Smettiamola di incolpare gli uomini

Al giorno d’oggi è praticamente impossibile non aver mai sentito parlare di violenza sulle donne. Credo che ognuno di noi abbia sentito parlare di sfuggita o letto una notifica al telefono con la “solita” storia del marito di famiglia che da un giorno all’altro uccide moglie e figli o dell’ex che, infuriato, getta l’acido alla ragazza che si è rifatta una vita, per fare degli esempi. Tuttavia, pur essendo giusto parlare di questi problemi seri, sempre più spesso mi capita di vedere che i commenti di uomini e donne riducano il fatto tragico all’ennesima scusa per attaccare il sesso opposto: gli uomini dicono che si parla troppo di questi fatti e che la ragazza di turno se l’è cercata, le donne li rimproverano per essere maschilisti e così via.
Capisco perfettamente l’indignazione, per lo più femminile, di fronte a questi commenti, perché io stessa mi sentivo così, ma poi mi sono chiesta: perché sorgono tutte queste discussioni? Si può davvero dire che questo sia colpa della storica incomprensione tra uomo e donna, oppure c’è forse un’altra ragione? E soprattutto: servono davvero tutte queste polemiche per ottenere la parità dei diritti o forse bisogna guardare il problema da un’altra prospettiva per risolverlo?

A queste e altre domande hanno risposto i due relatori della conferenza del 27 novembre Se questo è un uomo. Identità maschili e violenza di genere, organizzata dall’Ufficio Equità e Diversità dell’Università con relatori la professoressa Maria Giuseppina Pacilli (autrice del libro intitolato Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità) e il professor Stefano Ciccone (autore di Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore).

Innanzitutto, per affrontare queste domande, bisogna ammettere che il binomio maschi/femmine non sia così facile da distruggere per un semplice motivo: ha radici millenarie. Basti anche solo pensare ad Aristotele, che vedeva nel maschio il concetto superiore di lògos e razionalità, mentre nella donna uno spirito inferiore in preda alle passioni. L’idea per cui le donne sono deboli, devono essere protette, e perciò il loro ruolo è a casa coi figli si è tramandata negli anni, tuttavia negli ultimi secoli le donne hanno combattuto per cambiare questa visione, creando lo stereotipo della donna lavoratrice, autonoma e indipendente economicamente e sentimentalmente dall’uomo.

Questo però pone un problema identitario non insignificante: se da un lato le donne si sono coalizzate per tentare di ottenere, almeno dal punto di vista politico, lo stesso peso dell’uomo e sono stati creati numerosi centri contro la violenza domestica, dall’altro, gli uomini, già privilegiati, si sono trovati in una situazione scomoda. Confusi da messaggi contrastanti di una società che li vuole alti e forti come “gli uomini veri di una volta”, ma che allo stesso tempo chiede loro anche di essere sempre gentili e possibilmente anche femministi. L’uomo-padrone di una volta, quello a cui la vis modica– ossia il dare un ceffone per educare moglie e figli- era legalmente permessa, non è più socialmente accettato, anzi viene detestato, ma al contempo a volte si chiede continuamente agli uomini di agire come tale, mostrare la loro forza fisica e attenersi a un modello di mascolinità ben delineato, cioè quello di uomo senza debolezze, perfettamente controllato in ogni situazione e che ha sempre successo nella vita.

Il problema è che una cosa del genere è quasi impossibile: siamo essere umani, in fondo, ed è normale oltre che giusto essere vulnerabili in certe situazioni e poter esprimere le proprie emozioni. Eppure, questa sorta di invincibilità è ciò che, velatamente o meno, si chiede all’uomo di dimostrare. La prof.ssa Pacilli l’ha chiamato il “lato oscuro della mascolinità”, ossia questa sorta di peso che ogni uomo deve sopportare, che non gli consente di mostrare le proprie emozioni (tipicamente associate all’“universo” femminile) e che costituirebbe il prezzo psicologico da pagare per usufruire dei privilegi che noi tutti conosciamo. Per usare una metafora, la prof.ssa ha usato l’immagine di un uomo che, andato al bar, ha tirato un pugno alla parete per sfogare con la rabbia (unica emozione concessa all’uomo virile) le sue frustrazioni: questo gesto è emblematico perché rappresenta la forza maschile, ma al tempo stesso la debolezza insita in essa, dovuta all’incapacità di incanalare non soltanto la forza, ma anche il dolore dietro a quel gesto.

