Net neutrality, in arrivo negli Stati Uniti un internet a due velocità

In queste settimane la net neutrality è oggetto di un appassionato dibattito negli Stati Uniti. Ma cosa si intende con neutralità della rete? Il termine è stato coniato da Tim Wu, professore alla Columbia University di New York, e si basa sul principio per cui i fornitori di accesso a Internet (Internet Service Provider, ISP) non possono favorire certi contenuti rispetto ad altri, rendendo per esempio più veloce il download da un sito di notizie o di video rispetto a quelli di altre organizzazioni. In passato l’amministrazione Obama ha lavorato per consolidare questo principio. In questa direzione va la normativa approvata nel 2015 che vieta – probabilmente ancora per pochi giorni – un internet a due velocità. In merito Ajit Pai, chairman della Federal Communications Commission (FCC) , ha annunciato di voler porre fine alle net neutrality, abrogando la regolamentazione introdotta da Obama. Il voto è previsto per il 14 Dicembre. Tutta questa vicenda sollecita delle riflessioni, o almeno dovrebbe, soprattutto a noi giovani cosiddetti nativi digitali. Ma cos’è concretamente la net neutrality? Per quale ragione dovremmo interessarci al dibattito americano sul tema? Nicola Lugaresi, professore di diritto di Internet presso la facoltà di Giurisprudenza di Trento, ha provato a chiarirci le idee.

Nel comunicato in cui presenta il suo piano Pai ha scritto che con la sua proposta il governo federale smetterà di tenere troppo sotto controllo Internet. La FCC chiederà agli ISP maggiore trasparenza sulle loro pratiche, in modo che i consumatori possano decidere di acquistare il piano migliore per loro, mentre gli imprenditori e altre piccole attività potranno ricevere le informazioni tecniche di cui hanno bisogno per portare innovazione. Pensa che la proposta di Pai possa portare realmente a questo?

Una premessa: quando si parla di net neutrality, e di Rete a due velocità, una più veloce ed efficiente a pagamento, e una gratuita, più lenta, gratuita, non si fa riferimento, in via diretta, all’utente finale, che già paga per collegarsi, privatamente, ad Internet e che, in base a quanto paga, potrà avere una connessione più veloce. Si fa riferimento ai fornitori di contenuti, e in particolari di contenuti “pesanti” (Facebook, Netflix, Google con YouTube, Amazon, e così via) che potrebbero essere chiamati a pagare, alle imprese di telecomunicazione che forniscono le infrastrutture (Verizon, Comcast, TimeWarner, AT&T), somme (ingenti, ma per le prime sopportabili) per potere immettere tali contenuti in una Rete più veloce. In sostanza, il primo effetto della caduta della net neutrality sarebbe il passaggio di un ingente flusso finanziario dalla prima categoria di imprese alla seconda categoria.
Il piano presentato da Ajit Pai, chairman della Federal Communications Commission (FCC), ha questo oggetto principale (il superamento della net neutrality), che ha suscitato e susciterà discussioni, resistenze e polemiche, ma si occupa anche di protezione degli utenti e di trasparenza. Per quanto riguarda questi ultimi aspetti, fermo restando che occorrerà vedere l’effettiva applicazione pratica, si tratta, almeno in teoria, di aspetti positivi. Aiutare i consumatori ad orientarsi tra le diverse offerte, così complesse da rendere estremamente difficoltosa una comparazione (come in Italia, del resto), sarebbe un fattore positivo per la concorrenza e, quindi, per gli utenti. Più problematica invece la questione relativa alla net neutrality, considerato che si tratta di un principio comunemente dato per acquisito ed immodificabile, una sorta di principio naturale proprio di Internet e del suo utilizzo.
La proposta della FCC (210 pagine, che, confesso, non ho letto, ed è un eufemismo, integralmente) può portare a una maggiore trasparenza, ad una maggiore diffusione di informazioni, a maggiore innovazione. Ma potrebbe portare, proprio “grazie” alla fine della net neutrality, ad effetti molto diversi, se non opposti, con la chiusura, o almeno il restringimento del mercato, e a due (o più) reti sostanzialmente differenti. Una (o più), per chi paga, più veloce ed affidabile, ed un’altra, per chi non paga, nei limiti di quanto detto sopra. Inoltre, le proposte su concorrenza e trasparenza non sono necessariamente legate alla fine della net neutrality. Imporre ai service provider (ISP) maggiore chiarezza e diffondere informazioni tecniche agli imprenditori potrebbe essere fatto mantenendo la neutralità della Rete: presentarle insieme è un modo per guadagnare consenso.

