Una giustizia di transizione mai avuta: l’Italia e il fascismo

È chiaro che uno dei tanti problemi dell’Italia è il fascismo. Anzi, no.

Il problema è il suo passato e la (non) consapevolezza storica di ciò che fu.

Recentemente, tutti abbiamo sentito la notizia dell’insegnante palermitana sanzionata con una sospensione dal servizio di due settimane per aver mancato di censurare i propri alunni, che paragonavano il decreto Salvini alle leggi razziali promulgate nel 1938 in pieno regime fascista. Evento, questo, che ha fatto e fa molto discutere. Per vero, a far discutere parecchio sono anche le iniziative repressive delle forze dell’ordine volte a far scomparire striscioni di protesta anti-salviniani. Chiaro che le due situazioni siano differenti, eppure il commento ricorrente è sempre lo stesso: siamo tornati al fascismo. A queste accuse Salvini e i filo-leghisti non ci stanno: la Lega non è il fascismo e additare il Ministro dell’Interno quale fascista è diffamazione. Insomma, è il solito battibecco tra chi critica l’operato governativo – in particolare di Salvini e della Lega –  e chi, invece, lo difende a spada tratta. Evitando di entrare nel merito della questione e dell’opportunità di certi provvedimenti – sui quali pure ci sarebbe molto da dire – mi concentrerei, piuttosto su un altro problema latente della nostra Repubblica.

Il fascismo in Italia è un tabù. Non nel senso che non se parla o se ne parla sottovoce e in imbarazzo- anzi, è proprio il contrario, spesso se ne parla addirittura a sproposito. Nessuno vuole essere additato come fascista, neanche chi obiettivamente quantomeno qualche propensione verso condotte tipicamente fasciste la ha. Ma facciamo chiarezza.

Citando la Treccani, il termine fascista indica “chi, anche dopo la caduta del fascismo, si fa banditore, fautore o seguace di concezioni e metodi propri del fascismo”, ossia di metodi brutali, repressivi, autoritari improntati su concezioni di esasperato paternalismo statale, corporativismo, stretta gerarchizzazione, monopartitismo e diniego di ogni libertà di pensiero ed espressione. È evidente che rimuovere striscioni di dissenso possa molto facilmente, e quasi intuitivamente, essere accostato ai metodi anzidetti, al pari delle sanzioni disciplinari volte a punire chi non ha censurato l’espressione di un’elaborazione critica e diacronica di fatti oggettivamente veritieri e reali. Certo, per quel che concerne la prima condotta una giustificazione formale c’è: l’art 72 l. 26/1948, che recita come segue:

“Chiunque con qualsiasi mezzo impedisce  o  turba  una  riunione  di propaganda elettorale, sia pubblica che privata,  è  punito  con  la reclusione da uno a tre anni e con la  multa  da  lire  3000  a  lire 15.000. Se l’impedimento proviene da un  pubblico  ufficiale,  la  pena  è della reclusione da due a cinque anni.

Insomma, la ratio è la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza collettiva. Certo, ci vuole un’interpretazione molto lata per paragonare uno striscione di contestazione a un atto impeditivo o turbativo di comizi, ma a sentire il prefetto Franco Gabrielli un’interpretazione lata è sempre stata data e, comunque, dato il particolarmente esacerbato clima generale è necessario prevenire qualsiasi atto possa turbare l’ordine e la sicurezza pubblica.

Sia come sia, questi eventi lasciano perlomeno perplessi. Certo, molti pensano che parlare ancora di fascismo sia anacronistico, altri incitano alla memoria storica ed evidenziano le analogie tra questi fatti e analoghi in epoca fascista – talvolta con stucchevole saccenteria. Tutti, però, prendono le distanze dal fascismo: anche gli estremisti di destra lo ripudiano e ne indicano come altamente improbabile il ritorno. Il punto è che per prendere le distanze da qualcosa, bisogna prima averne cognizione, e in Italia una tale consapevolezza non c’è. La verità è che dopo la caduta del fascismo, noi italiani non abbiamo proprio per niente affrontato la questione. Non ci siamo minimamente preoccupati di occuparci del conflitto sociale scaturito dalla disfatta del regime, ci è bastato impiccare Mussolini e amante vilipendendone i cadaveri e poi pronti per ricostruire il nuovo Stato italiano.

Insomma, ci è mancata una giustizia di transizione: nessun processo, nessuna commissione per la verità, nulla di nulla. Qualche legge di amnistia e poi come se nulla fosse stato. Come quando ti ricordi della figuraccia a 5 anni, quando te la facesti sotto davanti a tutti: via a ricacciare quell’imbarazzante ricordo nel cassetto più recondito possibile della tua memoria. Lo stesso con il fascismo: non si vuole affrontare il tema, e quando si cerca di intavolare un discorso in merito lo si sdogana subito con cliché di vario genere o frasi frettolosamente articolate per scongiurare una reale riflessione in merito. E anche quando si rimembrano i fatti storici, subito, con il lassismo proprio degli italiani ci svincoliamo da qualsiasi possibilità remota di riconoscere le nostre responsabilità attribuendo tutta la colpa all’infinitamente più deplorevole Hitler e al suo nazismo.

Non corrono tempi fecondi per il liberalismo democratico e numerosi sono gli eventi che ci fanno quantomeno stizzire e ripensare a più bui periodi della nostra vita come Stato unitario. Sono questi stessi tempi che ci impongono di, finalmente, fare i conti con il nostro passato e affrontare una questione mai affrontata, per quanto doloroso questo possa essere. Dobbiamo tirare fuori dall’armadio i nostri scheletri e combattere il mostro sotto al nostro letto. Dobbiamo per noi, per i nostri avi e per i posteri. È questo il momento e non possiamo attendere oltre. Prendere atto del nostro passato tormentato è un atto di coraggio strumentale alla soluzione del latente conflitto sociale in Italia.

lorena bisignano

Studentessa di giurisprudenza.

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