Perchè la questione curda può aspettare

“Una rivolta generale nel Kurdistan al momento attuale potrebbe forse causare la caduta dell’impero ottomano, già vacillante nelle sue fondamenta”. Così, nel 1879, il diplomatico inglese Henry Trotter poneva dei paletti a delle rivendicazioni indipendentiste che se sostenute oltre i limiti della retorica e degli appoggi funzionali (e perciò temporanei), avrebbero potuto mettere in seria difficoltà gli equilibri geopolitici della regione. Ai curdi sarebbe stato concesso di minacciare l’Impero persiano ma non al punto tale da offrire a San Pietroburgo un pretesto per intervenire militarmente sul territorio ottenendo così una posizione di forza al confine ottomano.

La storia curda si ripete allo stesso modo, con un popolo sballottato tra una sponda e l’altra degli interessi strategici delle grandi potenze e che si aggrappa in maniera maldestra alle corde di salvataggio degli estimatori o dei soccorritori di turno. Il mantra curdo si rinnova: sperare che, alla fine della bufera, tali corde non vengano gettate in mare e che non risorga la necessità di liberarsi nuovamente da una trappola mascheratasi da assistenza e di vagare in cerca di appigli più affidabili.

Uno scenario simile si ripropone oggi nel Kurdistan iracheno (Krg, Regione autonoma del Kurdistan), a poche settimane da un referendum consultivo indetto allo scopo di dare al governo locale una legittimazione di massa verso le trattative per negoziare l’autonomia da Baghdad. Facciamo prima il punto su come si è arrivati al presente stato di cose.

1. Il Kurdistan

2. La guerra in Siria

3. Il presente

  1. Il Kurdistan

Il 1992 segna il momento della svolta per i curdo-iracheni. Stanziati nel nord dello Stato all’epoca governato da Saddam Hussein, i curdi delle città di Erbil e di Sulaymaniyya approffittano della tensione tra il leader baathista e il Pentagono per dare inizio allo storico “raparim” (rivolta curdo-irachena). In sostanza, la no-fly zone imposta dagli Usa ad Hussein nel corso dell’Operazione Desert Storm (liberazione del Kuwait) fa sì che venga interrotta quella diretta dipendenza della regione dal governo centrale iracheno entrata in vigore definitivamente con il Trattato di Losanna del 1923. Il Krg nasce tuttavia propriamente solo nel 1998: le fazioni politico-tribali di spicco, non avendo trovato da subito un’intesa, furono ancora una volta spodestate da Saddam Hussein nel ’96 e solo i bombardamenti americani furono capaci di porre fine alla guerra civile e a sancire un autonomia sostanziale in uno Stato iracheno che assunse da quel momento in poi un assetto federale.

“L’accordo di Washington” permise così un’intesa tra i due principali contendenti, il Puk (Unione patriottica del Kurdistan) e il Kdp (Partito Democratico del Kurdistan). Ecco un inquadramento generale sui due soggetti politici.

Nel primo caso, abbiamo a che fare con una formazione politica affiliata al Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), l’associazione di curdo-turchi bandita da Ankara e dichiarata terroristica dalla comunità internazionale. Il leader del Puk, Talabani, intrattiene contatti con Teheran ma è in calo: soffocato da scandali di corruzione e messo in ombra da una nascente forza politica (“Gorran”, Partito del cambiamento) che fa leva sulle rivendicazioni giovanili antagoniste alla vecchia classe dirigente, vira sempre di più ai margini della partita politica interna.

Il Kdp dei democratici è invece in mano al clan dei Barzani, che di generazione in generazione sforna leader potenti e carismatici. Da ormai dodici anni è in carica Masoud, l’ideatore del referendum del 25 settembre. Il suo partito, partner di Erdogan nella gestione dei “suoi curdi” poichè rivale del patriottico Puk (e, quindi, del Pkk dei lavoratori), ha mantenuto gli accordi del 1998 con la controparte fino al 2015, per poi guadagnarsi la leadership quasi totale del Krg – la regione autonoma. “Quasi” in quanto il territorio della regione si presenta come una realtà amministrata secondo canoni feudali. Le due tribù si spartiscono il controllo dei centri di Erbil (il Kdp) e Sulaymaniyya (il Puk) – con due gestioni indipendenti, e la fiorente attività agricola e commerciale di questi poli rappresenta l’unica nota positiva in un’economia irachena al collasso.

