HEIDEGGER, L’ESSERE E IL LINGUAGGIO

Claude Monet, La gazza, olio su tela, 1868-1869

L’ermeneutica sviluppata a partire dall’Ottocento per merito di Friederich Schleiermacher, e ancora maggiormente quella intesa classicamente come interpretazione di testi e documenti, spesso e volentieri religiosi, sembrano avere poco a che fare con l’ermeneutica che emerge a partire dai primi trent’anni del Ventesimo secolo dalla voce di Martin Heidegger e poi dal prediletto allievo Hans-Georg Gadamer. Quest’ultimo, fin dalle primissime pagine del suo capolavoro filosofico, “verità e metodo”, pubblicato nel 1960, sottolinea subito come il suo tentativo sarà quello di tentare un radicale mutamento di prospettiva rispetto all’ermeneutica pre-heideggerriana: Gadamer, non intende dare un apporto alla metodologia scientifica di interpretazione dei testi, sulla quale si spese moltissimo la scuola Alessandrina con Origene; tuttavia, non si accontenterà nemmeno della prima e fondamentale riqualificazione ermeneutica operata da Schleiermacher, che persegue l’obiettivo di dare vita ad una teoria filosofica della conoscenza interpretativa, che vada ad indagare ogni forma di espressione verbale a partire dalla natura dialogica del pensiero. Il compito dell’ermeneutica di Schleiermacher, va nettamente oltre l’ermeneutica classica, che fornisce semplicemente regole metodologiche utili per giungere ad una corretta interpretazione di un testo, dove va da sé che, l’ermeneutica sarà sempre asservita alla teologia fungendone da vero e proprio mezzo; bensì, il nuovo compito ermeneutico, si fa carica del compito di predisporre l’interprete – ovvero l’ermeneuta –, ad assumere un atteggiamento di autentico ascolto nei confronti del linguaggio che ci soggiunge da fuori, onde poterlo effettivamente e realmente comprendere nel suo intimo. Schleiermacher, è tra i primi filosofi a rendersi conto che l’ermeneutica, differentemente dall’accezione fino a lui in voga, si manifesta in primo luogo nel fatto che alla base della vita dell’uomo come essere pensante, sta sempre un’operazione di interpretazione linguistica, co-originaria ed essenziale al nostro essere nel mondo. Se l’uomo è comunicazione dialogica che si serve del linguaggio, secondo Schleiermacher, la comprensione di un messaggio linguistico richiede che l’interprete sviluppi una profonda affinità con il partner. Il fine ultimo dell’ermeneutica, è quindi qui quello di ben comprendere un messaggio: condizione possibile se e solo se si tenta di entrare in armonia con la condizione spirituale dell’autore che lo ha prodotto. Tutto il processo ermeneutico, si dischiude quindi in una preparazione all’ascolto inteso come capacità di accogliere il particolare nella sua individualità, all’interno di un processo che per natura è senza sosta. Come dirà circa un secolo dopo Willhelm Dilthey, dato che l’esperienza vissuta di soggetto senziente si condensa nell’espressione linguistica, l’ermeneutica dovrà essere in grado di compiere il processo inverso che passa dall’espressione linguistica alla comprensione dell’interiorità del soggetto.

La seconda svolta ermeneutica operata da Heidegger e Gadamer, sarà ben più radicale di quella vista fin’ora grazie ai padri dell’ermerneutica filosofica Schleiermacher e Dilthey. Infatti, se nella prima svolta, il focus era sui problemi filosofici connessi all’interpretazione e alla comprensione; in Heidegger e Gadamer si tratta di mettere a tema qualcosa di ben più grande, inteso come tentativo di cogliere comprensione, interpretazione ed ascolto come strutture fondamentali dell’esistenza umana. Comunicazione e interpretazione, slivellano dall’essere mezzi per comprendere la natura umana, al divenire essi stessi componenti della strutturazione della natura dell’uomo. In termini tecnici, si può parlare del passaggio da una gnoseologia ermeneutica con Schleiermacher e Dilthey, ad un’ermeneutica destinata a comprendere anche quella gnoseologica, tuttavia improntata in un’orizzonte ontologico.

