Jammu-Kashmir: tra la mezzaluna e la ruota di Ashoka

Stato e nazione nell’astratto oriente

Il concetto di Asia meridionale, di recente conio, indica un’area geografica tendenzialmente includente i seguenti stati: India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Nepal, Maldive e Bhutan. Tale concetto rimane politicamente controverso e contestato; pare tuttavia chiaro, al di là del nome con cui si voglia definire suddetta  regione, come la federazione indiana emerga in tale scacchiere come un vero e proprio colosso: se comparata ad altre egemonie in altre zone geografiche del nostro globo (vedasi gli USA nel Nord America per esempio), il livello di disproporzione in termini di popolazione o PIL è veramente estremo, al punto che stati quali Sri Lanka e Nepal, sotto questo punto di vista, sfiorano lontanamente l’importanza di una regione indiana.

Ciò che indubbiamente accomuna queste grandi egemonie asiatiche, Cina, Russia ed India, è il substrato imperiale che accomuna la storia di queste tre superpotenze: l’impero Ming e Qing in Cina; gli zar in Russia e l’impero Mughal, di origine afghana, nel subcontinente indiano, epitome di minoranza che governa su una maggioranza, concetto chiave su cui torneremo in seguito.

Ed è nel crollo di tale impero che troviamo una delle cause prime che hanno portato alle dinamiche attuali nella situazione del Jammu-Kashmir: a seguito di fallimentari politiche espansionistiche nell’ultima fase dell’impero Mughal, caratterizzata, peraltro, da un forte mal governo, dovuto soprattutto a un alto grado di intolleranza religiosa da parte dell’élite musulmana nei confronti della stragrande maggioranza indù, che ne portarono al collasso, seguì una dolorosa definizione dei confini da parte dell’impero britannico. Tali confini furono fattori determinanti nella creazione di quelli odierni, visti oggi dagli studiosi come artificiali e conseguenza di politiche compassate e rudimentali da parte degli inglesi; del resto, il processo di “state building” dello “Stato-nazione” europeo, fortemente intrinseco con il capitalismo, difficilmente si sposa con la regione presa in questione, definita da Wallerstein “un’astrazione inventata”, dove il concetto di Stato, prima dell’imposizione coatta europea, corrispondeva più alla partecipazione dell’individuo a determinati rituali religiosi/celebrazioni piuttosto che a un qualcosa definito entro certi confini. 

È prevalsa pertanto la geografia e la matrice naturale, portando a un forte nazionalismo su tutto il subcontinente come la storia ci insegna, facendo diventare i confini zone estremamente calde (di ciò, la situazione kashmira è l’epitome).

Dunque dal rifiuto di quella matrice spirituale e volontaristica (o meglio da una sua impossibilità di attuazione) si ha la nascita di una forte visione nazionalistica in India (vedasi la vicenda di Sardar Patel, il “Bismarck Indiano”, che tentò di portare il Nizamat di Hyderabad all’interno dell’Unione Indiana). Oggi la questione del Kashmir, giunta al suo 80esimo anno quasi, sta portando a un numero maggiore di vittime. 

Nel suo saggio “How India Became Territorial” (2014), lo scienziato politico Itty Abraham ha evidenziato come sia stimoli interni che esterni abbiano portato l’India ad essere uno stato nazionale poco prono a concedere una cittadinanza sostanzialmente uguale. Tende invece a creare una scala gerarchica dove le minoranze rappresentano i gradini più bassi, come dimostra la cd. “bulldozers campaign”, in cui i veicoli sono divenuti strumento cruciale del BJP nel discriminare la minoranza musulmana.

Abraham, inoltre, in riferimento agli stimoli esterni sopracitati, ci dice: “La tendenza prevalente della comunità internazionale è stata quella di affermare quanto sia importante per l’ordine globale non sfidare o rovesciare i confini territoriali esistenti. La molto più grande e [più] importante sfida, a mio parere, è come trascendere il territorio in quanto base per la formazione della comunità politica”.

Le risposte su cosa possa significare “trascendere” il territorio sono varie; per molti, la vampata pan-islamista dei jihadisti in Kashmir negli anni ‘90 ne è un esempio.

