EVERGRANDE: LA CINA ALLO SPECCHIO

Evergrande, gigante del settore immobiliare cinese e mondiale, simbolo dell’inarrestabile crescita economica di Pechino, è sull’orlo del fallimento. La sua crisi rispecchia le difficoltà e le contraddizioni del modello economico cinese. Vorrà Xi Jinping salvare Evergrande? Quali le implicazioni su un settore che vale un quarto del PIL cinese?

ASCESA DI UN COLOSSO IMMOBILIARE

1.300 progetti realizzati in oltre 200 città, su terreni per 800.000 km quadrati (quasi 3 volte la superficie dell’Italia), 800 cantieri aperti, oltre 3 milioni di dipendenti (diretti e indiretti), quartier generale a Shenzhen, quotazione alla borsa di Hong Kong, registrazione alle Cayman. Si potrebbe proseguire ancora per rendere l’imponenza della società immobiliare Evergrande Real Estate, una delle più grandi aziende cinesi che ha contribuito alla crescita della Repubblica Popolare e reso il suo patron uno degli uomini più ricchi del mondo. Questa apparentemente inarrestabile ascesa potrebbe trasformarsi in un crollo rovinoso, tale da trascinare con sé non solo Evergrande, ma un intero settore cardine della seconda economia al mondo.

La storia di Evergrande inizia nel 1996, quando il magnate del Guangdong, Xu Jiayin (in cantonese Hui Ka Yan) creò la sua società a Guangzhou (Canton nella forma italiana), inizialmente con il nome di Hengda Group. L’azienda – poi ribattezzata Evergrande Real Estate – si espanse a dismisura, sulla scia della crescita della classe media cinese, motore del consumo e dell’immobiliare e principale cliente di Evergrande, e delle politiche dei dirigenti cinesi, largamente favorevoli al settore immobiliare. Sotto la guida di Xu (Hui) – noto come il magnate invisibile per il carattere discreto, classico self-made man e figlio del boom economico cinese – il gruppo si lanciò in una vasta campagna di acquisti e diversificazione, entrando nel wealth management, nell’industria dell’auto elettrica (costituendo la Evergrande Nev che nelle ambizioni del tycoon cinese avrebbe dovuto sorpassare la Tesla di Elon Musk), del turismo, dell’intrattenimento, del cibo e delle bevande, acquisendo anche il club calcistico più famoso della Cina, il Guangzhou FC. Lo stesso fondatore ne beneficiò: nel 2017, Xu divenne l’uomo più ricco della Cina e dell’Asia con un patrimonio personale di 44 miliardi di dollari e, sebbene questo si sia ridotto drasticamente nell’ultimo anno, il “magnate invisibile” possiede ancora (stando alle stime di Bloomberg) circa 7,8 miliardi di dollari. Per finanziare la sua espansione e i suoi acquisti, Evergrande ha fatto sempre un ampio ricorso al debito, fino ad accumulare 305 miliardi di dollari di debiti. E qui risiede la radice della sua attuale crisi.