L’ermeneutica del Novecento, conferisce piena dignità teorica alla circolarità erneneutica, che da sempre ha afflitto come problema inrisolvibile l’ermeneutica classica. Già i filologi alessandrini avevano scoperto l’inesausto processo circolare tra il tutto e le parti, ovvero il fatto che per comprendere una porzione di un testo era necessario avere presente l’intera articolazione dell’opera, che può essere tale solo se integrata attraverso la chiarificazione delle parti. Come ben capirà Schleiermacher, questa circolarità innesca un processo di rimando tra il tutto e le parti che è infinito ed inesauribile, all’interno di un meccanismo di comprensione che mai potrà considerarsi compiuto. Questo problema della circolarità ermeneutica, implicherà l’impossibilità di trovare un fondamento univoco della disciplina. Solo con Heidegger il problema della circolarità e dell’infondabilità oggettiva della disciplina troverà risposta.

Heidegger per primo assume il processo circolare come modalità costitutiva del processo di comprensione, dal quale è impossibile uscire o scappare: questa circolarità, è il rapporto strutturale e ineludibile attraverso il quale uomo e mondo reciprocamente si relazionano. Heidegger, analizzando il concetto di circolarità, mette in luce la ricorsività tra soggetto osservatore ed oggetto osservato, facendo da ogni punti di vista cadere quel dualismo da cui tutta la filosofia occidentale da Platone in avanti è irretita. Infatti, soggetto ed oggetto, sono e sempre saranno in un rapporto reciproco: ciascuno dei due modifica l’altro indipendentemente, dato che l’oggetto di conoscenza è in grado di modificare l’osservatore offrendogli informazioni, ma, al contempo, il soggetto che osserva e conosce modifica l’oggetto con il suo sforzo interpretativo e di comprensione. Questa circolarità è ineludibile, in quanto la comprensione e l’interpretazione, insieme, costituiscono due dei quattro esistenziali che caratterizzano la modalità attraverso cui l’esser-ci è nel mondo. Dunque, parafrasando l’Heidegger di Essere e Tempo, l’importante non è sfuggire dal circolo, ma starvi dentro nella maniera più corretta, dato che la circolarità della comprensione è l’espressione della pre-struttura ontologica e gnoseologica dell’esser-ci. I quattro esistenziali, sono per Heidegger una sorta di patrimonio culturale e genetico di significati che pre-orienta ogni nostra relazione con il mondo. Pertanto, non bisogna scapparvi, per il fatto che rappresentano la stessa possibilità per l’uomo di entrare in contatto con il mondo. La conoscenza dunque, per sua natura e per quanto possa essere proposta come oggettiva, disinteressata e neutrale, non potrà mai esserlo poichè profonda le sue radici nella pre-comprensione. Questa indistricabile coappartenenza tra soggetto ed oggetto implicata dalla circolarità ermeneutica, desautora la validità filosofica stessa dei termini “soggetto” ed “oggetto”. Non è possibile in questo senso né una conoscenza soggettiva né una oggettiva, per via del fatto che il conosciuto è già dentro l’orizzonte semantico del conoscente che a sua volta è già dentro il mondo che il conosciuto determina. Per questo, il mondo dell’esser-ci, è un’orizzonte, ovvero un’apertura verso le altre possibilità di esistenza, profondamente diverso dal territorio fisico degli animali, considerando che la circolarità implica un’inesausto ed inesauribile processo di comprensione.

