Quello che ho capito di De André: una conversazione con Federico Dragogna

Federico Dragogna e Rebecca

Se l’arte è espressione dell’universo che ognuno ha dentro di sé, la trasposizione materiale di qualcosa di intangibile e multiforme, ne consegue che è realmente impossibile arrivare a capire appieno l’artista. Per questo il titolo della conferenza del Poplar Cult tenuta da Federico Dragogna dei Ministri è tanto interessante quanto appropriato: poche figure hanno lasciato un segno tanto profondo nella cultura italiana come quello lasciato da Fabrizio De André. Per questo motivo ognuno di noi ha la sua opinione e la sua personale verità sul cantautore ligure – ovviamente, come nel caso delle guerre di religione, ognuno crede di essere nel giusto. Questa conferenza non viene impostata in questo modo ed è totalmente priva di toni messianici, cosa che di questi tempi è un raro sollievo. In seguito, riusciamo anche a fare una chiacchierata con il relatore per approfondire alcuni argomenti.

Dragogna comincia raccontando come abbia conosciuto per la prima volta il cantautore genovese, frugando fra i dischi di suo padre nei lunghi pomeriggi passati a casa sua. Ci fa ascoltare l’introduzione di “Nuvole”, che lo ha stregato ancora prima delle canzoni. Le parole stesse di De André, tratte da diverse interviste, vengono riprodotte dalle casse e danno l’impressione che il cantautore sia in mezzo a noi, mentre ci addentriamo nella ragnatela composta dal suo vissuto e dalla sua arte.

Quella che emerge da questa conversazione è una vita segnata dal conflitto: il conflitto con il padre e con la vita prestabilita che lo aspettava in quanto secondogenito di una famiglia piccolo-borghese, il conflitto con la dipendenza, il conflitto che porta al divorzio dalla moglie e infine il conflitto con la società. Ognuna delle canzoni scelte da Dragogna ci apre una porta diversa.

Arriviamo a “Il cantico dei drogati” dopo aver parlato della famiglia benestante dell’artista, dei suoi scarsi risultati accademici e delle sue prime esperienze politiche da anarchico tesserato. Noi tutti, riflette Dragogna, ci troviamo in un certo senso nella stessa situazione: il compito dei nostri genitori è di guidarci fino ad un certo periodo della nostra vita, ma non è da tutti trovare il coraggio di prendere in mano il volante; non è nemmeno automatico che ciò accada con la maggiore età, perciò molte persone si lasciano guidare dai desideri della famiglia e degli amici e dalle aspettative della società. Dragogna ci è riuscito, abbandonando la sua carriera precedente per fare il musicista, proprio come fece De André quando scelse di dedicare la sua vita all’arte.

Con “Giugno ’73” si entra nella parentesi romantica della vita del cantautore, ma non quella più conosciuta che include Dori Ghezzi. A detta del poeta questa è una delle poche canzoni autobiografiche che abbia mai scritto e parla di un amore finito, dove emerge il disprezzo che la compagna e la famiglia di lei provano per la sua professione di artista e per gli amici di lui.

Invece con “La domenica delle Salme” si entra nel conflitto storico/politico, con la caduta del muro di Berlino e la fine del bipolarismo fra comunismo e capitalismo. Questo evento segna l’inizio, come dice il poeta nella canzone, della “pace terrificante” che si crea nell’assenza di conflitto, data dall’affermazione dell’egemonia americana. Chiediamo a Dragogna, alla fine della conferenza, se ritiene che l’assenza di bipolarismo al giorno d’oggi abbia minato la sfera artistica e soprattutto musicale, dato che il conflitto è stato una parte così importante della vita di De André e lo ha aiutato molto a scrivere; secondo lui l’arte ha forma liquida, perciò l’odierno unipolarismo non ha propriamente “strozzato” l’arte. Certo è che è necessario che sia presente un’alternativa, la possibilità di vedere un altro mondo rispetto a quello che viviamo, e forse è anche questo il compito dell’arte. Al giorno d’oggi crede che De André sarebbe molto censurato soprattutto da coloro che lo citano: per la sua volgarità nei testi, per il suo rifiuto a piegarsi allo show-business che spesso finisce per mettere in secondo piano l’arte, ma soprattutto per la sua attenzione nei confronti degli emarginati.

Ci sarebbe dovuta essere un’ultima canzone in questa conferenza, ma per motivi di tempo Dragogna non riesce a suonarla per noi. Ci racconta però dell’attenzione speciale che De André, nonostante fosse nato in una famiglia benestante e avesse un futuro sicuro davanti a sé dal punto di vista economico, ha sempre dimostrato nei confronti degli esclusi. Genova è una città particolare, che non confina nell’hinterland gli appartenenti alle classi meno abbienti. Nel periodo del boom economico, il centro di Genova era popolato da gente benestante, piccoli borghesi e allo stesso tempo prostitute, drogati e grandi numeri di persone trasferitesi dal Sud dell’Italia per trovare lavoro. Al giorno d’oggi queste zone sono abitate da persone del “Sud” del mondo. Dragogna crede che al giorno d’oggi un De André sarebbe molto ostacolato, sicuramente sarebbe censurato dai social e in generale dai media. Sarebbe molto disprezzato dalla politica e osteggiato da quasi tutti i partiti per via della sua franchezza d’espressione e della sua attenzione per i moderni miserabili. Lui ha cantato per loro, ha dato voce alle loro esperienze nonostante provenisse da un contesto culturale ed economico molto diverso: ora chi lo farà? E in futuro, chi potrà dare voce alle tante Marinella che vivono ancora fra di noi?

Uno degli ultimi argomenti che affrontiamo nella nostra breve chiacchierata è l’emergere dell’arte in contesti dove qualsiasi altro tipo di espressione risulta difficile, come per esempio in Cina: nonostante infatti il diritto di parola e di espressione sia molto limitato, anche lì l’arte riesce ad emergere sotto forme interessanti, sempre per via della sua natura ‘liquida’. Questo fa ben sperare anche per noi e per il ritorno di una polemica artistica se non uguale, almeno ispirata da quella di De André: che dia voce agli oppressi e a chi viene sfruttato, che sia irriverente e che si ponga come alternativa all’egemonia (di qualunque tipo essa sia) e che disturbi, come solo l’arte migliore sa fare.

Rebecca Franzin

Studio a Trento, ma sono di Vittorio Veneto (tecnicamente Solighetto). Forse un giorno mi laureerò in Studi Internazionali; nel frattempo, se siete credenti, sentitevi liberi di includermi nelle vostre preghiere.

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