Who Is Xu Jiayin? Real Estate Tycoon Becomes China's New Richest Man
Xu Jiayin

LA STRETTA DI PECHINO E LA CRISI IMMOBILIARE

Nel 2020, infatti, il governo cinese ha imposto norme più severe sull’indebitamento del settore immobiliare, al fine di ridurne le speculazioni, riassunte dal Presidente cinese Xi Jinping con la frase “Le case sono fatte per viverci, non per la speculazione”. Evergrande si è dunque ritrovata priva della sua arma principale e ha dovuto ricorrere a forti sconti sugli appartamenti per finanziarsi. Inoltre, nel procurarsi credito l’azienda ha utilizzato metodi alquanto discutibili: infatti, Evergrande ha pagato servizi e prestazioni a fornitori e dipendenti in obbligazioni, promettendo loro lauti guadagni. La stretta da parte del governo cinese ha anche impedito alle società immobiliari di vendere i suoi edifici prima di averne terminato la costruzione: ciò ha privato Evergrande di ulteriore liquidità e messo in crisi sub-appaltatori e costruttori che a loro volta non sono stati più pagati dall’azienda. La crisi è anche sistemica: il mercato immobiliare in Cina è in gravi difficoltà. Le vendite degli appartamenti già costruiti sono in crisi, con 90 milioni di case invendute o sfitte in tutta la Cina. La società di Guangzhou si trova quindi nel bel mezzo di una crisi del mercato immobiliare, con un debito stratosferico, regolamentazioni inasprite e l’impossibilità di ottenere liquidità dalla prevendita degli edifici o dalle banche. Una situazione potenzialmente fatale, che ha fatto per mesi paventare la seria possibilità di bancarotta agli osservatori internazionali. Tali aspettative sono state fortemente riflettute dagli andamenti delle azioni e dei bond Evergrande: da aprile 2021, il gruppo ha perso in borsa l’80% del suo valore. Pressato dagli eventi, Xu si è dimesso dalla guida della principale società del gruppo Evergrande, la Hengda Real Estate, da cui è nata l’intera società.

IL RISCHIO DI BANCAROTTA E IL SUO IMPATTO

Tra i più esposti a un possibile crack di Evergrande sono tutti i clienti che hanno acquistato, prima delle regolamentazioni del 2020, un immobile prima ancora che questo fosse terminato, pagandolo in anticipo. Vi sono poi i dipendenti: 200 mila impiegati in 280 diverse città, con 3 milioni di lavoratori indiretti (fornitori, trasportatori e simili).

I legami con il settore finanziario sono significativi e altrettanto potrebbero esserlo le ripercussioni in caso di bancarotta. Come si diceva, Evergrande ha accumulato 305 miliardi di dollari di debiti. Tali debiti devono essere onorati nei confronti di 171 banche cinesi e 121 istituti finanziari non bancari. Date le sue dimensioni, i debiti di Evergrande vanno ben oltre i confini della Cina: numerosi sono i creditori stranieri, per un totale di 20 miliardi di dollari. La bancarotta sembrava imminente già il 23 settembre, quando allo scadere di una cedola di un bond offshore (un’obbligazione acquistata da investitori internazionali) da 83,5 milioni la società non è riuscita a onorare il pagamento. Evergrande si è però salvata in extremis, poiché è riuscita comunque a corrispondere la cifra ai creditori (tramite la banca americana Citigroup) entro il cosiddetto “periodo di grazia“, ossia 30 giorni di tempo per saldare i debiti a partire dal giorno di scadenza. Al trentesimo giorno, il 23 ottobre, mentre già molti si preparavano al peggio, l’azienda di Xu ha onorato il debito, evitando in extremis il default. Lo stesso copione si è ripetuto su una cedola da 47,5 milioni, pagata oltre la scadenza e sempre a ridosso della fine del mese di tolleranza. Infine, l’11 novembre, con un ritardo di alcuni giorni e mentre la società creditrice tedesca DMSA chiedeva già la bancarotta, Evergrande è riuscita a schivare per la terza volta il default pagando tre cedole di bond offshore da 148 milioni di dollari.

Da queste convulse vicende, pagamenti dell’ultimo minuto prima della bancarotta e cadute sempre più profonde in borsa (tanto da portare a una sospensione temporanea del titolo dalla Borsa di Hong Kong dal 4 al 21 ottobre, periodo in cui la fine sembrava imminente), è evidente che la situazione di Evergrande sia difficilmente sostenibile e che la resa dei conti, per la società e per l’intero settore immobiliare cinese, possa probabilmente essere solo rinviata.

Si è spesso paragonato Evergrande alla Lehman Brothers, la grande banca americana che, fallendo nel 2008, innescò la grande crisi finanziaria ed economica globale. Tuttavia, la società cinese non è paragonabile al defunto colosso americano. Anzitutto, perché a differenza della Lehman, Evergrande non è una banca: la sua principale attività non è nel comparto finanziario e, sebbene la presenza straniera sia nutrita, buona parte degli investitori istituzionali è cinese. In secondo luogo, dal momento che abbiamo già analizzato le passività del gruppo, emerge chiaramente che il peso dei titoli finanziari (obbligazioni in-shore e off-shore) sia significativamente inferiore rispetto ai debiti contratti con clienti e fornitori (circa il 50% del totale).