Così come nel caso della circolarità, assunta da Heidegger non come un problema, bensì come cifra costitutiva dell’Esser-ci nel mondo; allo stesso modo, la problematicità di una fondazione epistemologica della disciplina, diretta conseguenza dell’irrisolvilità della circolarità, viene accolta non come un problema irrisolto e da superare, ma come tratto peculiare e distintivo delle scienze moderne. Chi ha effettivamente messo in crisi la nozione di fondamento, sono stati coloro che poi, verranno con molta fortuna rinominati da Paul Ricour i maestri del sospetto. Kierkegaard, Marx, Schopehauer, Nietzsche e Freud, hanno per primi svelato al mondo l’ingenuità della riflessione umana, mostrando come questa non possa essere un atto libero della soggettività che perviene alla piena autotrasparenza: basti per fare un esempio pensare alla dialettica tra parte conscia e inconscia della psiche di Freud, dove viene suggerito che la coscienza è solo una delle istanze della mente umana, in realtà, la meno rivelatoria per via del nascondimento e repressione operata delle pulsioni nella parte inconscia, che verranno manifestate soltanto successivamente mediante le nevrosi corporee. La riflessione filosofica di ciascuno dei maestri del sospetto giunge ad un esito comune: smantellare in modo irreversibile l’imperialismo del cogito cartesiano, dimostrando l’impossibilità per la ragione di rendere la realtà al soggetto trasparente ed autoevidente. Lo scetticismo verso la possibilità del fondamento, non colpisce soltanto la filosofia, ma anche la fisica, che a partire dal Novecento si è dovuta abbandonare alla meccanica quantistica ed alla sua visione probabilistica della realtà. Quindi, Heidegger, fonda l’ermeneutica contemporanea sull’idea della dimensione infondata e infondabile dell’esercizio del pensiero, ma anche della stessa natura umana. In una conferenza del 1961, dal titolo “i fondamenti del ventesimo secolo”, Gadamer dirà come il problema, ma anche la forza del pensiero del Novecento è il suo essere “in sospeso sull’abisso”, dopo la netta linea di cesura intrapresa dalla filosofia del sospetto e della rivoluzione quantistica.

La convergenza fenomenologica-ontologica-ermeneutica dell’Heidegger di Essere e Tempo, che tentava di comprendere l’Essere a partire da un’Esser-ci che si interrogava sul senso della propria esistenza – esistere significa interrogarsi sul senso della propria esistenza: per questo vi è una convergenza ontologica ed ermeneutica –, non raggiunge proprio ciò che era l’obiettivo della ricerca: l’Essere in quanto Essere. Il problema di base, è quello di aver voluto fondare la ricerca dell’Essere a partire da un’analisi dell’esistenza dell’ente che dovrebbe fantomaticamente giungere a cogliere qualcosa che va oltre il suo statuto di ente. Banalizzando al massimo, potremmo dire che se l’obiettivo del primo Heidegger era quello di raggiungere l’Essere per mezzo di quella che abbiamo descritto una convergenza tra ontologia ed ermeneutica, in realtà il risultato non va oltre allo statuto di ente dell’ente: non si può comprendere l’essere interrogando un ente come l’uomo. Si arriva così alla svolta ontologica di Heidegger, che abbandona l’esserci per affrontare ed indagare direttamente l’essere stesso nella sua autorivelazione. Ora, non è più l’Esser-ci che pone la domanda sul senso dell’Essere, poiché è lo stesso Essere che manifesta il proprio senso come una specie di luce che l’uomo deve imparare ad accogliere. L’Essere, diventa da ora in avanti non più qualcosa che viene colto dalla domanda dell’Esserci, ma, al contrario, ciò che lascia essere l’Esser-ci. Nel primo Heidegger, la verità era ancora pensata in termini esistenziali, cioè, come una modalità d’essere dell’Esserci; viceversa, nel secondo Heidegger, l’Essere diventa la luce che conferisce la possibilità all’ente di esistere. In altri termini, l’Esser-ci, non è più colui che pone la domanda, bensì l’unico ente in grado di mettersi in ascolto dell’Essere.