In definitiva, gli stati di tale area fanno riferimento a una serie di principi collanti/fondatori diversi: in Sri Lanka e Nepal, il nazionalismo della maggioranza è mosso da un connubio di etnia, lingua e religione, che porta a una costante tensione con la/le minoranze; in Pakistan, stato decisamente etnicamente più variegato, l’Islam, date le forti pressioni dei cd. “nawab”, è divenuto l’elemento chiave, tradendo i suoi originari intenti costituzionali di essere uno stato sociale tracciante una via di mezzo tra socialismo e capitalismo. In India, invece, pare giocare un ruolo fondamentale l’eredità imperiale, che dal punto di vista degli analisti degli anni ‘50 e ‘60, avrebbe portato al collasso dell’unione; tali previsioni sono state chiaramente erronee. 

Il ruolo della religione nell’Unione Indiana e il multiculturalismo

Come dimostra lo stesso caso dello Jammu-Kashmir, quello che dagli scienziati della politica sarebbe definito come “cleavage” più caldo in India è quello dell’affiliazione religiosa.

Tale affiliazione non corrisponde solo a una differenza di dottrine, ma anche di norme sociali, che spesso tendono a cozzare tra loro e rendere più difficoltosa la convivenza.

I cd. “communal conflicts” (si badi bene che l’aggettivo “communal” nel contesto indiano assume una connotazione negativa) tra musulmani e induisti hanno una lunga storia in India, tuttavia, è superfluo sottolineare come tali conflitti si siano inaspriti all’indomani della partizione dell’ex Dominion britannico e all’ascesa del forte nazionalismo che ombreggia sul subcontinente.

Sebbene non sia un aspetto da tralasciare, negli ultimi anni, grazie soprattutto agli studi svolti da Peter Gottschalk nelle comunità rurali dell’Unione, l’identità religiosa viene spesso trascesa: la vita individuale nelle aree rurali è fondata su innumerevoli identità che varcano i confini religiosi. Del resto l’India è un paese in cui si intersecano diversi assi/vettori su cui le società si formano e le identità si esprimono; per avere a che fare con queste diversità e per contrastare le tendenze egemoniche che risultano dalla centralizzazione delle differenze attorno ad un’asse (religione, regione, cultura), si è dovuto avanzare il concetto di “multiculturalismo” e “essenzialismo”, di cui si tratterà in seguito.

In ogni caso, quanto osservato da Gottschalk risulta forse essere un punto che rafforza quanto sostenuto sopra: l’inasprimento del cleavage religioso sarebbe un fenomeno ben più contemporaneo innescato dalla decolonizzazione, interessante più le aree urbanizzate che quelle rurali, più ancorate a una convivenza religiosa che, nel bene o nel male, prosegue da secoli. Del resto il fatto che la stessa suddivisione del Dominion sia avvenuta in termini religiosi non può che non far pensare che questo sia stato un fattore scatenante delle frizioni.

È necessario, dall’altra parte, però notare, come ha evidenziato Anshu Malhotra nel 2004, di come già durante il periodo di colonizzazione britannica la classe media fu occupata dagli induisti e dai sikh; si potrebbe vedere in ciò una casistica non dissimile dal caso del Rwanda, dove un gruppo/etnia prevale sull’altro in quanto meglio visto/tollerato dai colonizzatori.

Secondo Shail Mayaram il multiculturalismo presuppone “una visione segmentata della società”, dove, nel rispetto di questa molteplicità e identità trasversali i confini sono sia fluidi che permeabili.

Il concetto di multiculturalismo secondo la studiosa valorizza le comunità religiose.

Secondo un’altra studiosa, Rita Manchanda, le politiche nazionaliste ed etniche non sono solo un sottoprodotto della formazione statale moderna, i principi moderni e le istituzioni di inclusione sono legate a forme etniche di esclusione.

La partizione del 1947 non risolse la questione delle minoranze nel subcontinente, come pensato dalle élite del tempo, ma contribuì a rendere a “testa d’idra” la già complessa definizione di “minoranza”, creando in tutta la zona dell’Asia meridionale esempi di “effetto matrioska”, ove, in una determinata zona, la maggioranza diviene minoranza, come si può osservare nello stesso Jammu-Kashmir.

Il fenomeno del proselitismo, praticato storicamente dalle comunità discriminate, viene considerato un utilissimo strumento per uscire dalla soppressione: infatti, per i cd. “dalit”, i famosi “intoccabili”, la conversione rappresenta ancora oggi un’importante chiave per cambiare le proprie condizioni sociali. Tuttavia è bene notare come, soprattutto nel nord del paese, i dalit convertisi al cristianesimo si trovino comunque in una condizione di forte marginalizzazione, venendo talvolta discriminati dagli stati stessi. La conversione al cristianesimo pare dunque essere una fonte di “doppia marginalizzazione”.

