ERASMUS CHRONICLES – Uno studente Unitn testimone della rivolta catalana

BARCELLONA – L’11 settembre di ogni anno è un giorno speciale in Catalogna, ma il motivo non è la caduta delle Twin Towers a New York, e nemmeno il colpo di Stato attuato da Pinochet in Cile. In Catalogna si ricorda un altro 11 settembre, quello del 1714, ovvero quando la città di Barcellona si arrese alle truppe borboniche del Regno di Spagna e di Francia, perdendo per sempre la propria indipendenza.
È grazie alla Diada Nacional di Catalunya 2017 (così viene chiamata la ricorrenza) che la questione indipendentista e referendaria catalana acquistano un discreto spazio tra i media europei; infatti, tra il mezzo milione e il milione di persone hanno sfilato per le strade di Barcellona per celebrare la ricorrenza e per sostenere lo sforzo indipendentista.

Due giorni dopo la Diada, il 13 settembre, arrivo a Barcellona dall’Italia, pronto per iniziare il mio periodo Erasmus all’Università Pompeu Fabra.


Appena giunto in città, è impossibile non notare le centinaia bandiere catalane e bandiere pro referendum appese su qualsiasi edificio, sia esso pubblico o privato. Persino le bacheche, i volantini, le scritte sui muri sono quasi interamente rivolte al referendum di ottobre. Subito decido di fare visita alla mia nuova università. Appena entrato, trovo un grande cortile: i muri sono tappezzati di “Sì!”; dai piani alti sono esposti striscioni firmati da collettivi studenteschi; al centro dello spiazzo è posto un altro “SI” giallo a grandezza umana. Tutta la città, a partire dalle istituzioni, sembrano vivere in funzione della causa indipendentista. Chi è contrario, semplicemente non si espone.


Perché la Catalogna vuole l’indipendenza? Ci sono due argomentazioni generali: storica ed economica. Le ragioni storiche e culturali sono le più forti, in quanto è grazie a tali che si può formare un senso di nazionalità e di appartenenza catalano, in contrapposizione alla cultura castigliana. La Catalogna, dopo aver perso l’indipendenza e dopo il divieto di parlare la propria lingua imposto da Madrid, non ha mai perso le sue radici, e il catalano non è caduto in disuso. In epoca recente, Barcellona e il resto della regione hanno rappresentato il vessillo delle forze repubblicane in contrapposizione al generale Franco durante la guerra civile (1936-39). Mentre Madrid diventava capitale franchista, Barcellona fu il punto d’arrivo delle brigate internazionali (comuniste e anarchiche) durante la guerra, e resistette fino all’ultimo alla presa di potere fascista nel Paese.