  1. La guerra in Siria

L’equilibrio appena disegnato volge tuttavia a sfaldarsi a partire dalla guerra siriana. Il Krg – la regione irachena autonoma, come i suoi cugini curdo-siriani del Rojava (Kurdistan occidentale, attuale Siria nord orientale), ottiene un’impressionante risonanza mediatica dovuta all’”eroica” resistenza opposta ai miliziani dell’IS. Il Krg, sostenuto dalla diplomazia d’oltreoceano, accoglie inoltre – tra 2015 e 2016 – 1,6 milioni di rifugiati siriani (più di un quarto della sua popolazione totale) beneficiando di cospicui sussidi offerti dalle Nazioni Unite.

  1. Il presente

Arriviamo finalmente al presente, con il presidente Masoud Barzani che in un clima del tutto favorevole – ulteriormente facilitato dal declino del Puk e dalla morte del suo leader del Gorran – chiama alle urne il popolo curdo-iracheno sottoponendo il seguente quesito relativo al referendum consultivo:

“Vuoi che la regione curda e le aree del Kurdistan fuori dall’amministrazione regionale diventino uno Stato indipendente?”

La mossa di Barzani è evidentemente politica, visto il carattere non vincolante della consultazione. Va dunque riconosciuto a quest’ultimo un obiettivo duplice, una dimostrazione di forza su più fronti.

In ambito interno, Barzani si appella senza giri di parole alla vexata quaestio dell’indipendenza curda. Un tema, quello del nazionalismo, troppo caro alla popolazione per dividerne le fazioni; al contrario, per le figure dell’opposizione sarebbe evidentemente impopolare prendere le parti del “No”. Un approvazione plebiscitaria incrementerebbe il suo potere in vista delle elezioni politiche da egli stesso anticipate al 6 Novembre.

Parallelamente, in ambito estero il presidente curdo-iracheno potrà presentarsi con vesti autorevoli al tavolo delle trattative con Baghdad solo se supportato da una folta base di consensi – i quali includono anche aree ricche e contese come Kirkuk.

Il risultato del voto è come previsto schiacciante: il “Sì” è stato selezionato dal 92.7% dei votanti (il 72% degli aventi diritto). Secca e immediata è la condanna delle potenze della regione a partire, naturalmente, dal presidente iracheno Haydar al-‘Abadi il quale annuncia: “Il controllo degli aeroporti deve tornare al governo iracheno, altrimenti saranno vietati tutti i voli internazionali da e per il Paese”. Ancora più tonituanti rispondono Teheran e Ankara, la prima intenzionata a sospendere i voli verso la regione e la seconda che con le dichiarazioni di Erdogan avverte i curdi che il “rischio di una guerra etnica e confessionale” tiene la Turchia “pronta a considerare tutte le opzioni, anche quella militare”. In tutti e due i casi, è evidente l’intenzione delle due repubbliche mediorientali di scongiurare qualsiasi ipotesi di deriva autonomista che possa ispirare le proprie minoranze interne. A dir la verità, Erdogan e ancor di più Rohani hanno ormai archiviato la “pratica curda” e inoltre, da una parte e dall’altra, vedono nel Krg un partner affidabile – la Turchia per gli importanti legami commerciali sulle fonti energetiche della regione e l’Iran per l’alleanza con il Puk.

É infine assordante il silenzio della presidenza americana, la più compromessa sulla questione. Negli ambienti di comando statunitensi sono ormai generalmente condivise le simpatie verso il Krg, enclave statunitense in un’area che vede progressivamente ridursi la distanza geografica tra Teheran e il Cremlino. Tuttavia il sostegno fatica ad essere manifesto; far leva sull’indipendenza significherebbe allontanare un alleato insostituibile e secondo in Medio Oriente solamente a Israele: la Turchia di Erdogan.

In questa complessa rete di alleanze, il popolo curdo sembra essere l’unico vero sconfitto. Intrappolato nei sostegni da lui stesso agognati, cerca vanamente uno spiraglio tra le Scilla e Cariddi degli interessi geopolitici dei più grandi. I curdi del Krg, come quelli dell Rojava e di tutte le passate formazioni istituzionali, sono in fondo pedine destabilizzatrici delle potenze egemoniche. Il Krg dovrà attendere ancora a lungo per poter essersi vista garantita la sua autonomia politico-amministrativa. Un taglio netto con Baghdad significherebbe vedersi sbarrare la porta dai vicini e dai lontani. L’ipotesi diplomatica è di poco più sostenibile: il governo di Haydar al-‘Abadi non sembre voler andare di molto oltre alle concessioni già elargite. Il vento non soffia a favore di quest’ultimo: le forze armate irachene sono già tornate in possesso di Kirkuk.

di Andrea Guida, studente di Studi Internazionali

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi