La classe disagiata c’est nous

di Martino Mancin

 

Se ci penso, devo dire che la mia educazione mi ha nuociuto molto in parecchi sensi. (Franz Kafka, Diari)

 

Prendete un economista protestante di origini norvegesi vissuto cento anni fa, uno storico maghrebino del XIV secolo, aggiungete parecchio Marx, un po’ di Goldoni e tanta letteratura francese dell’Ottocento, unite al tutto un pizzico di Bourdieu, Illich, Baudrillard (e molti altri), infine agitate per bene e sorseggiate questo micidiale cocktail guardandovi intorno- o magari guardandovi allo specchio: se non avete sbagliato le dosi dovreste trovarvi tra le mani qualcosa di molto simile a Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura (aka Eschaton, per gli utenti Facebook), edito da minimum fax lo scorso mese e oggetto di vivaci discussioni sui social e sui giornali.
Ma che cos’è questa classe disagiata di cui ci parla Ventura? E chi sono i suoi membri? Vediamo un po’, caro lettore. Se ti piace andare ai festival culturali, compri molti libri e ne leggi altrettanti, ti inalberi quando qualcuno dice che passare il tempo a leggere poesia e filosofia è un privilegio, ti sei iscritto a una facoltà umanistica (nonostante le suppliche di tuo padre), ti piacciono i cineforum e sei abbonato a un mucchio di riviste, be’ allora i sintomi parlano chiaro: de te fabula narratur . Fai parte della classe disagiata: prendi una sedia e mettiti comodo.
Andiamo però con ordine. Nel 1899 l’economista americano Thorstein Veblen pubblica un saggio intitolato The theory of the leisure class (in italiano, “Teoria della classe agiata”) e proprio Veblen, secondo Ventura, descrivendo la borghesia americana del suo tempo ci dà gli strumenti per capire chi siamo e come siamo diventati ciò che siamo.
Quel libro infatti, dice l’autore di TDCD, “[…] era una fotografia impietosa di una classe oziosa   improduttiva impegnata a rivaleggiare per il prestigio attraverso l’ostentazione dei propri consumi, detti «vistosi» o «posizionali». Ma alla classe media contemporanea non serve ricoprirsi d’oro e pietre preziose come i suoi antenati barbari, perché i lussi descritti da Veblen sono spesso e volentieri immateriali. Un secolo fa, il sociologo citava alla rinfusa: la conoscenza delle lingue morte, di diversi generi musicali o delle ultime mode nell’ abbigliamento… Oggi parleremmo di educazione secondaria o di attività culturali, stupendoci che qualcuno possa considerarle in maniera tanto irrispettosa. Quale studente di filosofia mai considererebbe un lusso la propria disciplina?”
Così oggi una generazione di venti-trenta-quarantenni, cresciuta con il mito della Cultura, è costretta a prendere atto che sì, come dice l’epigrafe walseriana del libro, le cose dello spirito non sono mai così innocenti e disinteressate, e che il confine tra “cultura” e “ideologia” è assai labile e che la cultura può essere una mistificazione sublimata, e un apparato che occulta sistemi di potere. Ecco che invece di esercitare il sospetto, come ci avevano insegnato, giusto per fare due nomi, Adorno e Barthes, ci siamo fatti sedurre dalle sirene dell’università, dell’industria culturale, del social web.
Per usare le parole di Ventura:
Ci vediamo nella parte degli oppressi, ma forse non siamo altro che degli oppressori falliti. Rivendichiamo dei diritti, ma non ci accorgiamo che sono dei privilegi. Militiamo a sinistra, ma il nostro partito è quello dello status quo. Il nostro feticcio si chiama “Cultura”: un ingegnoso espediente che serve a esternalizzare sull’intera società con finanziamenti e sovvenzioni, il costo dei consumi posizionali di una specifica classe. Leggere un buon libro? Cultura. Riempirci la casa di preziosi soprammobili? Cultura. Ascoltare un’orchestra di cinquanta elementi, seduti in uno splendido palazzo ottocentesco? Cultura. Volare low-cost dall’altra parte del mondo? Cultura. Andare al ristorante per gustare l’anguilla marinata tradizionale delle valli di Comacchio, con l’approvazione di Carlo Petrini? Ancora Cultura. Quanta ideologia in una sola parola, e quanta astuzia in questo stratagemma!”.
Ironia della sorte, abbiamo letto centinaia di libri eppure non ci siamo accorti che proprio due dei maggiori capolavori della letteratura di tutti i tempi, Don Chisciotte della Mancia e Madame Bovary, ci avevano già mostrato che formidabile strumento di occultamento della “realtà” possano essere la letteratura e l’arte. Molto efficacemente, Ventura parla di “bovarismo di massa” per descrivere l’atteggiamento della classe disagiata, “che ha fatto del consumo culturale la liturgia del suo culto laico della salvezza”. Ma come per l’eroina di Flaubert, anche per la classe disagiata è arrivato il momento della resa dei conti. Così una classe nata (relativamente) agiata si ritrova oggi a fronteggiare lo spettro del declassamento, vittima di una “disforia di classe” che la porta a percepire lo sfasamento tra ciò che è (o crede di essere) sotto il profilo socio-culturale e la posizione che il “mondo esterno” le attribuisce, sotto il profilo della condizione economica. Il nostro problema, dice sempre Ventura, è che siamo troppo ricchi per rinunciare alle nostre ambizioni ma allo stesso tempo troppo poveri per realizzarle. I membri della classe disagiata, infatti, hanno trascorso la propria vita dilapidando patrimoni familiari, consumando più risorse di quelle che potevano ragionevolmente produrre e vagolando in percorsi formativi scriteriati: tutto pur di ostentare l’appartenenza a una classe, quella borghese, il cui agio sembra sempre più un miraggio. Insomma, credevamo di avere davanti a noi una vita meravigliosa: non è andata così.
E allora che cosa resta da fare alla classe disagiata, adesso che il suo fallimento le appare in tutta la sua estensione? Una risposta la dà Ventura nell’ultima pagina del libro: credetemi, non è una risposta incoraggiante.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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