Questo prezzo pagato dagli uomini si vede anche dai numeri: è semplice guardare verso l’alto e vedere che la maggior parte delle persone ai vertici della società e che guadagnano di più sono uomini, ma se si guarda verso il basso è anche evidente che sono sempre gli uomini a detenere il più alto numero di suicidi e di depressione, soprattutto dopo un fallimento familiare o economico: è proprio in quel momento che, agli occhi della società, quel ragazzo o uomo inizia ad essere considerato come meno di un uomo. A sua volta, questa svalutazione lo porta a provare rancore verso la società intera, giudicata ingiusta. E’ anche questa frustrazione che porta ai gesti estremi riportati dai media, oltre che a un’avversione verso l’emancipazione femminile, che viene vista solo come una perdita dei privilegi, in cambio di… niente, in fin dei conti, perché alla fine gli uomini di oggi vengono ancora incolpati per gli effetti collaterali di questa loro mascolinità.

La questione non è tanto ciò che ci contraddistingue biologicamente, ma la nostra visione dell’uomo e della donna come due gruppi identitari opposti: il fatto che fino ad oggi il genere umano sia sopravvissuto significa che la suddivisione che abbiamo avuto in questi secoli sia stata vincente, ma questo non vuol dire che sia la migliore e l’unico modo che abbiamo per migliorarla è andare oltre i nostri ruoli di genere.

Questo significa quindi capire che il modello di mascolinità che abbiamo è dannoso e far capire agli uomini di oggi che non importa niente se mostrano le proprie emozioni o se fanno una scelta di vita atipica, come quella di stare a casa coi figli. Tuttavia, non possiamo farlo se continuiamo a trattare gli uomini come nostri nemici, continuando a combattere contro di loro, indistintamente, perché hanno lo stipendio più alto o perché c’è più violenza sulle donne che sugli uomini. Al contrario, dobbiamo farli nostri alleati e, invece che mostrare il femminismo come un modo per instaurare un’“egemonia femminile”, cerchiamo di rappresentarlo come un invito ad andare contro lo stereotipo di uomo alpha. Questo non lo possiamo fare, però, se continuiamo a discutere su chi sia più vittima tra uomo e donna.

Certo, questo non vuol dire che i casi di violenza di genere debbano passare inosservati, anzi è corretto che ricevano la giusta attenzione. Bisognerebbe però guardare alle persone vittime di violenza come tali, prima che come maschio o femmina, avendo un atteggiamento di supporto, anziché usarlo come pretesto per una rivincita sull’altro sesso. Questo infatti genera due effetti complementari, che non fanno che alimentare la lotta tra i sessi: da un lato, quando è una persona del nostro stesso sesso ad essere la vittima, la difendiamo a spada tratta perché ci sentiamo toccati personalmente, mentre quelli del sesso opposto prendono la distanza, perché, in fin dei conti, danno fastidio le generalizzazioni in base al gruppo di appartenenza. Quindi forse è proprio partendo da questo nostro desiderio di essere considerati per ciò che siamo, indipendentemente dal gruppo a cui apparteniamo, che possiamo cambiare, ma per farlo dobbiamo smetterla di trovare risposte semplici come incolpare i maschi.

Ovviamente, ciò non significa che gli uomini siano senza macchia, ma che non è scaricando tutto il nostro odio sul genere maschile o su entità astratte come il patriarcato che agiamo per la parità di genere. Bisogna partire da noi stessi e ammettere che non siamo perfetti, non tanto in quanto uomo o donna, ma in quanto persone e, soltanto una volta compresi i nostri limiti, possiamo riuscire a guardare gli altri con la stessa comprensione con la quale guardiamo noi stessi e la nostra parzialità. Solo così ci sarà lo spazio per dialogare e costruire insieme qualcosa di nuovo.
Per questo, smettiamola di incolpare gli uomini.

Anna Martinato

"I Wandered Lonely as a Cloud"

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