che le autorità li minacciarono di prendere provvedimenti nel caso non si fosse trovata una soluzione. La situazione per Archy si aggravò quando fu colto dalla depressione e dagli attacchi di insonnia, durante i quali disteso per ore ascoltava i Pixies e i Libertines per prendere sonno. Dopo questa rapida sequenza di avvenimenti che segnarono profondamente la sua personalità, fu portato in un centro per malattie mentali dove medici e psichiatri non fecero altro che prescrivergli pillole.

Non scorderà più quel periodo, che gli valse giorni e mesi di sofferenza e da cui l’unica cosa che si portò appresso fu l’odio verso l’ “ establishment”, come dichiarerà in seguito. Lui ancora non lo sapeva ma il destino stava per destarlo da questo lungo sonno per riservargli una sorpresa.

E’ così che viene trasferito alla Brit School che gli permise di uscire da quel tunnel buio che era il suo passato e dove incominciò ad appassionarsi di storia e sociologia. Allo stesso tempo quello verso cui era da sempre portato, ovvero la musica, incominciò a fruttargli con la pubblicazione del suo primo EP nel 2011, un successo fin da subito. Due anni dopo arriverà il suo primo album 6 Feet Beneath the Moon che stupì la critica soprattutto con il brano di punta Easy Easy, che gli procurò il successo e la fama mondiale, fino ad arrivare ad oggi con l’uscita dell’ultimo album.

The OOZ di King Krule è un album imponente composto da ben 19 canzoni per più di un’ora di durata, nel quale non sembrano esserci cali di qualità o intensità. Appare evidente come in questo album ci sia da parte di Archy il tentativo di scandagliare e fare luce in quelle zone d’ombra del passato che non ha mai voluto affrontare; un insolito
modo per esorcizzare quelle cicatrici che a volte, danno l’impressione di riaprirsi in qualsiasi momento. Un vero e proprio esorcismo per guarire attraverso la musica, il suono e le parole, in un flusso di coscienza – quasi fosse disteso su un lettino di un detestato psichiatria.

Nella canzone omonima all’album esordisce con un rauco “Is there anybody out there?” quasi stesse cercando disperatamente un interlocutore a cui chiedere aiuto. Per tutto l’album King krule cercherà di stabilire una relazione con chi lo sta ascoltando, vuole uscire da quello stato di solitudine che lo avvolge, “I’m alone/ I’m alone/ In deep
isolation” sembra quasi un verso di Ian Curtis invece è ciò che si legge in The Locomotive.
Eppure nonostante questo miscuglio di sentimenti di rabbia, malinconia, insoddisfazione e
rassegnazione sia denominatore comune della sua infanzia, egli non rinnega il luogo che lo ha partorito, come anche le sue radici, anzi arriva al punto di dedicargli intere canzoni. Biscuit town è infatti una metafora di Bermondsey, il suo quartiere (dove appunto durante la rivoluzione industriale erano presenti molte fabbriche di biscotti), per lui una vera e propria fonte di ispirazione, ma nella quale rischierà di sprofondare (“I seem to sink lower”). Poi ci sono pezzi come Dum Surfer dall’ innovazione artistica indiscutibile, e dall’atmosfera noir dove si alternano voci grevi e chitarre distorte, e dove si inserisce perfettamente il sax singhiozzante di Ignacio Salvadores che rende l’ immaginario violento ancora più vivido.

Il genere nel quale si colloca The OOZ è difficile da definire, si potrebbe classificarlo post-punk, jazz fusion a tratti anche hip-hop, ma la verità è che sarebbe limitante circoscriverlo a un genere; King Krule ha uno stile singolare tutto suo. Cosa non da poco se si tiene presente la sua età.

Nella sua ultima intervista a Noisey dopo la pubblicazione di The OOZ parlando di quello che ne sarà e del suo futuro, preferisce nascondersi dietro un alone di mistero. Resta molto vago, ma una cosa si può intuire: si sta stancando di Londra e vuole andarsene. Accenna al deserto, probabilmente facendo riferimento a Dungeness, una zona deserta nel sud-est dell’Inghilterra.

Ancora non è certo, ma forse prima o dopo ce la farà ad andarsene dal caos e dall’anomia della metropoli e dalla solitudine che comporta, per trovare infine la pace, quella vera, senza il bisogno di palliativi o pillole.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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