Sempre in virtù del rapporto dicotomico tra nazione e identità religiosa, è dunque difficile far rientrare nell’idea di “nazione” i dalit e le tribù convertitesi al cristianesimo definita dal nazionalismo hindù.

Storia recente dello Jammu-Kashmir e il conflitto indo-pakistano

Il territorio del Kashmir è diviso da 60 anni. Una parte di esso è controllata dal Pakistan (nord-ovest della linea di controllo, 1972) e viene chiamato Azad Jammu Kashmir (AJK). Il territorio è nominalmente indipendente, non formalmente parte del Pakistan, ma de facto controllato da esso e dal punto di vista legale non è riconosciuto dalla comunità internazionale. All’interno del territorio indiano la situazione del Kashmir è ancora più complessa poiché suddiviso in tre regioni : la valle del Nord (Srinagar), Jammu a Sud e il Ladakh a Est. Infine, una piccola parte del Kashmir si trova entro i confini e sotto il controllo della Cina, a Nord della catena montuosa del Karakorum, chiamata Aksai Chin. Tutti i confini internazionali sono però ancora oggetto di disputa tra le nazioni citate. In un recente numero del magazine “The Economist”, il confine tra India e Pakistan viene considerato il confine più pericoloso al mondo. Il conflitto ha le sue origini moderne negli anni 40’ durante il periodo della decolonizzazione e i traumatici eventi di partizione tra India e Pakistan nel 1947. La guerra Sino-Indiana nel 1962 ha complicato ulteriormente le cose, vedendo “il dragone” entrare in scena con il controllo su territori del sud-est kashmiro. Varie guerre sono state combattute in seguito tra India e Pakistan, con il picco giunto alla guerra civile negli anni ‘80, portando su scala interna un conflitto che nelle decadi precedenti era stato considerato principalmente bilaterale. Dopo il 1998, la questione giunse sotto la lente internazionale per via dei test nucleari condotti da ambo le parti e per via della guerra di Kargil, il quarto dei conflitti indo-pakistani, che causò oltre 1000 morti. Tuttavia, il conflitto è sempre stato di interesse internazionale in quanto frutto della decolonizzazione, con conseguente forte presenza delle Nazioni Unite sin dal 1949 attraverso l’UNMOGIP. In tale missione nel 2011 si potevano contare 100 individui coinvolti.

Tale conflitto talvolta è stato caratterizzato e come epitome del conflitto etnico e come esempio dell’islamizzazione dell’Asia meridionale: a partire dalla crisi del 2001/02 ha cominciato a giocare un ruolo importante anche la stessa Al-Qaeda; vari foreign fighters pashtun vennero trasferiti dal fronte afghano a quello kashmiro e la stessa vicinanza del covo di Bin-Laden non fanno che aumentare gli indizi di un coinvolgimento terroristico nella calda situazione di tale territorio. Dopo il 11/9, e conseguente maggior focus degli USA sulla situazione kashmira, la tensione fu in decrescita: il Pakistan autonomamente ha rimosso 100 mila truppe dal confine indiano, l’India a sua volta avrebbe investito nello sviluppo dell’Afghanistan per evitare l’arrivo di milizie pashtun in Kashmir. Sebbene tutto ciò sembri una buona notizia, nel 2010 sono ricominciate delle violente proteste e scontri che sono culminati in arresti e 100 morti. Inoltre, nonostante nel febbraio 2004 le due parti abbiano iniziato un dialogo, questo è stato bloccato nel 2008 dopo gli attentati di Mumbai. 

