Guida al paragone

Quando il confronto con gli altri ci mette in difficoltà, ci sentiamo spesso dire che dobbiamo fregarcene: cosa e come viene fatto, così come l’opinione di chi lo fa, non sono elementi rilevanti quando si tratta di ciò che ci riguarda in prima persona. Tuttavia, poche volte questo atteggiamento risulta efficace: perché? In questo nuovo episodio di In punta di piedi proviamo a rispondere a questa domanda e identifichiamo tre punti da tenere sempre a mente quando vogliamo darci un valore comparandoci al prossimo.

Iniziamo mettendo in chiaro che, come per primo lo psicologo e sociologo Leon Festinger ci ha spiegato, in quanto persone abbiamo un’innata propensione ad analizzarci, spesso tramite il paragone con gli altri: quella che lui chiama Teoria del Confronto Sociale (1954), infatti, si articola in una serie di ipotesi volte a dimostrarlo. Tra queste, la prima che ci interessa particolarmente è la seconda, che sostiene che “non esistendo mezzi oggettivi al di fuori del contesto sociale, le persone valutano le proprie opinioni e abilità comparandosi con quelle altrui”. In altre parole, gli standard con cui siamo soliti giudicarci provengono da una valutazione comparata: come possiamo testare la nostra opinione che un candidato politico sia migliore di un altro, se non accostandola a quella altrui? Allo stesso modo, cosa rende i minuti che impieghiamo a correre un chilometro di strada ottimi o record, se non il confronto con il tempo di percorrenza medio generale? 

Ciononostante, ovviamente, non è possibile metterci tutti sullo stesso piano: ispirandoci alla sua terza ipotesi, infatti, riconosciamo anche che questa propensione al confronto si realizza con chi percepiamo come simile a noi. Per intenderci: se abbiamo appena imparato le regole degli scacchi – recuperando l’esempio portato da Festinger – non ci paragoniamo al nostro maestro, ma a qualcuno di un livello vicino al nostro. Inoltre, è interessante riprendere anche la distinzione tra i due tipi di comparazione possibili: verso l’alto, ovvero osservando chi reputiamo migliore di noi – che è il tipico atteggiamento di quando vogliamo migliorare -, e verso il basso, cioè concentradoci su chi riteniamo ad un livello inferiore, magari per sentirci più a nostro agio con il nostro.

Messo dunque in chiaro che misurarsi attraverso il prossimo è naturale e inevitabile piuttosto che sbagliato e inaccettabile, resta ora da capire come mai a volte ci fa stare male e come possiamo farlo in modo salutare e benefico. Partiamo allora da qui e concludiamo vedendo tre linee guida di base per un giusto confronto.

  1. Focalizzarsi sul quadro completo

Un errore ricorrente è, innanzitutto, quello di raffrontare i prodotti finali non tenendo conto della qualità e della difficoltà dei percorsi compiuti: ciò che emerge da un paragone dei soli risultati non è infatti indicativo del nostro valore in termini di sforzi fatti, quantità di ostacoli superati e risorse a cui abbiamo potuto attingere. Non è che non vada bene paragonare il dimagrimento di una modella con il nostro, per fare un esempio, è che non possiamo ignorare che lei sia seguita dai migliori professionisti del settore e possa permettersi operazioni probabilmente fuori dalla nostra portata. 

Secondariamente, è anche importante non dimenticare che ciò che vediamo sui social, così come quello che i nostri amici o conoscenti scelgono di raccontarci, è spesso una rappresentazione parziale della realtà, tendenzialmente costruita per essere quanto più accattivante possibile. Comparare la verità incompleta di qualcuno con la nostra, che è invece integrale, non è quindi equo e può condurci ad un giudizio inesatto sulle nostre capacità.

  1. Non giudicare il proprio peggio con il meglio degli altri

Ricollegandoci alla riflessione appena fatta, questo punto si spiega da sé: un paragone efficace usa infatti la medesima unità di misura per tutte le parti coinvolte e considera la stessa quantità di variabili, non solo quelle che aumentano il divario tra noi e il prossimo. 

Nel caso delle abilità in particolare poi, come ci spiega Festinger nella sua quarta ipotesi, c’è una spinta a confrontarsi con chi è migliore che risulta sostanzialmente assente nel campo delle opinioni. Questa però, per quanto sia generalmente giudicabile come positiva in termini di ambizione e voglia di mettersi in gioco, rischia di non farci godere il viaggio e farci concentrare solo sulle prossime tappe. Insomma: è lodevole puntare al cielo, ma se in questa infinita corsa non ci fermiamo mai a goderci il panorama – magari anche con un po’ di riconoscenza a noi stessi e gratitudine verso chi ci supporta – che senso ha affannarci tanto? E a cosa ci porta, se non ad essere esausti e mai soddisfatti?

  1. L’unico paragone indice del tuo valore personale è quello con te stesso.

Per quanto sia vero che guardarci intorno e misurarci con il prossimo possa essere positivo e stimolante, è altrettanto oggettivo che questo non può pesare in modo tanto significativo sulla percezione che abbiamo di noi. Come abbiamo già spiegato, l’autostima è infatti frutto di un lavoro privato e personale con se stessi: non può, in altre parole, essere alla mercé dei traguardi di chiunque ci circondi, degli ideali di perfezione della società o dei valori e metri di giudizio di chicchessia. Osservare i percorsi altrui può senz’altro essere una fonte di ispirazione – è anzi forse la più ricca e valida –, ma l’unico modo per pesarsi in termini di valore personale è rivolgere lo sguardo alla propria versione del passato.

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