L’impatto di un fallimento si avvertirebbe dunque principalmente in Cina e sull’immobiliare, evento comunque non desiderabile per due ragioni. Sia perché, come vedremo, il settore immobiliare, di cui Evergrande è esponente di primo piano, ha un peso enorme nell’economia cinese, sia perché la bancarotta potrebbe innescare un credit crunch (“stretta creditizia”). Sostanzialmente, se Evergrande dovesse fallire e non ripagare i debiti, le banche creditrici (e altri istituti finanziari) perderebbero il denaro prestato e sarebbero dunque a corto di liquidità. Con meno prestiti dalle banche, le aziende cinesi potrebbero accedere a molti meno finanziamenti, rallentando così la loro espansione o, nel caso di quelle in difficoltà, rischiando di fallire. In generale, con la riduzione dei finanziamenti ai settori produttivi e un calo degli investimenti, la crescita economica cinese, già rallentata nell’ultimo anno, potrebbe risentirne. Dalle conseguenze di una bancarotta sembrerebbe dunque che Evergrande sia effettivamente troppo grande per fallire. Tuttavia, l’orientamento dei governanti della Repubblica Popolare cinese, primo fra tutti il Presidente Xi Jinping, potrebbe essere differente.

PECHINO, TRA DILEMMI E LINEA DURA

Sono settimane difficili per l’economia cinese. Nel terzo trimestre il PIL è cresciuto soltanto del 4,9%. La crisi immobiliare è la principale responsabile di questo rallentamento. Infatti, il settore immobiliare è diventato il mattone dell’economia cinese, soprattutto dal 2009 in poi, quando la crisi finanziaria globale ha colpito anche l’export cinese. Da allora il governo cinese ha puntato molto sull’immobiliare, incoraggiandone lo sviluppo in due modi. Anzitutto incentivando il credito facile, ovvero senza valutare se gli aiuti pubblici generassero profitti, e in secondo luogo con un basso costo del denaro, garantendo un tasso d’interesse agevolato. A esemplificare il tratto peculiare del capitalismo di Stato cinese, a pianificazione da parte del Partito comunista, è poi il fatto che l’incentivo al settore sia stato messo in atto anche per sostenere le politiche di urbanizzazione e inurbamento dei piani quinquennali del Presidente Xi. L‘immobiliare è stato fatto crescere da Pechino così tanto che ormai vale il 25% del PIL cinese (dati ISPI; secondo Forbes il 26%). Un altro dato che restituisce un’immagine chiara del peso del mattone è che ormai l’80% della ricchezza delle famiglie cinesi è negli immobili. Tuttavia, il mercato è in rallentamento dal 2014 e la pandemia ha peggiorato gravemente la situazione. Il fallimento dei colossi del settore potrebbe rappresentare il colpo di grazia.

Con il caso Evergrande, il governo cinese si trova di fronte a un bivio: dovrebbe lasciar fallire o salvare le aziende in difficoltà? Evergrande, sebbene sia la società più grande in difficoltà, non è la sola del settore a essere a rischio. Stando all’ultimo report di Standard&Poor’s, che ha esaminato oltre 6000 aziende cinesi, i settori dell’edilizia e dell’immobiliare sono i più indebitati, con 9 aziende su 10 oltre la “soglia di guardia” (che hanno cioè contratto un debito ormai difficilmente sostenibile). Se Pechino dovesse scegliere di far fallire Evergrande e altre aziende immobiliari, si innescherebbe una catena di default che porterebbe al fallimento dell’intero settore immobiliare. Dal momento che questo rappresenta il 25% dell’economia, un colpo del genere sarebbe micidiale e porterebbe a far salire ulteriormente il debito. L’altra opzione è l’intervento statale. Ciò potrebbe conferire un grande vantaggio politico a Xi, permettendogli di presentarsi come il salvatore dell’economia nazionale e proteggere la reputazione delle aziende cinesi all’estero. Inoltre, Xi potrebbe cogliere l’occasione per mettere fuori gioco i magnati del settore, proprio in un momento di contrasto tra il Presidente e i grandi imprenditori (si veda il caso di Jack Ma, fondatore di Alibaba e attuale uomo più ricco della Cina). L’ipotesi dell’intervento statale, di certo non nuova in un Paese comunista, è però estremamente costosa: il conto per il salvataggio di Evergrande e soci sarebbe nell’ordine di diverse centinaia di miliardi di dollari.