La questione economica è più recente: dopo la crisi economica del 2008, la ripresa in Spagna fatica ancora ad arrivare, mentre la Catalogna ha una crescita annua del Pil pari al 3,5% (la media nel resto dello Stato è dello 0,5%). Inoltre, la comunità catalana contribuisce al Pil nazionale con un 19% del totale. Barcellona ha sempre chiesto più autonomia fiscale per queste ragioni, ma essa è sempre stata negata da Madrid. Inoltre, tra i catalani c’è la convinzione che la comunità autonoma dia più finanziamenti allo Stato di quanti poi ne riceva.
Ad aumentare il malumore dei cittadini, è la presenza di servizi infrastrutturali privati a pagamento (ad esempio, le autostrade), mentre in altre zone spagnole sono garantiti servizi pubblici e gratuiti. La modifica dello Statuto catalano del 2006 attuata da Zapatero (partito socialista), aveva rafforzato l’autonomia della Catalogna, rendendo di competenza esclusiva della Generalità (organo esecutivo) il rendimento delle imposte, tasse e tributi propri, e soprattutto aveva riconosciuto la Catalogna come “nazione”. Nonostante ciò, un ricorso del 2010 alla Corte Costituzionale attuato dal Partito popolare, ha eliminato ogni riferimento alla nazionalità catalana, aumentando ancor di più i dissapori tra Madrid e Barcellona.
Un momento di svolta radicale è dovuto ai fatti del venti settembre, quando quattordici funzionari ed esponenti del governo catalano sono stati arrestati dalla Guardia Civil. Inoltre, le forze dell’ordine centraliste sequestrano più di 10 milioni di schede elettorali, atto giustificato dalla sentenza della Corte costituzionale che sancisce il referendum come incostituzionale. E’ l’evento che pone definitivamente in primo piano la questione catalana sui media di tutta Europa. Da quel giorno, in città si inizia a respirare un’aria diversa: durante l’intera giornata, un elicottero della Guardia Civil vola costantemente sulla capitale catalana a bassa quota. In città sorgono manifestazioni spontanee nei luoghi degli arresti, e i manifestanti tentano in più di una occasione di bloccare i mezzi intenti a portare via gli arrestati.
Sotto il mio alloggio le strade sono chiuse, e una manifestazione spontanea è in corso: i poliziotti sono in attesa del mandato di perquisizione per entrare negli uffici del CUP, partito indipendentista di sinistra. Nel pomeriggio, la sede storica dell’Università di Barcellona viene occupata da centinaia di studenti senza causare alcuna tensione con le forze dell’ordine. La reazione della popolazione mi lascia stupito: verso le dieci di sera, improvvisamente inizia ad esserci un frastuono di mestoli contro coperchi, pentole e padelle. E’ la protesta pacifica della città nei confronti di un blitz che a molti ricorda il periodo franchista. Dal venti settembre, ogni sera si ripeterà il disturbante concerto di padelle e cucchiai.
La mia carriera da studente universitario inizia il 26 di settembre in coincidenza con l’inizio dell’anno accademico. Essa viene però stoppata sul nascere, dal momento che il rettore decide di sospendere ogni attività didattica prevista per le giornate di giovedì 28 e venerdì 29 settembre. La motivazione data è la necessità di difendere le istituzioni catalane e la democrazia; da studente e, a maggior ragione da studente di scienze politiche, non mi sarei mai aspettato una presa di posizione così netta da un’università pubblica, la quale prende le parti di un governo che, di fatto, agisce al di fuori delle logiche costituzionali. La sospensione delle lezioni agevola gli studenti universitari ad aderire alla manifestazione studentesca in programma per il giovedì della stessa settimana.
Il giorno del corteo, decido di prenderne parte per scattare qualche foto ed avere dei riscontri personali riguardo alla posizione studentesca indipendentista. Il concentramento è previsto a Plaça Universitat, luogo simbolo storico degli studenti universitari della capitale catalana. Gli studenti presenti sono un’infinità: sedicimila secondo le autorità, addirittura centocinquantamila secondo gli organizzatori. Le bandiere catalane sono ovunque, ma riesco a notare numerose bandiere antifasciste e comuniste, le quali rendono chiaro e visibile quale sia lo spirito della manifestazione.
Domandando ad alcuni partecipanti le ragioni della mobilitazione: i motivi maggiormente sostenuti e sottolineati sono quelli economici, e l’aspirazione (forse solamente ideale) degli studenti non è solamente l’indipendenza, ma riuscire a creare una repubblica catalana socialista. Il movimento indipendentista non possiede quindi una sola anima; studenti, imprenditori, lavoratori comuni, ognuno ha la propria idea di indipendenza e, siccome “il nemico del mio nemico è mio amico”, si è venuto a creare una coesione tra le parti utilizzando l’indipendentismo come collante provvisorio per sfidare lo Stato spagnolo. Persino la coalizione di governo raggruppa partiti di centrodestra con partiti di sinistra radicale sotto la causa secessionista. E’ chiaro quindi come le “due anime” della Catalogna (unionisti e secessionisti) siano in realtà molto frastagliate e contradditorie nelle diverse posizioni interne dei loro componenti.
