Rifiuto, seconda parte

In questo nuovo articolo della rubrica In punta di piedi concludiamo il discorso sul rifiuto ponendo lo sguardo sull’altra faccia della medaglia: quando siamo noi a dire di no. 

Anche in questo caso, ci sono diversi contesti che possiamo analizzare. Se qualcuno è interessato a noi sentimentalmente, ad esempio, il discorso non è diverso da quello già fatto più volte: non c’è niente di male nel respingere qualcuno e, in teoria, non serve per forza trovare giustificazioni razionali. Spesso capita che qualcuno sembri proprio perfetto per noi e che abbia tutte le caratteristiche ideali che sogniamo da sempre, eppure questo non è abbastanza affinché decidiamo di starci insieme. Quante volte sentiamo dire o diciamo noi in primis: “Cavolo, mi sono comportato proprio stupidamente, avevo una brava persona davanti e me la sono fatta scappare per chissà quale motivo!”. Ora, non che effettivamente esista una legge universale a disciplinare queste situazioni, ma possiamo dire che se, frequentando una persona non sentiamo, non per forza le farfalle nello stomaco, ma almeno la voglia di tenercela stretta perché con lei potrebbe nascere qualcosa di bello, è insensato ripensarci con nostalgia

Il fatto, come abbiamo già detto, è che tutti in fondo cerchiamo un amore sincero e, a lungo termine, difficilmente siamo interessati a qualcosa di superficiale. È comprensibile avere momenti in cui ci sentiamo soli, tristi e vogliamo semplicemente addormentarci tra le braccia di qualcuno, ma cercare questa persona tra quelle che abbiamo rifiutato recentemente è ingiusto nei loro confronti quanto nei nostri, che prenderemmo un impegno con una persona tanto per precludendoci la possibilità di qualcosa di più profondo (come se poi, tra l’altro, stare con qualcuno a cui vuoi bene e con qualcuno di cui sei innamorato dessero la stessa sensazione). Quindi, a meno che non si sia schietti e si mettano subito le cose in chiaro, difficilmente una cosa del genere andrà in porto e anche fosse, sinceramente, sarebbe comunque ingiusta nei confronti di chi prova davvero qualcosa per noi, che meriterebbe di essere ricambiato. Se invece proprio non abbiamo interesse – a prescindere da quanti pregi possa avere la persona in questione, perché non è che i sentimenti si accendono sempre davanti a gentilezza e intelligenza – basta essere rispettosi e, senza troppi giri di parole, dire la verità.

Un’altra circostanza sulla quale può essere interessante riflettere, soprattutto in questo periodo, è quella sociale: quando amici o colleghi ci invitano ad un aperitivo, un pranzo o una cena che sia e noi proprio non abbiamo voglia di uscire e preferiamo rifiutare. 

A questo proposito ci sono più aspetti che meritano attenzione. Innanzitutto, chiaramente, la comodità nel declinare o meno è legata alla confidenza che abbiamo con queste persone. Talvolta è più facile dire di no agli amici di una vita, con i quali magari ci sentiamo a nostro agio ad essere sinceri e dare spiegazioni più specifiche: perché non abbiamo voglia, se c’è qualcosa che non va, che tipo di imprevisto è capitato… Un po’ più difficile, invece, è dare motivazioni a chi conosciamo da poco. Bisogna dire, intanto, che non dobbiamo spiegazioni a nessuno e che non sentirsi disposti a fare qualcosa è già un motivo sufficiente per non farla; è vero anche, però, che rifiutare ogni invito ci può portare a non riceverne più. Quindi, cosa facciamo? Ci sono delle volte in cui uscire fa bene proprio quando non se ne ha voglia e altre in cui serve prendersi del tempo per stare in casa.

