Brexit: l’inizio della fine

A  quasi una settimana dal sorprendente risultato del referendum inglese, è forse opportuno deporre l’acrimonia tra i contendenti (e anche tra commentatori, politici e comuni cittadini di tutta Europa) e adoperarsi per un più razionale “fact checking”. A proposito, Sky News riporta che sempre secondo gli infallibili sondaggi proposti al popolo della rete, meno del 40% dei giovanissimi è andato a votare. Ci tenevano proprio a rimanere nell’UE…

Da dove uscirà il Regno Unito?

Nell’ambito del commercio internazionale, il principale beneficio dell’appartenenza ad una Unione di questo tipo, è l’accesso (=la possibilità di importare ed esportare senza dazi e barriere non tariffarie) ad un mercato interno di 503 milioni di persone. I partecipanti all’Unione inoltre, attraverso le istituzioni, sono in grado di esprimere un voto sulle sue politiche economiche e commerciali (con il rischio, però, di essere messi in minoranza).[1] Rimanere fuori tuttavia, non impedisce in nessun modo di stringere accordi commerciali separati “tra pari” con l’Unione. Altrimenti non sarebbe possibile fare l’Erasmus in Norvegia, oppure importare pregiati fichi secchi senza dazi dalla Turchia, o accogliere un cittadino Bielorusso in casa come ragazzo alla pari. Non risulta che la Svizzera sia stata abbandonata dalle multinazionali e che vi abitino solo mucche sorridenti che producono cioccolato.

Lasciato da parte l’aspetto commerciale, che presenta pro e contro, dovrebbe balzare all’occhio il carattere politico cui sono ispirati i trattati fondamento dell’Unione: “lo sviluppo sostenibile, la crescita economica equilibrata, la stabilità dei prezzi, un’economia sociale di mercato fortemente competitiva (art. 3 TUE)”. Politicamente è un messaggio molto forte: davanti a tutto, competizione e bassa inflazione[2].

L’inflazione rappresenta in buona sostanza l’incremento annuale dei prezzi. Come dimostra Philips, essa è connaturata con il tasso di occupazione e quindi è impattata positivamente dall’aumento dei salari (=stipendi). Certamente va controllata, ma non demonizzata. Chi detiene il potere economico ambisce alla stabilità dei prezzi per moderare i salari (aumentando quindi i profitti) o mantenendo intatto il valore dei propri crediti. In un mondo occidentale in cui le lobby finanziarie esprimono in modo molto deciso la linea delle economie occidentali (causando disastri globali come la crisi dei subprime), uno Stato DEVE poter decidere variabili fondamentali come il target di inflazione e di occupazione. Non si tratta di scelte tecniche ma POLITICHE, in quanto vanno ad incidere sulla distribuzione dei redditi dei cittadini: “no taxation without representation”.

L’Unione Europea non può farlo perché 1) è controllata da quegli stessi gruppi di interesse che –nei fatti– impediscono una più equa distribuzione delle ricchezze 2) è un organo eccessivamente burocratico per rispondere efficacemente alle esigenze di politica economica di 28 paesi diversi tra loro.

Al di là della mielosa retorica sui settanta anni di pace (portati invece dalla NATO), è pacifico come la UE sia un metodo politico delle classi dominanti (=i percettori di redditi da capitale, “i capitalisti”), per controllare più facilmente le classi dominate (=i percettori di redditi da lavoro, i “proletari”). Uscirne significa riportare il dibattito politico su binari nazionali, in modo da esercitare un controllo democratico più “vicino” e ricomporre più efficacemente i conflitti di classe.

Per quale motivo il Regno Unito adesso dovrebbe subire un contraccolpo economico e le reazioni dei principali partner commerciali?

Grafico

Conto delle partite correnti del Regno Unito, percentuale su PIL (1950-2015)

Il grafico seguente è il conto delle partite correnti del Regno Unito negli ultimi 60 anni: tra il 2011 (inizio delle politiche di austerità) e il 2016, il deficit del paese sul PIL è passato da -2% circa a -5% del 2015. Economicamente significa che dal Regno Unito escono più soldi di quanti ne entrano: esso è infatti importatore netto nei confronti dell’Europa. Questo vuol dire che sostiene la parte di economia europea rimasta dalle politiche sciagurate di questi anni. Limitargli l’accesso al mercato unico sarebbe come tagliarsi un orecchio perché il vicino di posto in biblioteca ascolta musica brutta. D’altra parte, la Sterlina in rapida svalutazione (se dovesse continuare a scendere) diminuirà le importazioni UK dall’Eurozona, migliorando la bilancia commerciale (=differenza tra beni importati e beni esportati) del paese, colpendo negativamente l’economia del continente. L’importante in questi casi, sono i fondamentali macroeconomici, e il Regno Unito ha le spalle abbastanza larghe per affrontare le sfide del domani, diversamente dall’Eurozona, che è destinata al tracollo.

[1] Senza pretesa di essere esaustivi, il principale driver della legislazione inglese è la legislazione europea in materia di agricoltura, pesca, commercio estero, ambiente. Altri settori come la previdenza sociale, il servizio sanitario o il welfare, sono di carattere prevalentemente nazionale. https://fullfact.org/europe/uk-law-what-proportion-influenced-eu/

[2] Per fare un esempio contrario, la nostra Costituzione anteporrebbe la Piena Occupazione.

 

 

Alberto Bagnara

24 anni, studente di Economia e Management Internazionale.

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