L’accesso libero e paritario a qualsiasi contenuto è ritenuto essenziale da tutte le associazioni che si stanno opponendo alla proposta di Pai. In assenza di regole sulla net neutrality, aziende molto grandi potrebbero per esempio pagare gli ISP per ottenere trattamenti di favore dei loro dati. Come può influire questo sull’e-commerce ad esempio o su altri mercati digitali? Quali rischi vede nella fine della net neutrality?

Per comprendere cosa si intende con net neutrality si fa ricorso generalmente, come spesso accade quando si parla di Internet e cyberspace, a metafore, ed a metafore di luogo: un’autostrada, o una ferrovia, in cui una o più corsie, o uno o più binari, siano riservati a soggetti disposti a pagare di più per avere una maggiore, e non di poco, velocità di crociera. Non si fa riferimento ai consumatori, ma ai fornitori di contenuti, o, meglio ancora, ai fornitori di contenuti pesanti, come detto prima: i loro Tir o i loro treni merci potrebbero sfrecciare rapidamente, mentre chi spedisce altri contenuti avrebbe una Rete più lenta e meno affidabile.
I problemi sono principalmente tre. Il primo è che i costi che questi grandi fornitori di contenuti dovrebbero sopportare sarebbero probabilmente riversati sui consumatori, anche se si potrebbe obiettare che questi ultimi godrebbero di un servizio migliore. Il secondo è che la creazione di più reti, a più velocità, potrebbe abbassare il livello qualitativo della Rete disponibile a tutti, spostandosi sulle altre investimenti e innovazioni. Continuando con le metafore: pensate ad un’autostrada in cui le corsie vengono diminuite, o ad un treno regionale in cui la manutenzione e la pulizia vengono trascurate. Il terzo è che i fornitori di contenuti più piccoli, con minori risorse economiche, si troverebbero in una posizione svantaggiata, fornendo i loro prodotti in un mercato meno attraente, riducendo competitività e quindi concorrenza.
Occorrerà vedere non solo se, ma anche come, il piano dell’amministrazione Trump verrà applicato. Se il livello qualitativo della Rete “ordinaria” sarà garantito, imponendo livelli minimi di servizio, e un percorso di sviluppo continuo, i problemi potranno essere limitati. Se invece si lascerà libero il mercato, il rischio forte è quello di andare verso due velocità e due livelli di “esperienza” sostanzialmente diversi, creando un diverso digital divide: non tra chi ha e chi non ha Internet, ma tra chi ha una Rete efficiente e rapida e chi ha un servizio scadente. Come si dice nel mondo anglosassone, un “service for the poor” è spesso un “poor service”.

Nel 2015 l’amministrazione Obama ha previsto una regolamentazione della net neutrality. Internet ha assunto da allora le vesti di un servizio pubblico negli Stati Uniti. Secondo Lei, internet può essere visto in questi termini?

Internet può essere visto come un servizio pubblico, e può essere visto anche come un diritto fondamentale. L’importante, al di là delle definizioni di principio e delle costruzioni teoriche, è definirne i confini. Un uso gratuito, illimitato, secondo gli standard qualitativi più alti, a casa propria, non sarebbe economicamente sostenibile, e neanche “giusto”, nel momento in cui i costi fossero riversati sulla collettività attraverso lo strumento fiscale (specie in Paesi ad alta evasione fiscale, come il nostro) e vi fossero persone ancora senza casa o in situazioni di povertà. Avere Internet è importante: non morire di freddo di più. Ma predisporre reti wi-fi pubbliche (civiche) gratuite cui tutti possano accedere ed avere un mercato sano, ma anche controllato (per evitare monopoli e pratiche scorrette) che garantisca servizi di qualità a prezzi onesti è la base per far sì che tutti possano usufruire dei benefici della Rete.
Magari per utilizzarla bene, e non per spargere odio, notizie false, o anche solo enormi quantità di banalità. Dovrebbe arrivare un momento in cui non ci chiediamo cosa lo Stato, o la Rete, possano fare per noi, ma quello che possiamo fare noi per far crescere la Rete, il dibattito pubblico, la consapevolezza della comunità di utenti. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe lontano. Da docente, che voi studenti ci pensiate non mi dispiace però…

Negli ultimi anni l’Unione Europea si è dotata di un buon regolamento sulla net neutrality, stabilendo limiti e condizioni per gli ISP. Il timore di molte associazioni e osservatori è che un cambiamento così radicale negli Stati Uniti possa portare nel tempo a revisioni delle attuali regole anche in Europa. Lei cosa ne pensa?

