“Donne computer” alla scoperta dei corpi extra-galattici

di Mirco Guerrini

immagine di Osso Magazine

 

Siamo verso la fine del 1800, l’astronomia cresce rapidamente e il primo computer non sarà inventato prima di qualche decennio. La mole di lavoro richiesta è sempre maggiore e inizia a sentirsi la necessità di più personale che si occupi del faticoso compito di analizzare e catalogare ogni stella presente, sulle migliaia di lastre fotografiche prodotte dai telescopi dell’epoca. Inizialmente tale compito viene assegnato a soli uomini, solitamente in un periodo di passaggio verso occupazioni di valore o per arrotondare i guadagni, ma, all’aumentare della richiesta, alcuni osservatori iniziano ad assumere anche delle donne.

 

La leggenda narra che Edward Pickering, gestore dell’Osservatorio di Harvard, si lamentò della scarsa produttività dei suoi assistenti, sostenendo che perfino la sua domestica avrebbe potuto fare un lavoro migliore. Pickering era così convinto della sua affermazione che, poco dopo, assunse la sua governante e, impressionato dalla qualità del suo lavoro, decise di assumere un gruppo di giovani donne che presero il nome di “donne computer”.  Il loro era un lavoro complicato e noioso, che necessitava grande dedizione e rigorosità e, il team di donne costruito da Pickering, mostrò da subito le qualità richieste dal tipo di lavoro, mantenendo una buona produzione ad un costo orario molto inferiore rispetto ai colleghi uomini.

Una di queste donne era Henrietta Swan Leavitt, giovane astronoma con gravi problemi di udito. Colpito dalla dedizione e dalla qualità con cui Henrietta svolgeva il suo compito, Pickering decise di assegnarle l’analisi delle lastre contenenti stelle variabili, particolari stelle la cui luminosità apparente, ossia la luminosità che percepiamo dalla terra, non rimane costante nel tempo, ma varia in modo periodico. Henrietta si concentrò in particolare sulle stelle all’interno della Piccola Nube di Magellano, un ammasso di stelle visibile quasi esclusivamente dall’emisfero australe e osservata per la per la prima volta nel ‘500 dall’esploratore Antonio Pigafetta, durante il viaggio di circumnavigazione terrestre guidato da Magellano. Né lui né nessun altro avrebbe mai potuto intuire la grande scoperta che si celava dietro a quello che pareva un semplice ammasso di stelle. La giovane Henrietta, sempre più entusiasta, non si limitò a un semplice lavoro di catalogazione, ma cominciò a cercare delle relazioni tra i periodi di luminosità delle stelle che studiava. Al tempo di Henrietta non si era ancora capito quale fosse la correlazione tra i periodi di queste particolari stelle. Il problema nasceva nell’incapacità di misurarne le distanze e quindi di conoscerne la luminosità assoluta, ossia la luminosità propria della stella, non quella misurata dalla terra. La Leavitt però ebbe un’idea geniale: studiò le stelle variabili confinate nella Nube di Magellano in modo da poterle assumere, con buona approssimazione, alla stessa distanza dalla Terra.
Grazie a queste misure, nel ‘900 Henrietta scoprì che il periodo di pulsazione era legato alla luminosità assoluta della stella secondo una relazione lineare. Conoscendo quindi il periodo di pulsazione, che l’astronoma americana ricavava analizzando con attenzione le centinaia di lastre fotografiche, era possibile ricavare la luminosità assoluta. A quel punto sarebbe stato sufficiente mettere in relazione la luminosità assoluta con quella apparente rilevata dai telescopi per riuscire ad avere una stima plausibile della distanza di quella stella dalla terra. Questo è un risultato straordinario perché, per la prima volta, sarebbe stato possibile misurare la distanza di oggetti anche molto lontani dalla terra. Sarebbe stato sufficiente trovare una stella variabile in un ammasso di stelle per riuscire a calcolarne la distanza.

La scoperta della Leavitt arrivò in un periodo nel quale il mondo scientifico era diviso in due visioni differenti dell’universo e delle sue dimensioni, basandosi sulla natura di certe nebulose: alcuni scienziati sostenevano che queste fossero semplici agglomerati di gas e polveri presenti all’interno della Via Lattea e che quindi l’interno universo fosse racchiuso nei limiti della nostra galassia, altri credevano che quelle che sembravano nubi fossero in realtà altre galassie, del tutto simili alla nostra, e poste al di fuori di essa, in accordo con una visione dell’universo dai confini inesistenti o comunque più remoti di quanto si pensasse. Grazie agli studi di Henrietta sarebbe stato finalmente possibile verificare quale delle due ipotesi fosse corretta.

L’astronomo Shapley fu uno dei primi a pensare ad un nuovo modello per la Via Lattea. Essa, secondo le sue previsioni, sarebbe stata molto più grande di quanto si pensasse e il Sole non si sarebbe trovato nel suo centro, ma nella periferia. Il centro distava circa 50.000 anni luce e si trovava in direzione della costellazione del Sagittario. Con una Via Lattea così grande, la distanza della Piccola Nube di Magellano, misurata con le relazioni della Leavitt, non era molta. Shapley pensò quindi che non ci fosse niente più in là della nostra galassia e che essa fosse l’interno universo, chiamandola “Grande Galassia”.

Edwin Hubble, pochi anni dopo, identificò delle stelle variabili nella nebulosa di Andromeda. Utilizzando la relazione della Leavitt, l’astrofisico americano calcolò che Andromeda si trovava a una distanza dalla Terra di circa 900.000 anni luce (la distanza attualmente accettata è di 2,5 milioni di anni luce) e che quindi non poteva trovarsi entro i confini della Via Lattea. Questa scoperta fu di fondamentale importanza in quanto cambiò drasticamente la percezione che l’uomo aveva dell’universo.

Hubble capì quindi che la Via Lattea era soltanto una delle numerose galassie del cosmo, da lui chiamate “Universi isola” e formate da stelle, gas, polveri, pianeti e altri corpi celesti, superando la teoria della “Grande Galassia”.

L’ipotesi della presenza di varie galassie oltre alla nostra era già stata formulata a metà del ‘700 da Immanuel Kant, notissimo filosofo tedesco, il quale sviluppò la concezione pluralistica dei mondi di Giordano Bruno, immaginando la Via Lattea come un “Universo isola”, immerso nel vasto mare cosmico insieme ad altri “Universi isola” della sua stessa natura.

Di Henrietta, quindi, non rimangono soltanto vaghi racconti e un cratere sulla Luna a lei dedicato, ma una nuova visione dell’Universo e dei suoi confini, una scoperta che ancora più di prima poneva l’uomo di fronte all’immensità del cosmo.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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