Il mostro è in noi

BONUS TRACKl’intervista di Diego Bianchi a Rossana Rossanda per Propaganda Live.

 

È stato un fine settimana faticoso.

Certo, non più faticoso di altri. Certo, non più tossico di altri. Ma sicuramente è stato un fine settimana faticoso. Partendo da casa nostra e tralasciando tutta una serie inquietante di vicende (l’omicidio di Desirée a San Lorenzo, a Roma, e le reazioni che ha generato; la rievocazione della Marcia su Roma a Predappio; il casino attorno alla legge finanziaria; l’indifferenza verso l’Agitazione Permanente di Non una di Meno) un primo atomo di quella fatica lo abbiamo sperimentato il 21 ottobre e con le elezioni provinciali. Come se fosse necessario, queste hanno confermato un cambio di direzione che ormai dovremmo aver metabolizzato ma che ci stupisce e sorprende ogni volta: no, non parlo dell’arrivo dei barbari. Non credo lo siano.

Parlo, piuttosto, del cambiamento profondo che ha portato ad essere credibili ed affascinanti quelli che una volta avremmo considerato essere mostri. Non è una questione estetica ma di sostanza: non è mostruosa una forza politica che invoca la violenza come strumento di reazione alla violenza? Non lo è quel partito che si impegna a togliere da sotto gli occhi di tutti la fragilità umana di centinaia di migliaia di persone – briciole nel mare molto più magno della sofferenza umana, ma comunque abbastanza da generare in noi una reazione scomposta – indicando in “loro”, migranti, senza fissa dimora, poveri di diversi ordini e gradi, un pericolo, un problema e non una parte della comunità a cui noi tutti apparteniamo?

Attenzione, però: questi non sono meno mostri di quelli di prima e non lo sono perché quella mostruosità non è la “loro” mostruosità, ma è la nostra. È la mia, è la tua. È quella di mia madre, di mio padre, di tua madre e di tuo padre. Della tua ragazza, del tuo ragazzo. Sarà quella di tuo figlio, di tua figlia, quando anche loro saranno della partita. E potrei andare avanti: il mostro non è là fuori, ma è lì dentro. È qui dentro. Deve essere così, altrimenti è inspiegabile l’indifferenza di fronte allo schema dei nostri mostri governativi.

È inspiegabile il modo apatico con cui diciamo «va male, anzi va sempre peggio» e non muoviamo nulla per provare a superare la constatazione dell’ovvio. Indifferenza e rassegnazione, concetti contro i quali due persone molto più intelligenti di me hanno combattuto e combattono tutt’ora: la prima è la senatrice a vita Liliana Segre, che alla lotta all’indifferenza ha dedicato la vita; la seconda è (era) il poeta Bertolt Brecht che, con la sua opera e, in particolare, con la poesia A chi esita ci sprona ad agire in modo ancora così vitale.

Aprendo la nostra prospettiva, vediamo una serie di altri fatti gravi: i voti in Bavaria, prima, ed in Assia, ieri, che hanno restituito un’immagine radicalmente nuova dell’elettorato tedesco, anch’esso proiettato verso un qualcosa di molto simile e al contempo diverso dai leader nostrani (similitudini e differenze che, paradossalmente forse, si riescono a vedere entrambe nelle dichiarazioni della leader della destra sovranista tedesca Alice Weidel). Sta a noi decidere cosa vedere in questo risultato: la sconfitta della Merkel e l’esplosione dell’AfD indica la fine di un ciclo? Certamente. Indica che i venti del sovranismo soffiano con forza anche nel cuore (direi più nella mente, in questo caso) dell’Europa? Certo.

Ma cosa vogliono dire queste due cose? Non vogliono forse dire anche – anche, non “solo” – che il modello di sviluppo sociale, culturale, politico ed economico rappresentato da quella Germania, da quell’Europa, sia da rivedere? Non vogliono forse dire che il neo-liberismo siano essi stessi sintomi e concause della germinazione di questi mostri nelle menti e nelle pance di tutti noi? Sicuramente su questo tema ho più domande che risposte.

Però non sarebbe il caso di prendere atto di quel fallimento e, combattendo indifferenza e rassegnazione, ragionare e lavorare per qualcosa di diverso, senza aspettare che arrivi il deus ex machina, l’uomo (o la donna) del popolo a salvarci da noi stessi? Non sarebbe opportuno provare a salvarsi da soli ma insieme? Perché oggi in tanti, se non tutti, ci salviamo da soli ma per noi stessi: ma che senso ha? Che senso ha salvarci per noi stessi o cercare di salvare solo chi rientra nella cerchia stretta, nel nostro giardino, se attorno la foresta e i campi e le case degli altri stanno andando a fuoco? Davvero non sentiamo il pericolo dell’effetto catena e la necessità di affrontarlo assieme?

In questo, i nostri mostri sono bravi: non indicano le fiamme ma delle figure indistinte, presupposti piromani della nostra quotidianità, contro cui scagliarsi. Poco importa se spesso si tratta di qualcuno che cerca aiuto, per sconfiggere quel fuoco, o cerca di scappare o, addirittura, sta provando a spegnerlo. Il fatto solo d’essere indicati basta a scatenare il mostro, a distogliere l’attenzione.