Xi ha scelto un approccio ibrido, che gli permette da un lato di “punire l’avidità dei grandi imprenditori”, dall’altro di evitare un immane esborso di fondi pubblici. Le autorità cinesi hanno chiesto (o meglio ordinato) al fondatore di Evergrande di pagare i debiti dell’azienda di tasca propria. Ufficialmente il governo non ha fatto nomi, ma nel constatare la situazione in cui versano i colossi del settore immobiliare ha messo in chiaro che non ci sarà nessun salvataggio statale, invitando gli imprenditori a intervenire con il loro patrimonio. Nel caso di Xu Jiayin, Evergrande dovrà onorare nel 2022 circa 7,4 miliardi di bond (onshore e offshore): intervenendo con i suoi 7,8 miliardi, il magnate riuscirebbe a coprire i debiti, prosciugando quasi del tutto il suo patrimonio.

LA NUOVA CINA SOMIGLIA SEMPRE DI PIÙ ALLA VECCHIA

Giorno dopo giorno la nuova Cina somiglia sempre di più alla vecchia. Un Paese all’avanguardia in campo tecnologico e con una classe media in forte espansione, ma con la stessa gestione di un tempo. Dal momento che le scelte di politica economica e di allocazione delle risorse sono dettate dall’ideologia e dalla pianificazione, si assiste alla continua messa in campo di investimenti massicci ma spesso poco redditizi che necessitano dunque di un ulteriore intervento pubblico. Il governo vede il sistema economico come un ingranaggio da utilizzare a proprio piacimento, rispondente agli interessi della politica, negandone la vera funzione, cioè quella di segnalare e premiare le attività veramente redditizie. Al contrario, Pechino si è impegnata a preselezionare settori che intendeva sviluppare (è il caso dell’immobiliare) cercando di renderli profittevoli e attraenti tramite il credito di Stato. La stessa decisione di Xi Jinping di imporre ai grandi capi d’azienda l’obbligo di contribuire con il loro patrimonio alle perdite è dettata anche da motivazioni di ideologia e di partito. Infatti, tale mossa risponde all’idea di Xi di “prosperità comune“, volta a creare una società maggiormente equa e che identifica come avversario “il capitalismo disordinato“, in contrapposizione alla linea di pensiero dell’ex Presidente Deng, secondo cui “arricchirsi è glorioso”. Ancora una volta l’economia è funzionale all’interpretazione dei leader del Partito comunista cinese. Xi sembra impegnato a cambiare, dopo 40 anni, il modello di sviluppo del suo Paese, in un rinnovato spirito di rivoluzione culturale. La crisi dei grandi colossi aziendali rappresenta per lui una sfida, ma anche l’opportunità di scaricare su di loro la responsabilità e promuovere la sua visione. Nel frattempo, quello che accadrà nelle sedi di Evergrande, della Borsa di Hong Kong e, soprattutto, del governo cinese ci dirà se il rallentamento della Cina sia temporaneo o meno.

Aldo Carano

IAI - Istituto Affari Internazionali junior fellow Studente presso il Master in European and International Studies. Laureato in Studi Internazionali, appassionato di politica estera, diplomazia e relazioni transatlantiche

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