Al contrario del caso aalandese, esempio più virtuoso di autonomia geolocalizzata, la situazione del J&K è molto più complessa: il nord è dominato dai Musulmani mentre il sud dagli Hindu. Inoltre, nella zona del Ladakh vi è presenza buddista e ciò crea problemi non indifferenti viste le divergenze all’interno della popolazione. Teoricamente però, il federalismo asimmetrico delle Isole Aland non è diverso da quello presente nella costituzione indiana e in particolare all’articolo 370 che garantirebbe piena autonomia al Kashmir. In pratica però l’autonomia concessa dall’India pecca in particolare di decentralizzazione del potere. La capitale del Kashmir ruota tra Jammu, in inverno, e Srinagar, in estate, secondo il sistema chiamato “Darbar” che consente una divisione dei poteri tra Musulmani e Induisti. Da parte indiana è però impensabile lasciare libere le zone del nord e Srinagar perché questo verrebbe considerato un suicidio politico. Per quanto riguarda l’autonomia non c’è nessuna prova tangibile che una larga autonomia territoriale sia nei piani di Delhi mentre le uniche proposte di tale risoluzione arrivano solamente da voci accademiche o politiche di poca rilevanza a volte proveniente da fonti pakistane che vorrebbero il AJK come regione autonoma del Pakistan. Il governo indiano sta tenendo una linea dura nei confronti del movimento secessionista del Khalistan in Punjab che per ora funziona insieme ad alcune misure di autogoverno. La costituzione indiana e gli impegni politici fanno parte di quella decentralizzazione; parte del 73esimo emendamento del 1992 in quella che viene chiamata riforma del “Panchayati Raj”: essa ridurrebbe l’influenza dello stato centrale riguardo a difesa, affari esteri, comunicazioni e valuta e richiederebbe alle leggi indiane di essere prima di tutto accettate dall’assemblea del nuovo stato autonomo. Questa teorica autonomia non si è ancora materializzata a causa della massiccia presenza militare, le guerre e il pieno controllo della regione che provano ad esercitare sia India che Pakistan. La riforma del Panchayati Raj viene considerata tra le riforme decentralizzanti più ambiziose al mondo. Il problema del kashmir è la mancanza di modernizzazione della regione.

Nella regione, inoltre, non mancano forze indiane nazionaliste come il BJP che nel 1992 organizzò una marcia che culminò con la bandiera indiana svolazzante sopra la torre dell’orologio di Srinagar, un gesto di enorme importanza simbolica. Evento che amalgamò le milizie del Kashmir contro l’India. Al momento quindi la priorità dev’essere il rafforzamento delle istituzioni democratiche nel Jammu e Kashmir che han smesso di funzionare decentemente dopo le elezioni fallite del 1987 e gli scontri degli anni 90’. 

Rapporto con l’Unione Indiana

L’articolo preso in considerazione come fonte per tale parte della trattazione, di Jean-Philippe Dequen, “Viaggio sull’orlo del panorama legale Indiano: le relazioni del Jammu e del Kashmir con l’Unione Indiana”, presenta nel proprio titolo originale la parola “brink” significante sia orlo [Jammu e Kashmir si trovano nella periferia del potenza asiatica] nonché abisso, a sottolineare la profondità e complessità della questione.

Del resto, la stessa costruzione dell’India quale stato indipendente è dovuta passare attraverso un substrato di sistemi giudiziari pertinenti sia nella sfera pubblica, dove la moltitudine di principati sotto il protettorato del Raj britannico si ritagliarono in ogni caso un’ampia autonomia legislativa, esecutiva e giudiziaria, sia in quella privata. Tuttavia, nella sua relativamente breve storia di indipendenza è riuscita a fare passi importanti verso l’uniformazione: è bene ricordare quanto questo paese sia un vero e proprio mosaico culturale attraverso le parole di Disraeli, secondo cui l’unico legame a tenere insieme il paese fosse il comune dominio britannico; sicuramente parole pregne della concezione del “white man’s burden” in cui oggi fortunatamente non ci riconosciamo più, ma che comunque suonano come un presagio molto importante per le tensioni, e talvolta i bagni di sangue, che hanno caratterizzato quello che oramai fu il Dominion indiano. Del resto, è ben noto come il colonialismo di tipo inglese non fosse particolarmente aggressivo nei confronti delle culture locali, e che non necessariamente mirasse all’assimilazione culturale, a differenza di quello francese. Anzi, al fine di governare un territorio frammentato e multiculturale come quello del subcontinente la chiave era indubbiamente garantire un certo grado di tolleranza, per quanto di tolleranza si possa parlare in un contesto coloniale, per evitare un collasso del sistema di una minoranza che governa sulla maggioranza (impero Mughal docet). Gli stati regionali in ogni caso furono sin da subito garantiti di determinate prerogative all’interno del processo legislativo riguardanti le loro aree di responsabilità; mentre il parlamento ha anch’esso limitato la portata di certi atti centralizzati al fine sia di avallare le peculiarità locali che legettimizzare i corpi normativi non-statali. Nonostante la diversità intrinseca derivante da questa architettura, il quadro legale rimane in ogni caso entro i canoni di uno Stato moderno; il che consiste in un sistema normativo positivista e gerarchico, dove la sovranità appartiene definitivamente al popolo indiano attraverso lo strumento della Costituzione e della sua conseguente politica unificante.

