“Parasite”, o di quando Marx vinse quattro Oscar

La 92esima edizione degli Oscar, che si è tenuta domenica 9 febbraio, ha decretato un vincitore assoluto: il sudcoreano Bong Joon-ho. Il regista di Parasite ha fatto scempio della concorrenza (e si parla di nomi del calibro di Mendes, Tarantino e Scorsese), vincendo quasi tutto il vincibile: miglior film internazionale, miglior sceneggiatura originale, miglior regia e miglior film.

La ragione del successo è semplice, quasi prosaica: Parasite è il migliore tra i film usciti negli States nel corso del 2019. E, una volta tanto, Hollywood ha deciso di premiare il merito, senza fare calcoli politici. Inoltre, Parasite è il primo film non anglofono a conquistare la statuetta più ambita: un forte segnale di apertura a cinematografie straniere.

Di che cosa parla il film? Essenzialmente, di due famiglie – una molto povera e l’altra molto ricca – i cui destini finiscono per incrociarsi in maniera non proprio fortuita e non proprio pacifica. Scritta così, può voler dire tutto, ma anche niente, visto che con queste premesse il film potrebbe andare a parare un po’ ovunque. Tuttavia, lì dentro c’è già il cuore di Parasite: la pellicola di Bong Joon-ho parla di uno scontro tra due classi sociali contrapposte. Riducendolo ancor più all’osso, il film racconta l’ancestrale lotta tra ricchi e poveri.

“Niente di nuovo”, potreste dire e avreste ragione. Del resto, Chaplin ha costruito gran parte del suo successo sul tramp Charlot, un ometto povero in canna che ha avuto spesso a che fare con uomini abbienti.

Allora, che cosa rende Parasite e Bong Joon-ho così speciali? Due ragioni, soprattutto. Il primo e più superficiale motivo è piuttosto banale: Parasite ha avuto successo perché è divertente, scorre che è una meraviglia e Bong Joon-ho scrive e mette in scena con una padronanza che sfiora il celestiale. Il regista sudcoreano naviga e mescola magnificamente i generi: si ride e si piange, e – ridendo e piangendo – si riflette.

In quel capolavoro di sconfinata Bellezza che è “Io se fossi Dio”, Gaber diceva che tutti quelli che fanno questo gioco (parla della politica, N.d.G.), c’hanno certe facce che a vederli fanno schifo che siano untuosi democristiani o grigi compagni del PCI. Pur vicino agli ideali di sinistra, il signor G. non ha (mai avuto) problemi a sparare contro i “grigi compagni” del Partito Comunista, mostrando un’onestà intellettuale e una spina dorsale che metterebbero in imbarazzo parecchie persone oggi. 

Che cosa c’entra Giorgio Gaber con questo film? C’entra nella misura in cui anche la lotta di classe in Parasite è raccontata dal regista sudcoreano con onestà intellettuale e non è tratteggiata in maniera manichea, ma attraverso una fitta gamma di grigi e senza censura alcuna, nemmeno delle parentesi più violente. Questa è la seconda ragione che rende Parasite tanto speciale.

Nella prima metà del film, Bong Joon-ho ci spiega come sia sacrosanto il tentativo di ogni persona di migliorare le proprie condizioni di vita e come le nostre simpatie debbano andare verso la famiglia indigente: i poveri sono teneri, legati tra loro e gli stratagemmi che escogitano per rimanere a galla fanno sorridere; i ricchi sono antipatici, arroganti e ingenui. Nella seconda metà del film, Bong Joon-ho ci presenta con cruda efficacia i risvolti negativi della lotta di classe. La famiglia povera ha sempre più appetito di quella ricchezza che ha iniziato ad assaggiare, spingendosi presto ad atti di cieca cattiveria che non avremmo mai creduto potessero compiere.

In conclusione, si potrebbe aggiungere che Parasite quindi è un… Bong Joon-ho spadroneggia con… Ma anche il sottotesto politico… ma l’unica cosa che valga veramente dire è: guardatelo, e basta.

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