In che ruolo giochi: lo sport in una prospettiva di genere

Venerdì 8 marzo presso l’Aula Kessler del Dipartimento di Sociologia si è tenuto l’incontro “IN CHE RUOLO GIOCHI: LO SPORT IN UNA PROSPETTIVA DI GENERE”, introdotto e moderato da Alessia Tuselli, del Centro di Studi Interdisciplinari di Genere.

Sono state chiamate a intervenire tre donne che fanno parte del mondo calcistico: Patrizia Panico, emblema del calcio femminile italiano, ex calciatrice e attualmente allenatrice della nazionale under 16 maschile, prima donna ad allenare una nazionale maschile in Italia; Alessandra Tonelli, volto ben noto nel panorama calcistico femminile regionale, attualmente giocatrice dell’ASD Trento Clarentia, ha militato anche in serie A, serie A2 e serie B, ora è anche allenatrice; Rita Csako, presidentessa da anni dei gialloblù, dopo essere stata prima mamma tifosa in tribuna e poi dirigente.

Si tratta di un periodo importante per il calcio femminile, con la nazionale guidata da Milena Bertolini qualificata ai mondiali dopo venti anni dall’ultima vota e con le recenti polemiche sulle donne che parlano di tattica.  Ed è proprio da qui, in particolare dal commento di Fulvio Collovati a Quelli che il calcio (“Quando sento una donna […] parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco“), che parte questo incontro incentrato sulle tre protagoniste e sul loro ruolo nel mondo calcistico, ma che inevitabilmente ha dovuto confrontarsi anche con i soliti stereotipi rivolti al calcio femminile.

Patrizia Panico ha per prima cosa cercato di spiegare quale sarebbe il vero problema tra le donne in televisione e il calcio. Secondo l’allenatrice, il problema principale è che nei salotti post-gare le donne chiamate a parlare di calcio non sono competenti o qualificate. Normalmente, infatti, si tratta di veline o di mogli di calciatori, persone che spesso hanno una conoscenza limitata di quello che parlano. Ma, come rileva Patrizia, se si tratta di un uomo che parla di calcio e dice qualche scemenza, si accusa la sua persona; se però è una donna a parlare, allora si generalizza e non è soltanto lei a non capirci niente, ma tutto il genere femminile. Lo sa bene lei, che da ex calciatrice ogni volta che scendeva in campo sentiva di dover dimostrare sempre qualcosa agli uomini sugli spalti che la guardavano, e che ora da allenatrice di una nazionale maschile sente sempre i riflettori puntati su di lei, gli sguardi di chi attende che faccia un passo falso, che dica qualcosa di sbagliato, per accusare non solo lei, ma tutto il genere donna. E ora lei non ci sta più. Perché alla fine è un problema che riguarda solo gli adulti: nelle vesti di allenatrice, infatti, ha potuto constatare che ai ragazzi in fondo non importa se c’è un uomo o una donna seduto in panchina. Loro guardano la competenza, una cosa che molti sembrano aver dimenticato. Racconta la stessa Patrizia: “I ragazzi a quell’età vogliono semplicemente una persona che li sappia guidare, poi del genere non gliene importa granché. Ho trovato più resistenze da parte degli adulti chiaramente, soprattutto dagli allenatori più che dai genitori. Come se si sentissero anche un po’ derubati del loro privilegio e monopolio e avessero paura di dover dividere le panchine anche con le donne”

Per Patrizia una soluzione è sconfiggere questa paura dell’ignoto, di questo calcio femminile che non si conosce. Per questo gira il più possibile, parlando di calcio e di donne che giocano a calcio, per far conoscere una voce femminile che possa parlare di questo sport, perché solo attraverso la conoscenza si possono abbattere determinati muri.

Fortunatamente, come racconta Alessandra Tonelli, giocatrice del Clarentia, ad oggi le cose stanno lentamente migliorando: ora, infatti, le ragazze che vogliono giocare e che hanno questa passione hanno una prospettiva futura, tanto da poter ambire a giocare in squadre come la Juventus.

Ma i problemi da risolvere sono ancora molti, uno dei quali è l’insufficiente numero di squadre under 14, under 10 o under 8 femminili. Le ragazzine di quell’età, infatti, spesso giocano in squadre maschili fino a quando è loro concesso, ovvero fino ai sedici anni. Da una parte può essere una scelta, perché allenarsi con i ragazzi può dare competenze tecniche che forse in un club femminile non si raggiungerebbero, ma dall’altra spesso si tratta dell’unico modo che le bambine hanno per giocare.

Come fa notare il presidente dell’ASD Trento Clarentia Calcio, Rita Csako, nonostante i progressi fatti ancora oggi molte giocatrici devono macinare chilometri per potersi allenare in una squadra femminile, non essendocene a sufficienza, mentre i ragazzi spesso hanno il campo sotto casa. Giocare in una società maschile perciò sembra anche più facile a livello organizzativo, ma arrivate allo scoglio dei sedici anni alle ragazze si ripropone il problema: dove posso andare per continuare a giocare? C’è una squadra femminile abbastanza vicina? Alcune smettono, non trovando soluzioni a loro congeniali, altre devono contare sull’aiuto e gli sforzi della famiglia.