La posizione del Jammu-Kashmir all’interno della costituzione indiana e la sua forma peculiare di accesso all’Unione

Il dismembramento del Raj britannico in 2 dominion separati nel 1947 lasciò gli ex principati con l’opzione o di unirsi all’India o al Pakistan. Bene è ricordare che la maggior parte di questi Stati avessero le particolarità tipiche di uno stato sovrano e che fossero meramente sotto la protezione della Corona. Infatti, Jammu e Kashmir avevano già la propria costituzione, tratteggiante il potere esecutivo, legislativo e giudiziario del Maharaja.

Quando scoccò la famosa mezzanotte del 15 Agosto, il “J&K” de iure aveva pieno potere legislativo e giudiziario, e tale condizione avrebbe potuto portare a una vera e propria indipendenza.

La situazione geopolitica del tempo assieme all’indecisione a quale Dominion prendere parte da parte del maharaja Hari Singh tuttavia precluse questa eventualità indipendentistica de facto.

Il noto documento “Instrument of Accession of Jammu and Kashmir”, dal nome autoesplicativo, venne firmato tra le parti e  fu rapidamente accettato da Lord Mountbatten (allora Governatore Generale del Dominio dell’India), doveva quindi essere preso in considerazione nella stesura della futura Costituzione indiana.

Tale documento di annessione sanciva che:

  • il Maharaja, Hari Singh, avrebbe accettato che lo Stato centrale avesse la possibilità di legiferare nelle materie concordate in tale documento;
  • che nulla nel documento avrebbe dato potere alla legislatura del Dominion di legiferare per lo Stato del Jammu e Kashmir una norma autorizzante l’obbligatoria acquisizione di terra per qualsiasi scopo;
  • che tale documento sarebbe stato considerato un impegno in alcun modo quanto all’accettazione di una futura Costituzione dell’India o al vincolo della discrezionalità del Maharaja a concludere accordi con i governi dell’India ai sensi di una tale futura Costituzione;
  • che nulla nel documento avrebbe intaccato il continuo della sua sovranità all’interno e sullo stato del Jammu e Kashmir o la validità di una qualsiasi legge preesistente in tale Stato.

Il documento conferisce indi al Dominion potere in materia di difesa, politica estera e comunicazione, come spesso accade in un rapporto tra Stato centrale e federato. Inoltre, afferma che nonostante l’India avesse ricevuto poteri giurisdizionali negli ambiti sopra citati, essa avrebbe potuto farlo solo all’interno l’esistente sistema di corte statale, e quindi non vi era riconoscenza di nessuna giurisdizione a una presumibilmente più alta corte del Dominion, come avrebbe potuto essere la Corte federale dell’India. Ergo, la federazione non ha primato sulla giurisdizione statuale.

Pertanto il J&K, nonostante l’unificazione, trattenne una larga fetta della sua sovranità, trasferendo solamente specifiche questioni allo stato centrale. Il J&K mantenne il controllo sullo status dei suoi cittadini, così come il monopolio giurisdizionale in ambito civile e penale.

Inoltre, non riconoscendo in automatico la futura costituzione indiana, ha sancito il principio che lo Stato avrebbe potuto essere governato dal proprio quadro costituzionale. Sarebbe stato compito della Costituzione indiana dunque farsi carico di regolare questo sistema duale.

Solo l’articolo 1 e 370 della costituzione indiana riguardano in maniera specifica J&K; l’articolo 370 si concentra nella gestione delle relazioni tra J&k e India. Qualsiasi estensione della giurisdizione indiana oltre a quello già stabilito nel cd. Instrument of Accession dovrebbe innanzitutto cercare l’approvazione del governo dello Stato e dell’assemblea costituente del J&K.

La Costituzione fu emanata nel 1950; ciò risultò in una crisi politica tra i 2 governi, definitivamente risolta dall’accordo di Delhi del 24 luglio 1952, dove venne confermato lo status speciale del J&K assieme alla sua completa autonomia interna.