Così, Heidegger inizia un percorso per il disvelarsi dell’Essere attraverso il Linguaggio, che dell’essere costituisce la dimora. Heidegger, intende il linguaggio secondo una accezione inedita rispetto a quella tramandata dalla tradizione filosofica: va oltre al linguaggio inteso come attività dell’uomo – Willhelm von humboldt –, sia a quello inteso come espressione – Aristotele –. Il linguaggio, non è secondo Heidegger un meccanismo tipicamente umano e coniato dall’uomo stesso, ideato per un puro utilizzo utilitario e strumentale finalizzato alla possibilità di definire, rappresentare e possedere gli oggetti del mondo circostante con maggiore facilità. Per Heidegger, il discorso della tradizione va rosciato: non è l’uomo che fa essere il linguaggio, ma è il linguaggio, che esiste indipendentemente da ogni presupposto, che fa essere l’uomo. Partendo da una riflessione tradizionale sul linguaggio, si prende per vero l’aberrante idea secondo cui il linguaggio sia una creazione, e di conseguenza un possesso esclusivamente umano, annullando la tesi centrale di Heidegger secondo cui è il linguaggio a parlare, e non l’uomo. Da qui derivano due icastiche affermazioni heideggerriane: «Il linguaggio è linguaggio […]. Il linguaggio parla» (Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, p. 28, ed. Mursia, 2019). Heidegger, si serve di questa affermzione per dimostrare come, il pensiero tradizionale basato sull’idea del linguaggio come mezzo di rappresentazione e sul rapporto soggetto-oggetto, sia da oltrepassare. L’idea per cui il linguaggio è linguaggio, si fonda su di una tautologia ampiamente accettata da Heidegger. Il pensiero tautologico, allontanato dal pensiero razionale e calcolante, viene qui rivalorizzato: infatti, non si tratta nel discorso heideggerriano sul linguaggio di andare avanti, attraverso un’estensione o evoluzione tipica delle scienze matematiche, ma si tratta di ritrovare ciò da cui siamo permeati. La tautologia, ci dice che non dobbiamo andare da nessuna parte rispetto a dove già siamo poiché siamo abitati dal linguaggio, e si tratta solo di riuscire ad ascoltarne la voce. E, dunque, dato che il linguaggio è linguaggio indipendentemente da noi uomini, si tratta di ascoltare il linguaggio in modo tale da riuscire a tornare a dimorare in esso, di cui il nostro parlare è soltanto l’eco. L’uomo risuona il parlare del linguaggio perché non siamo noi i protagonisti del suono: è il linguaggio che parla, ed eventualmente noi parliamo in quanto esseri risuonanti il linguaggio – noi siamo l’eco del linguaggio: siamo l’eco di qualcos’altro –. Dice Heidegger: «Noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogniqualvolta ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare è ascolto del linguaggio, parlando, noi ri-diciamo il Dire che abbiamo ascoltato» (Ibi p. 200). Il modo in cui i mortali parlano davvero è il corrispondere: l’ascoltare la chiamata al suono della quiete. Il cammino verso il linguaggio, quindi, è un itinerario che mai avrà fine di ascolto del linguaggio per cercare di riprodurne la voce – il Linguaggio è inafferrabile ma evocabile senza meta: in questo senso il linguaggio è metafisico –. Tuttavia, per riprodurre la parola del linguaggio serve una radicale inversione di rotta. Infatti, per riuscire ad ascoltare il linguaggio, l’uomo deve farsi ascoltatore passivo e sottomesso, per poi farsi ripetitore attraverso l’uso della poesia pura, quella poesia che, è l’apice del processo di liberazione dalla soggettività per riprodurre l’autentica e semplice purezza del mondo. Il linguaggio umano che realizza pienamente la natura del Linguaggio, è il linguaggio poetico: Heidegger applica qui i risultati acquisiti nei testi sull’origine dell’opera d’arte di poco precedenti alla speculazione sul linguaggio, dove si dice che l’opera d’arte non è imitazione del mondo, bensì tentativo di riproduzione della verità. Il linguaggio dell’autentica poesia, è quel linguaggio che non può mai ridursi sotto una categoria di significato, a differenza del linguaggio scientifico, ma richiede un presupposto differente: quello della parola come donatrice di Essere, ovvero, come luogo dove si eventualizza l’evento dell’essere. Ora, diventa anche più chiaro cosa è da intendersi per ermeneutica con il secondo Heidegger: Ermeneutica, non significa propriamente interpretare, ma è un esporre che reca in sé un annuncio, possibilito dalla capacità di ascoltarne le parole. Ermeneutica, nell’accezione socratica, significava farsi messaggeri degli dei, questa configurazione, viene ripresa da Heidegger come capacità di portare il messaggio e l’annuncio del linguaggio. Quindi, per fare ermeneutica, bisogna rendersi ascoltatori del linguaggio e riproduttori del suo dire attraverso la parola poetica, mediante la quale, il messaggio viene portato come dagli angeli di Dio al mondo; ovvero, il compito del poeta è quello di portare a parola poetica l’esperienza che fa del linguaggio, poiché solo in questo modo, le cose possono essere ed esistere come autentiche: «Nessuna cosa è dove la parola manca. Avremmo potuto andar oltre e proporre l’asserzione: qualcosa è soltanto là dove la parola appropriata, e quindi pertinente, nomina qualcosa come essente e lo fa così essere come tale. […] L’essere di qualunque cosa che è abita nella parola. Ha dunque senso l’affermazione: il linguaggio è la dimora dell’essere»(Ibi p. 132). Per riportarsi all’autenticità, è necessario quindi superare la visione quantitativa, qualificativa, rappresentativa, imperialista del linguaggio umano, per mettersi in ascolto del Dire del Linguaggio, che è fonte dell’essere di tutte le cose: la critica di Heidegger alla sua contemporaneità è quella di vedere gli enti in quanto enti, e niente più, perpetrando una visione inautentica del mondo, lontana dal Linguaggio e quindi dall’essere delle cose. Continua Heidegger: «”Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettendolo in modo che la parola stessa risulta il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene all’essere ogni cosa, qualunque essa sia. Senza la parola che s’identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il “mondo”, sprofonda nel buio insieme all’”io” che porta all’estremo lembo della propria terra, alle fonti dei nomi, ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno» (Ibi p. 140)1. Per tornare indietro al pensiero poetante, bisogna re-gredire: ovvero, tornare al luogo proprio dell’uomo, agli antipodi rispetto al terreno del pro-gresso scientifico. «Quel che richiede il re-gresso nel luogo che è proprio dell’uomo in quanto uomo è d’altra natura rispetto a quello che esige il pro-gresso nel regno delle macchine. Tornare indietro dove già siamo: è questo il modo di procedere sulla via del pensiero, che ora dobbiamo percorrere»(Ibi p. 150). Per tornare al Linguaggio, l’uomo deve abbandonare la visione per cui il linguaggio è lingua, ovvero parlare, perché in questo modo il linguaggio va in direzione dell’uomo e non in quella del linguaggio, giungendo a rappresentare lo sviluppo spirituale del genere umano. Ma, per tornare ad una conoscenza autentica bisogna parlare del linguaggio in quanto linguaggio, e non del linguaggio in quanto creazione umana. I mortali, per giungere nella loro vera patria, devono passare dalla parola umana alla parola del linguaggio, corrispondendo al dire originario. L’uomo, entra così in una servitù liberante trasformando il dire originario che non ha suono nella parola umana che ripete come un’eco il suono della quiete: «L’appropriazione, che si viene così accordando dell’uomo come ascoltatore al Dire originario, ha questo di caratteristico: essa concede all’essere dell’uomo la libertà di accedere al luogo che è suo, ma solo perché l’uomo – come l’essere che parla, che dice – risponde al Dire originario, valendosi di quel che gli è proprio. Il dire dei mortali è “rispondere”. Ogni parola [autentica] che si pronuncia è sempre “risposta”: un dire di rimando, un dire ascoltando. L’appropriazione dei mortali al Dire originario fa che l’essere dell’uomo entri in una servitù liberante, per la quale l’uomo è addetto a trasferire il Dire originario, che non ha suono, nel suono della parola» (Ibi p. 205).