Il rischio che l’Europa si adegui c’è. O, meglio, c’è il rischio che, se anche non si adeguasse, le conseguenze pratiche sull’uso di Internet in Europa sarebbero chiaramente percepibili: una doppia velocità negli Stati Uniti non potrebbe che avere, per diverse dinamiche, dirette ed indirette, effetti sulla Rete in tutto il mondo. Qui le metafore su strade e ferrovie non reggerebbero, come accade alle metafore, che evidenziano gli aspetti comuni a due fenomeni, uno conosciuto e uno meno, ma trascurano spesso le differenze, con un processo di assimilazione eccessivo nel momento in cui la metafora diventa la base per una costruzione giuridica. La metafora allora potrebbe fare riferimento al traffico aereo, se vogliamo rimanere al settore dei trasporti. Certo, occorrerebbe un accordo tra USA, UE e altri soggetti: non un’eventualità probabile nel breve periodo e non semplice nemmeno nel medio periodo.
Rimanendo all’ordinamento americano (è quello il campo di battaglia, come spesso, quando si parla di Internet, accade), le proteste degli utenti, la situazione politica negli Stati Uniti, le resistenze delle grandi compagnie fornitrici di contenuti, così come l’azione politica dell’Unione Europea, potranno sicuramente incidere, ma non so fare previsioni.
Quello che è rilevante, però, è altro.
In primo luogo, non bisogna considerare la vicenda semplicemente come una contrapposizione tra governo USA e imprese di telecomunicazione, da un lato, e, dall’altro, utenti e grandi fornitori di contenuti: cattivi, e carnefici, i primi e buoni, o addirittura vittime, i secondi. Vero, la fine della net neutrality porterebbe un vantaggio alle grandi “telecom”, ritenute più vicine all’amministrazione Trump, e un danno (scaricabile sugli utenti, però) a Google, Facebook, Netflix, Amazon, ritenute più liberal. Ma occorre anche considerare che la gran parte del traffico della Rete è dovuta a queste ultime, e quindi una loro responsabilità, anche finanziaria, potrebbe non essere del tutto ingiusta.
In secondo luogo, se in questa vicenda le grandi (enormi anzi, per non dire abnormi) imprese fornitrici di contenuti hanno interessi che possono coincidere con quelle dei consumatori, e quindi possono presentarsi come “buone”, bisogna ricordarsi che esse, in altri settori (pensiamo solamente alla gestione dei dati personali, ed alla conseguente invasiva profilazione), di fatto, tengono comportamenti molto aggressivi e poco trasparenti nei confronti degli utenti. Se gratuitamente possiamo aprire una pagina su un social network o avere un indirizzo e-mail o cercare qualcosa su un motore di ricerca non è per filantropia: il “prodotto” siamo noi. Quanto all’apertura della Rete, basti pensare al piano di diffusione della Rete in India da parte di Facebook. Dietro ad un intento dichiarato filantropico (estendere la rete a decine di milioni di persone, gratuitamente o quasi), si celava la volontà di offrire une Rete con Facebook e pochi altri contenuti, aprendo sì un mercato, ma a Facebook stesso, e chiudendolo immediatamente a tutti gli altri, con buona pace della concorrenza: “non esiste un pasto gratis”.
In sostanza, occorre scremare il dibattito dalla retorica (copiosa e bidirezionale, in questo ambito) e andare a monitorare e valutare quello che sta accadendo con informazioni precise e spirito critico. Ciò è vero (e nei fatti raro) per tutto quello che riguarda la Rete.

Giulia Castelli

Studio Giurisprudenza, ogni tanto scrivo. Fondatrice ed ex presidente dell'associazione editrice de l'Universitario.

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