Nel 1954, in accordo con il governo locale, questi accordi vennero implementati anche nella costituzione. Mentre progressivamente si andavano estendendo la giurisdizione del parlamento e della costituzione indiana, questo evento restrinse l’applicazione di specifici articoli di tale giurisdizione nei confronti del JnK; dunque, sebbene l’Unione avanzasse verso l’unificazione, il Kashmir rimase estraneo a questo processo.

Nel 1956 lo Stato del J&k porrà in atto una nuova costituzione, dove verrà reiterata la sua inclusione nell’Unione Indiana, art. 3 : “il proseguimento dell’adesione di questo Stato [J&K] all’India …, per definire ulteriormente le relazioni esistenti dello Stato con l’Unione dell’India come parte integrante della stessa”. Così, se il J&K è territorialmente parte integrante dell’India, la sua integrazione legale era ancora da ricercare;in altre parole, la costituzione indiana rimaneva una norma estranea da applicare solo in virtù dell’Instrument of Accession, degli accordi di Delhi e della neonata costituzione del J&K. 

è bene notare come lo Stato prometta di essere parte dell’Unione beneficiando delle tutele appena sancite e dei vantaggi come diritti, mentre scegliendo cautamente a quali doveri nei confronti dello Stato centrale adempiere, sempre sottolineando come per gli altri queste fossero imposizioni. Si può ben notare, come, quantomeno sul piano giuridico, la relazione sia estremamente polarizzata verso lo Stato federato

Sorge dunque una domanda spontanea: come si può categorizzare tale relazione?

È in atto un sistema a doppia costituzione, dove 2 distinte sovranità hanno organizzato le loro relazioni al di là della portata del federalismo. La scala gerarchica è qui sfocata, nel momento in cui la Costituzione indiana è un contenitore vuoto nei confronti del J&K, dove solo la cd. “Costitution (Application to Jammu and Kashmir) Order, 1954” ha potere. Nonostante sia stata modella su e dalla costituzione indiana, questo è uno strumento totalmente separato entro cui le 2 sovranità hanno accettato di dividere e concedere potere l’uno all’altro.

Il  caso del J&K è definibile come “sui generis status”?

In risposta alla domanda, è chiaro come tale relazione non sia senza similitudini ad altri scenari legali, soprattutto quelli sviluppatisi dopo la decolonizzazione; tuttavia, rimane peculiare per molti aspetti, e non trova diretti parallelismi con altre cornici istituzionali che connettono  un territorio all’altro.

Non può essere classificata come una libera associazione tra stati, come sancito nel 1960 dall’Assemblea generale dell’ONU, che ha qualificato l’Instrument of Accession e l’accordo di Delhi piuttosto come “strumenti internazionali” (si vede qui la già tanto nominata importanza del piano internazionale sui contenziosi riguardanti l’autonomia), mentre l’individualità e le caratteristiche culturali del Jnk sono state preservate dalla costituzione indiana.

L’integrazione è dunque solo un obbiettivo ancora in cantiere.

Questa integrazione parziale pare possa spiegarsi da una parte nella differenza del trattamento legale ricevuto dai cittadini del JnK e il suo territorio dall’altra parte, in cui la sovranità indiana non si estende integralmente.

Bisogna notare come tale dicotomia si può ritrovare anche in altri casi, come la diversa condizione di cittadinanza tra portoricani e statunitensi, seppur tale paragone va fatto con le pinze.

Alla luce della sua storia post-coloniale, lo status del J&K all’interno dell’India è forse più vicino a un altro esempio post-coloniale: la relazione tra la Nuova Caledonia e la Francia.

L’integrazione legale: un lontano, e forse ingannevole, barlume di speranza

Nonostante la complessa situazione, come già ampiamente accennato in precedenza, passi avanti nell’integrazione sono stati fatti sotto il punto di vista giurdico; basti pensare che Persino i forum alternativi di risoluzione delle controversie, come la Corte musulmana del Mufti Azam del Kashmir, sono più spesso utilizzati in collaborazione con il sistema giudiziario ufficiale, e non contro di esso.

Un avvocato della J&K High Court spiega questa generale accettazione del sistema giudiziario sostenendo che quest’ultimo è in realtà più britannico che indiano, sottolineando inoltre che comunque per quanto “coloniale” e “cristiano” possa essere, non c’era altro modello alternativo disponibile in questa fase.

