Il problematico rapporto tra il livello della teoria e il livello dell’esperienza

Teoria ed esperienza: due facce della stessa medaglia o due livelli tra loro inconciliabili? Davanti a questa domanda la storia del pensiero ha partorito correnti, autori, fazioni tanto distanti – da un lato c’è chi fonda il senso dell’esistenza sull’esperienza sensibile, dall’altro chi lo ricava dal pensiero, dalla ragione e da quello che l’intuizione può suggerirgli – quanto vicini nell’intento di rispondere a una delle domande epistemologiche fondamentali all’interno del pensiero occidentale: è possibile fondare razionalmente la conoscenza empirica?

In quest’articolo, dunque, proverò a fornire una panoramica – ovviamente limitata – sull’evolversi di questo quesito, soffermandomi prima sull’orizzonte filosofico classico, ovvero quello che mette di fronte l’empirismo scettico di David Hume (1711 – 1776) e l’empirismo critico di Immanuel Kant (1724 – 1804); poi concluderò esaminando il dibattito caratterizzante la filosofia della scienza del XX secolo: quello che contrappone verità e convenzionalità delle leggi scientifiche.

Secondo il filosofo scozzese David Hume, la scienza, che si presume essere fondata sull’esperienza, giunge a conclusioni e deduce leggi della realtà che non sono dimostrabili razionalmente, ma che si fondano sul concetto di abitudine. Questo perché la conoscenza umana si basa sul principio di induzione, il quale mette ordine nell’esperienza e permette di individuare delle leggi nella natura, cosi da fare previsioni.

Per comprendere meglio questo pensiero, occorre rifarsi alla svolta che il “dubbio cartesiano” aveva impresso al pensiero moderno. René Descartes (1596 – 1650), infatti, attraverso il dubbio – il quale metteva in discussione la corrispondenza tra realtà esterna e rappresentazione che il soggetto si fa di tale realtà – aveva affermato che ciò che si conosce è il contenuto della mente. In altre parole, affermava che io conosco ciò che penso, pertanto non posso avere la certezza che ciò che penso corrisponda ad una realtà fuori di me.

Ora, dove il pensiero cartesiano andava delineando uno scetticismo metodologico, la cui funzione era quella di introdurre sì il dubbio, ma come metodo per la ricerca di una verità indubitabile, in Hume tale dubbio diventa radicale e insuperabile.

Nella prospettiva humiana, quello che si conosce è unicamente il contenuto della coscienza, il quale è il prodotto di un’esperienza che proviene dal mondo esterno. Di tale corrispondenza tra mondo esterno e le impressioni che quest’ultimo suscita in noi (che poi diventano idee grazie alla sedimentazione razionale, permettendo poi la loro messa in relazione reciproca)1 , però, non è possibile dire nulla. Buona parte delle convinzioni che si hanno sulla realtà extra-mentale deriva dall’esperienza; tuttavia, tale realtà non è dimostrabile su questa base: la rappresentazione della realtà esterna contiene una grande quantità di elementi soggettivi e congetture che si aggiungono all’esperienza della realtà, ma che non provengono da quest’ultima. Così facendo Hume elimina il problema della dimostrazione oggettiva della realtà, in quanto inconoscibile per l’uomo: si può essere certi dell’esistenza delle impressioni che vanno a definire la coscienza, ma non si può essere altrettanto certi dell’esistenza di ciò che provoca quell’impressioni.

Entrando nello specifico, la critica humiana verso il concetto di realtà fondata sull’esperienza poggia su due elementi fondamentali: il principio di casualità e il principio di induzione.

Il nesso di causa-effetto viene attribuito convenzionalmente a due fenomeni, dove l’uno (precedente) determina l’accadere/è la causa dell’altro, che ne è quindi l’effetto. Un esempio classico è quello che prende in esame l’urto di due sfere: una sfera in movimento urta una seconda sfera ferma; al contatto avviene l’iniziale del movimento della sfera 2, fino ad allora immobile. Questo è il puro e semplice contenuto dell’esperienza. Tuttavia, l’intelletto umano non si limita ad immagazzinare esperienza, ma interpreta ciò che vede, fa congetture. Effettivamente, il nesso di causa-effetto non è oggetto di esperienza: il porre l’urto come causa logica, naturale e necessaria del movimento della seconda sfera, in realtà non è altro che un’interpretazione: un qualcosa che l’intelletto attribuisce all’esperienza mediante il principio di induzione. Se volessimo attenerci alla sola esperienza, essa non fa altro che mostrare l’esistenza di un momento precedente (movimento sfera 1) e un momento successivo (movimento sfera 2).