Ma non è un problema solo delle realtà più piccole: come ha racconto Alessandra, anche se una ragazza trentina decidesse di puntare a giocare ad alto livello, la società più vicina è a Verona, per cui si tratta sempre di cento chilometri di distanza.

Sono anni che il calcio femminile lotta silenziosamente, crescendo conquista dopo conquista, ma alcuni scogli sembrano ancora troppo grandi da affrontare. In particolare, la legge 91 del 1981 blocca ogni possibile apertura verso il professionismo, e non solo per il calcio femminile: si tratta di una legge che distingue il professionismo sportivo e il dilettantismo in base alla qualificazione data dalla Federazione di appartenenza. Ad oggi solo quattro discipline sono considerate professionistiche: calcio, basket, golf e ciclismo su strada. E, sorpresa delle sorprese, vale solo per gli atleti maschi! Dunque persino atlete come Federica Pellegrini fanno parte della categoria dilettanti.

Non essere riconosciuti come professionisti porta alcuni atleti ad avere una doppia carriera, lavorando e conducendo contemporaneamente una vita da professionista sportivo, magari allenandosi anche due volte al giorno. Perché alla fine è quello lo stile di vita richiesto se si vuole vincere e non tutti purtroppo possono permetterlo. Chi non ce la fa prima o poi è costretto a fare una scelta e spesso deve abbandonare lo sport.

Oggi però, come ha ricordato Patrizia Panico, per il calcio femminile qualcosa sta cambiando a livello nazionale. A seguito degli sforzi compiuti dalla FIFA e dalla UEFA per promuovere il calcio femminile, anche la FIGC si è messa in gioco “mettendo dei paletti” alle squadre professionistiche maschili, come il tesseramento di almeno venti nuove giocatrici under 12, venti in più di quanto era già stato richiesto nella stagione precedente. Inoltre viene loro richiesta la presenza di almeno una squadra femminile che partecipi al Campionato Giovanissime e di almeno una squadra femminile per il Campionato Allieve. In alternativa al tesseramento di venti nuove calciatrici Under 12, le società avrebbero potuto “prendere sotto la loro ala protettiva” una società di calcio femminile militante nei Campionati di Serie A o di Serie B.

I club professionistici, che avrebbero potuto cavarsela con una multa abbastanza leggera, hanno invece creduto nel progetto e investito nel calcio femminile, portando così sponsor e televisioni. Il cambiamento più importante è stato dato proprio da SKY, che rappresenta un must per gli appassionati di calcio: garantendo la trasmissione di una partita a settimana del campionato di Serie A femminile, infatti, ha dato maggiore visibilità a questo sport. E sembra essere stato un investimento andato a buon fine, dato che gli ascolti, secondo la moderatrice dell’incontro, sembrano essere abbastanza alti.

Ma d’altra parte il calcio femminile è uno sport in costante crescita e ad oggi in Italia siamo arrivati ad avere ben 23 903 tesserate, quasi duecento tesserate in più rispetto al 2017.

Ma nonostante questi grandi risultati, l’interesse per il calcio femminile, almeno in Italia, è ancora scarso, rovinato dai pregiudizi e dagli stereotipi che permangono.

Alessandra Tonelli ha raccontato, ad esempio, di come al liceo le sia stato chiesto se giocava con un Super Tele (il classico pallone di plastica che si vede sulla spiaggia). Forse commenti così sono ora diventati rari, ma è innegabile che nel mondo calcistico vi sia ancora una forte discriminazione verso l’ambiente femminile. È sufficiente spendere cinque minuti su internet, magari cercando qualche video in cui gioca la nostra stessa nazionale femminile, per individuare commenti come “Questo è un livello da oratorio”, “È uno sport per uomini, meglio che facciano uno sport adatto a loro” e “Il calcio non fa per voi”.

Tralasciando l’ignoranza che traspare da certi commenti, il problema più grosso è sotto il naso di tutti, ma sembra impossibile da eliminare: nel mondo calcistico vi è un continuo paragone tra gli uomini e le donne.

Il senso di questo confronto? Nessuno. Negli altri sport, per fortuna, è normale considerare la componente femminile diversa da quella maschile ed è concepito che un uomo e una donna ottengano risultati diversi. Nel calcio invece no, non si può fare a meno di notare quanto quella giocatrice sia più lenta, meno tecnica e via dicendo.

Secondo Patrizia Panico, si tratta solo di una questione di abitudine. L’occhio è abituato a vedere un solo ritmo di calcio, quello maschile, perché è l’unico trasmesso in televisione. Diamo dunque tempo al tempo, e speriamo che la gente maturi e si informi di più.

E magari un giorno, in futuro, si potrà fare di nuovo una conferenza così, con ospiti del calcio femminile, che però non dovranno parlare di discriminazioni e stereotipi, ma delle loro carriere, fatte sì di sacrifici, ma non di continue ingiustizie.

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