Apriamo ancora la visuale: finiamo dall’altra parte dell’Atlantico. A sud, il grande Brasile ferito si rifugia tra le calde braccia di un fascista. E non lo dico mica a caso: Jair Bolsonaro è un ex militare che si esprime in modo nostalgico verso la dittatura militare che governò il Brasile per vent’anni, dal 1964 fino al 1984. È xenofobo, omofobo, misogino, non crede nel cambiamento climatico (e nel Paese dove il mondo vede concentrato il suo più grande polmone verde ed uno dei bacini di biodiversità più vasti è qualcosa di drammatico). Ne hanno benedetto l’ascesa Donald Trump, Matteo Salvini e buona parte dei movimenti sovranisti europei: non lo dico per rafforzare l’idea che questi siano barbari che non capiscono la portata di certe scelte ma piuttosto per ribadire un trend. Un trend che accomuna noi, civili europei, e loro, Paesi che contempliamo più come grandi villaggi vacanze e calciatori di talento che come uno dei più grandi ed importanti al mondo. Ed ora è in mano a Bolsonaro.

A nord, le cose non vanno meglio: in Pennsylvania un uomo, bianco, ha sparato in una sinagoga uccidendo 8 persone.

Un uomo. Bianco. Ha sparato in una sinagoga.

Parallelamente, al netto dell’immobilismo di Donald Trump, degli scandali, dell’orrenda vicenda del giudice Kavanaugh che ci ha dimostrato che, in vent’anni, nulla è cambiato nel modo di concepire i rapporti di potere tra uomo e donna, al netto di tutto ciò, dicevo, gli Stati Uniti si stanno apprestando a votare per le elezioni “di metà mandato”. Da questo lato dell’Atlantico (ma credo anche in casa loro), tutti guardiamo al 6 novembre come la data del riscatto, della svolta dopo due anni di governo Trump. Ne sono convinti un po’ tutti. Come per le elezioni del 2016, però.

Ed è vero, nel 2016 è successo qualcosa di anomalo, è vero che si tratta di elezioni non paragonabili, è vero che dopo due anni di Trump una certa parte del Partito Repubblicano ha probabilmente capito l’enormità dell’errore. È vero. Ma noi vediamo la politica americana dalle copertine patinate di Vanity Fair, da cui – sorridente – si sporge Alexandria Ocasio-Cortez, donna, speranza latina di portare un movimento, i Socialisti Democratici e l’anima a sinistra dell’Asinello americano, a prendere in mano le redini del Partito Democratico per trasformarne le dinamiche.

E c’è un ex Presidente, Barack Obama, che gira il Paese portando il contrasto tra quello che ha rappresentato lui e quello che è oggi la Presidenza ma ragionando (o provando a ragionare) su come risvegliare l’animo assopito di molti americani (questo è il suo primo discorso durante questa campagna elettorale: è un po’ lungo ma molti lo hanno valutato come qualcosa di assolutamente anomalo per gli USA).

Indifferenti. Rassegnati.

Basterà? Lo vedremo il 6 novembre: certamente la promessa di Obama non è stata mantenuta, non fino in fondo. Ma è troppo poco il tempo e troppo grande la distanza con Donald Trump per capire se Obama sia stato o meno un buon presidente. O, ancor prima, se l’Obama-pensiero sia stato in un qualche modo efficace.

 

Qual è il senso di tutto ciò? Perché guardare a quelli che sono solo la punta di iceberg malvagi che rendono le acque in cui navighiamo così pericolose? Perché noi?

Non lo so. Però credo che sia importante agire e farlo assieme. Partendo dal piccolo, certo, ma partendo: Poplar è andato anche in questo senso, dimostrando quanto l’unione di anime diverse sia in grado di produrre cose belle. Le miriadi di associazioni presenti in Università e sul territorio fanno lo stesso: continuare a fare rete, a stare insieme sulla stessa barricata, sarà sempre più importante ma ci siamo, operiamo, lottiamo. Le differenze, che esistono, non sono debolezze ma punti di forza.

Ecco, sebbene nel piccolo di Trento è stato mostrato come la comunità universitaria sia in grado di portare la cultura fuori dai rigidi luoghi in cui siamo soliti trovarla. Con essa, si può portare consapevolezza, si possono portare gli strumenti per abbattere la rassegnazione e superare l’indifferenza.

Si può fare, certo, avendo però per primi la forza di superare quelle barriere senza che qualcuno venga a prenderci per mano.

 

Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?

Qualcosa o tutto? Su chi

contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti

via dalla corrente? Resteremo indietro, senza

comprendere più nessuno e da nessuno compresi?

 

O contare sulla buona sorte?

 

Questo tu chiedi. Non aspettarti

nessuna risposta

oltre la tua.

Bertolt Brecht, A chi esita

Emanuele Pastorino

Vivo a Trento, orgogliosamente come immigrato, da un po' di tempo. Membro dell'associazione Ali Aperte.

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