Tutta la riflessione del secondo Heidegger ha l’obiettivo di destrutturare la metafisica occidentale mantenendo un contatto solo con i filosofi presocratici, sentendo egli la necessità di risalire alle radici greche del termine verità. La tradizione filosofica occidentale, utilizza come termine per circoscrivere la “verità” il termine greco “orthotes”, che definisce un’attività umana, non dipendente dalla realtà delle cose, ma dalla correttezza dello sguardo dell’uomo sul mondo. Heidegger, invece, risale al termine “aletheia”, in uso tra i filosofi presocratici, in particolar modo Eraclito. Aletheia significa “rivelazione”, “svelamento”, “dischiudimento”, ovvero, trarre fuori dal nascondimento ciò che è celato. Heidegger, vede nel passaggio dall’accezione presocratica a quella successiva di verità un occultamento progressivo dell’essere. Infatti, il passaggio da “aletheia” ad “orthotes”, sancisce il transito dalla ricerca alla correttezza dello sguardo del soggetto: per questo, secondo Heidegger, tutta la filosofia è marchiata come storia dell’oblio dell’essere. Da qui, l’esigenza maturata in lui, di intraprendere un cammino verso il linguaggio che poggi sull’accezione presocratica di verità.

Bibliografia:

Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, ed. Mursia, 2019

Note:

1La parola trae all’essere e tiene all’essere ogni cosa. Mentre, senza la parola autentica, ovvero la parola che è parolizzarsi del Linguaggio, il mondo e l’io sprofondano nel buio e si inabissano.

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