I codici giuridici J&K offrono differenze minori rispetto a quelli indiani. L’India e J&K hanno mantenuto dal Raj britannico un sistema giuridico personale, in base al quale in alcune materie (principalmente relative ai rapporti familiari) la legge applicabile sarà quella della propria comunità attribuita piuttosto che la legge territoriale dello Stato, se non espressamente specificato. Il cd. “Muslim Personal Law (Shariat) Application Act”, 1937 governa i rapporti familiari dei musulmani indiani, indipendentemente da qualsiasi usanza a cui potrebbero altrimenti aderire.

La legge del 1937 non si estendeva al J&K, tuttavia, grazie a un “obiter dictum”, figlio della tradizione britannica, di una sentenza 2005, pendente addirittura dal 1974, venne integrata. I casi pendenti per l’una e l’altra ragione sono un problema serio, più nel Kashmir che nello Jammu, e che grazie a tale integrazione stanno andando decrescendo.

Pertanto, alla luce sia della sua origine britannica sia dell’obiettivo di facilitare l’amministrazione della giustizia con maggiore certezza giuridica e sicurezza, l’integrazione giuridica sostanziale di J&K nel quadro giuridico indiano non sembra essere un problema per il ricorrente ordinario del Kashmir. La questione della norma applicabile appare infatti molto meno importante di quella che la impone: vedasi il caso dei cd. “residenti permanenti”, regolato dall’articolo 35A.

La riorganizzazione dello status del J&K oggi

Il 5 agosto 2019 il Governo indiano ha preso la decisione di abrogare lo status costituzionale speciale dello stato e di riorganizzarlo.

L’articolo 370 è stato modificato in modo da renderlo sì parte della costituzione indiana ma da perdere la sua essenza. Anziché essere un limite eccezionale posto alla Costituzione in relazione alla sua applicazione allo Jammu e al Kashmir, l’articolo ora estende l’intera costituzione indiana a questi territori, facendo perdere al J&K la peculiare posizione che assumeva dal punto di vista giuridico all’interno dell’ordinamento indiano.

Lo stesso articolo 35A, già sopracitato, materia di grande importanza per l’ordinamento kashmiro è stato reso irrilevante da questa riforma.

Inoltre, fondamentale è stata la decisione di riorganizzare lo Stato federato non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello territoriale: infatti esso è stato biforcato. Il Ladakh è stato separato dal resto del territorio, in maniera da bilanciare i rapporti di forza tra le diverse fedi nella regione.

Chiaramente, nei quattro distretti indù del J&K tali provvedimenti sono stati accolti in maniera tendenzialmente positiva, come dimostrano gli stessi festeggiamenti a Jammu: l’art. 370 veniva osteggiato sin dai primi anni ‘50.

La complicata relazione tra Jammu e l’art. 370

I quattro distretti indù costituiscono il cd. “mainland Jammu”: nonostante la maggioranza induista, anche tale regione presenta una complessa cornice culturale; i musulmani rappresentano ⅓ della popolazione e nella regione non pare attecchire l’ideologia conservatrice del BJP del presidente Modi.

“Indifferenza” è ciò che maggiormente caratterizza la risposta dello Jammu rispetto all’art. 370, e non una “fierce opposition”: se i kashmiri, nonostante esso fosse più un prodotto pragmatico che altro, si erano progressivamente attaccati in maniera emozionale ai principi sanciti da quest’ultimo, lo stesso non si può dire nello Jammu.

Tuttavia, è anche bene denotare come esso abbia creato non pochi malumori in taluni casi: lo Jammu in virtù di esso si è sempre sentito invisibile data la forte concentrazione del potere nelle mani dell’élite kashmira, registrando i leader dello Jammu poco peso politico e una debolissima capacità di negoziazione; è chiaro come ciò, partendo dal presupposto che per una sana relazione di autonomia tutti gli attori debbano sedersi al tavolo delle trattative con uguaglianza sostanziale, influisca molto nella deriva della situazione odierna che vediamo oggi.

Il senso di privazioni politiche dello Jammu si è sviluppato in un approccio a somma zero  nella relazione con il Kashmir: qualsiasi cosa pro-Kashmir era vista come anti-Jammu e viceversa. Questa è la ragione per cui, quando sono stati introdotti i cambiamenti strutturali nell’Agosto del 2019, questi sono stati visti come influenti solo sul Kashmir. In molti speravano che questi cambiamenti potessero comportare una situazione migliore per lo Jammu.  In altre parole, si è creduto che il depotenziamento della regione del Kashmir potesse cambiare sostanzialmente l’equilibrio di potere in favore dello Jammu.