Piuttosto che partire da “come reagiranno gli altri al mio rifiuto”, può avere senso iniziare a cercare una risposta guardando la nostra condizione delle ultime settimane: siamo stati tanto tempo sul letto, magari tristi e un po’ demotivati o, invece, abbiamo avuto tanti impegni e passato molto tempo fuori casa? Quanto abbiamo dovuto studiare? Come ci siamo sentiti? E perché proprio così?

Quando si frequentano grandi compagnie dalla composizione più o meno aleatoria, infatti, non è molto logico preoccuparsi della possibile reazione del gruppo semplicemente perché questa reazione, quasi sicuramente, non ci sarà. Inserirsi in un nuovo contesto di cui non si ha il controllo, dato che non si conoscono tutte le persone che ne fanno parte, è una cosa che ognuno fa in primis per se stesso, per esporsi a nuovi stimoli e creare nuovi contatti. La maggior parte di coloro che escono tutti i giorni non lo fa certo per giudicare chi neanche c’è o chi invece si è presentato ma non parla tanto, è in tuta, va via prima o che altro. La voce che a volte, ultimamente, dice che dai, dopo più di un anno di pandemia, ora che si può uscire sei così noioso da non volerlo più fare? è solamente quello che sentiamo: un pensiero che solo noi rivolgiamo a noi stessi, perché sì, gli altri di solito hanno altro a cui pensare o, altrimenti, sono impegnati a giudicarsi a loro volta. Quindi, visto che non c’è niente di male nel pensare un po’ anche a se stessi – anzi, forse, nella quantità giusta, è imprescindibile per poter godere delle esperienze che si fanno fuori dalla propria mente – è giusto capire di cosa si ha bisogno e trovare il proprio ritmo di alternanza tra lo stare in compagnia e in solitudine che, ovviamente, può variare nel tempo. 

Tuttavia, quello a cui forse è giusto prestare attenzione è che questo rapporto non sia eccessivamente sbilanciato per troppo tempo. Chiudersi in casa per intere settimane, così come essere sempre in mezzo alla gente e non concedersi un attimo di solitudine possono essere segnali di qualcosa che non va. Tante persone hanno paura di fermarsi a pensare perché potrebbero, magari, scoppiare e temono quelle sensazioni e realtà che stanno nascondendo sotto il tappeto e trattando come inesistenti; altre, invece, sentono il vuoto nella loro mente in mezzo alla confusione e non riescono a reagire, vorrebbero solo tornare a casa per sentirsi sereni, comodi, invisibili. Il fatto che questi due esempi sembrino un po’ estremi non significa che non siano diffusi: l’ansia sociale è un disturbo in continuo aumento (post pandemia in particolare, come ha testimoniato in un’intervista di tre mesi fa il dottor Massimo Clerici, direttore della clinica di psichiatria del San Gerardo di Monza) – e l’inesistenza di una diagnosi non ne preclude la presenza, anche se talvolta in forme meno marcate – e il sistematico consumo di alcol e droghe, dalle più leggere alle più impegnative, dimostra che, se non tutti, almeno alcuni evidentemente preferiscono non essere lucidi, non pensare, essere disconnessi, leggeri. 

In buona parte dei casi, ad ogni modo, non c’è niente di cui preoccuparsi e va bene dire di no. Se si è in un periodo stressante e si ha bisogno di stare tranquilli possiamo permetterci di declinare qualche invito e, no, gli altri, se sono brave persone, non ci odieranno, non faranno più amicizia tra di loro lasciandoci fuori e non ci parleranno alle spalle; inoltre, se dopo tanti rifiuti, comprensibilmente ci invitano meno spesso, quando ci sentiamo meglio possiamo essere noi a riprendere i contatti, fare proposte, essere più attivi. Ma stare soli non equivale sempre a “prendersi cura di sé” perché a volte, quando si è demoralizzati da un po’, è essere in compagnia il miglior modo di volersi bene: significa, infatti, concedersi la possibilità di far entrare qualcosa di nuovo nelle nostre vite e, magari, di incontrare qualcuno di speciale.

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