Il giorno dopo il corteo, alcune centinaia di persone accolgono la sfilata degli agricoltori arrivare dalla campagna con i propri mezzi agricoli: questi ultimi verranno utilizzati come scudo a difesa di alcuni seggi, minacciati dalle migliaia di agenti della Guardia Civil arrivati in Catalogna per impedire lo svolgimento della votazione. Riesco a contare decine e decine di trattori, tra cui molti di essi con una bandiera catalana o altri simboli secessionisti.
Primo ottobre, il giorno del referendum è arrivato. La sveglia mi viene data da un elicottero della Policia nacional, che inizia a volare in cerchio esattamente sopra la mia casa: solo più tardi scoprirò che, a due vie di distanza, si trova la scuola (e momentaneamente seggio elettorale) Ramon Llull, diventata tristemente famosa per essere stata chiusa con violenza dalla Guardia Civil. Reperire informazioni sulla locazione dei seggi non è per nulla facile: nelle giornate precedenti il referendum, il governo centrale ha oscurato 14 siti web tramite i quali indicavano dove sarebbe stato possibile andare a votare. La soluzione del governo catalano è stata allora creare una specifica App chiamata “On Votar”, attraverso cui ci si può informare sui seggi aperti nel proprio quartiere. Un’altra contromisura presa dalle istituzioni locali per rispondere al rischio di chiusura dei seggi è dare la possibilità agli elettori di poter esercitare il proprio diritto di voto (incostituzionale) in qualsiasi seggio, assieme all’ulteriore possibilità di potersi stampare la scheda a casa. Nonostante più di ottocento feriti nell’intera Catalogna, camminando per le strade di Barcellona non sono testimone di alcuna violenza, ma noto comunque segni di alta tensione: la costante presenza di più elicotteri della polizia, e la distruzione di una bandiera catalana per mano di alcuni manifestanti unionisti dall’apparente aria franchista. 
Per trovare i seggi, in realtà, basta camminare per le strade: dove si può andare a votare, le code sono chilometriche e ordinate. I lunghi tempi d’attesa sono causati sia dalla chiusura dei seggi, che dall’impossibilità di utilizzare metodi di calcolo e controllo elettronici e di dover quindi ricorrere a metodi tradizionali. Le persone che si recano a votare sono entusiaste, e l’affluenza non diminuisce anche dopo le numerose notizie di violenze sui votanti. I catalani escono dai seggi a gruppetti, ed ognuno di essi riceve forti applausi da chi sta aspettando il proprio turno per poter esprimere la propria volontà. Per quanto riguarda le forze dell’ordine, davanti a ogni seggio è presente una pattuglia dei Mossos d’Esquadra (la polizia catalana), la quale assiste passiva alla votazione.
Secondo i dati ufficiali, il “Sì” ha vinto con oltre il 90% delle preferenze, ma l’affluenza è stata bassa: solo il 42% degli aventi diritto si è recata alle urne. La Generalitat de Catalunya ha dichiarato che senza repressioni l’affluenza avrebbe potuto raggiungere il 55%. Questo risultato indica una vittoria o una sconfitta per gli indipendentisti? Difficile dirlo: da una parte, chi ha espresso la preferenza per la secessione non è che una minoranza della popolazione catalana; dall’altra, quasi la metà degli aventi diritto è stata disposta a farsi ore di coda e a prendere il rischio di essere malmenati dalla Guardia Civil.
Nonostante lo sciopero indetto per il 3 ottobre da parte dei sindacati indipendentisti abbia ricevuto migliaia di adesioni (l’80% dei dipendenti pubblici ha aderito; la mia università ha di nuovo sospeso ogni attività), l’impressione è che il governo catalano non abbia il sufficiente consenso popolare per tentare di percorrere la strada dell’indipendenza unilaterale. A rafforzare questa tesi, dopo il divieto da parte della Corte costituzionale di condurre la sessione parlamentare in Catalogna prevista per lunedì avente come ordine del giorno il referendum causa potenzialmente incostituzionale, il presidente catalano ha indetto una nuova sessione per martedì, senza nessun richiamo al referendum nell’ordine del giorno (solamente alla “situazione politica”). Il fine realistico degli indipendentisti è quello di ottenere una maggiore indipendenza sul profilo economico, cercando di ottenere maggiori finanziamenti da parte dello Stato centrale, e un riconoscimento completo della loro identità nazionale.
Difficile invece sapere come si comporterà Madrid: prendendo in considerazione il pugno di ferro utilizzato fino ad ora, non si può escludere un eventuale esautoramento del governo catalano e un’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, il quale permette di sospendere lo statuto dell’autonomia in casi di inadempienza dei propri obblighi da parte di una Comunità. Dall’altra parte, considerando le innumerevoli critiche piombate sul Primo ministro Rajoy dopo i fatti del 1 ottobre da parte sia degli spagnoli, sia dell’Unione Europea, il governo centrale potrebbe aprire la porta del dialogo. 
Di certo, la partita non si chiude qui, e la direzione che prenderà si potrà sapere solamente martedì. E’ il governo catalano che ha in mano la prossima mossa: una mossa che deciderà la sorte ed i toni del contrasto tra Madrid e Barcellona, tra Spagna e Catalogna, tra indipendentisti e unonisti.

Daniele Erler

Giornalista praticante all'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino (www.ilducato.it), collaboratore quotidiano Trentino dal 2012, stage in redazione a la Stampa, direttore de L'Universitario dal 2016, laureato in Storia all'Università di Trento // Twitter: @daniele_erler

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