Tale speranza, a partire da un anno dopo le introduzioni della riforma, risultava però già delusa.

Un ritorno dell’art. 35 A?

In aggiunta alla disillusione, ha iniziato, dopo l’iniziale gioia, a serpeggiare un forte sentimento di vulnerabilità tra gli abitanti dello Jammu: mancano gli investimenti, mentre cresce la disoccupazione e il controllo della criminalità organizzata sul territorio. L’abrogazione dell’art. 35A  ha aggiunto ulteriori problemi e istanze alla già complessa matassa della regione, soprattutto nel campo del lavoro: sotto la protezione dell’articolo 35A, i lavori statali sono stati riservati ai residenti permanenti dello Stato. Tuttavia in questa situazione tale protezione mancava e quindi, le occupazioni di governo statale potevano essere accessibili anche per i non residenti dello J&K.

Sebbene pare che queste fossero le intenzioni del governo centrale, la resistenza opposta nello Jammu di fronte all’apertura di queste occupazioni agli “stranieri”  è stata talmente forte che il “Gol” ha dovuto ridefinire la propria linea politica. 

Interessante notare come tutta la resistenza sia stata opposta unicamente dallo Jammu mentre dal Kashmir non si sia innalzata alcuna voce.

Importante è anche l’aspetto sulla legge del domicilio: l’unico beneficio che essa ha apportato alla regione è legato alle classe più vulnerabili: i Valmiki e Gurkhas, rifugiati pakistani che hanno cominciato a godere solo dal 2019 di basilari diritti civili e politici nonostante risiedessero nella regione da decenni.

I partiti dello Jammu si sono fatti portavoce della richiesta di riconoscimento di questi gruppi al pari dei residenti permanenti, alla cui inclusione tuttavia si sono opposti fermamente i partiti del Kashmir. Qualsiasi mossa in loro favore è stata vista come un passo verso il cambiamento demografico, circostanza impossibile visti gli esigui numeri di questi gruppi, incapaci di avere qualche tipo di impatto sulla demografia dello Stato.

Fondamentale, infine, è la questione della terra: come fortemente voluto dallo stesso Hari Singh, l’articolo 35A sanciva che la terra potesse essere posseduta dai soli residenti del J&K. L’idea di un’apertura agli “stranieri” ha condotto ad un’ondata di malcontento, specie dal lato kashmiro, da parte degli abitanti delle regioni.

Alla luce di ciò, gli abitanti sono giunti alla conclusione  che, prima dei cambiamenti occorsi nell’Agosto del 2019, ciò di cui godevano non era semplicemente la protezione del lavoro e della terra.

Tirando le somme, per quanto, dati tutti i presupposti, ciò possa sembrare paradossale dal 2019 lo Jammu ha agito per il Kashmir: mentre il Kashmir è rimasto totalmente in silenzio, le questioni riguardanti questo territorio sono state poste con forza dallo Jammu. Per certi versi lo Jammu è diventato la voce dell’intero territorio dell’Unione  in un modo che ha aperto la strada verso una nuova linea politica per la regione.  Anziché innalzare esclusivamente questioni anti-Kashmir, la regione è diventata il pilastro centrale dell’opposizione alle politiche del governo centrale, che ancora stenta a riconoscere la statualità dello Jammu, nonché l’autonomia kashmira.

Conclusioni

Nella sua famosa etnografia della Corte suprema amministrativa francese (Conseil d’État), Bruno Latour (2010) ha definito la legge come “frattale”, e come tale si può definire la situazione presa in questione. Lo status di J&K all’interno del quadro giuridico indiano è effettivamente difficile da qualificare secondo gli standard comparativi e internazionali. Sebbene lo Stato sia considerato una “parte integrante” dell’India, mantiene comunque il proprio ordinamento giuridico e la Costituzione dell’India non si applica pienamente sul suo territorio. La dualità dell’ordinamento giuridico di J&K non si limita però al diritto pubblico, ma arruola anche il settore privato, anche a livello di base all’interno del contenzioso quotidiano. Non si può ignorare l’influenza politica e militare dell’India sullo Stato. Ma la capacità de iure dell’India di influenzare l’ordine giuridico di J&K rimane limitata, e questo nonostante le pressioni politiche del governo centrale.

A dimostrazione di ciò, nelle controversie quotidiane, i cittadini kashmiri si trovano forzati a navigare tra queste differenti e talvolta contraddittorie cornici costituzionali.

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