Pertanto il principio di induzione si basa sul processo che, da una serie di casi particolari conosciuti attraverso l’esperienza, porta a dedurre una legge universale. Tale procedimento si fonda sul criterio della ripetitività (che Hume chiama abitudine), il quale proietta una regolarità, permettendo così di fare previsioni che, però, agli occhi dello scozzese, sono prive di qualsivoglia carattere di universalità.

L’induzione permette l’acquisizione di nuova conoscenza (è ampliativo) in senso stretto, in quanto non si esplicitano soltanto le conseguenze di quanto contenuto nelle premesse, ma si congettura la validità di nuove regolarità e, pertanto, l’aumento di conoscenza si ottiene a discapito della certezza delle conclusioni. Hume, dunque, pone nella relazione di causalità lo strumento privilegiato per estendere la conoscenza dei fenomeni naturali ma, allo stesso tempo, ne sottolinea l’aspetto problematico dovuto all’impossibilità, in termini strettamente logici, di dedurre una legge universale da una serie di casi particolari, seppur numerosi. Il filosofo scozzese elabora dunque una tesi sull’impossibilità di giustificare logicamente l’induzione.

Riporto qui una ricostruzione plausibile dell’argomento humiano. Si consideri una generica inferenza induttiva:

  • Tutti i casi di A sono stati B
  • Il prossimo caso di A sarà B

Da qui, Hume comincia ad indagare il fondamento dell’inferenza induttiva, secondo cui se tutti gli x osservati che sono A sono anche B, allora tutti gli x che sono A sono B. Ora, tale inferenza è fondata sul principio di uniformità della natura (PUN), secondo il quale si crede che il futuro sarà simile al passato: il sole è sempre sorto, sorgerà anche domani.

Tenendo a mente questo, definisce le due premesse fondamentali dell’argomento:

  1. Esistono soltanto due tipi di argomenti: dimostrativi e probabili
  2. L’inferenza induttiva presuppone il principio di uniformità della natura (PUN)

Il fondamento delle inferenze induttive sarà giustificato se e solo se sarà a sua volta legittimato il PUN. Ciò detto, secondo Hume, tenendo presente la prima premessa, non resta che capire se l’argomento a sostegno del PUN sia dimostrativo o probabile.

L’ipotesi dell’esistenza di un argomento dimostrativo a sostegno del PUN viene subito definita dal filosofo come insostenibile: infatti, se tale argomento esistesse, la negazione del PUN dovrebbe implicare di per sé una contraddizione. Tuttavia, questo principio non è una verità logica, infatti è possibile pensare a un x che sia A e che non sia B. La stessa insostenibilità poi si ripresenta passando alla supposizione dell’esistenza di un’argomento probabile a sostegno del PUN: infatti, tale principio non è dimostrabile nemmeno con argomenti empirici, in quanto la nostra esperienza del passato non può provare nulla per l’avvenire, eccetto sulla base del presupposto che ci sia una somiglianza tra passato e futuro. Questo significa, però, assumere il PUN proprio mentre si sta cercando di validarlo, il che pone fine all’indagine.

Ne consegue che non esiste alcun argomento a sostegno del PUN e, in virtù della seconda premessa fondamentale – l’inferenza induttiva presuppone il PUN –, si conclude che non esiste alcun argomento a sostegno dell’inferenza stessa.

Kant, al contrario, non è uno scettico: nonostante abbia grande considerazione del pensiero humiano – arrivando ad accettarne alcuni punti importanti – dissente dallo scozzese nel ritenere impossibile una conoscenza oggettiva e che i principi scientifici siano fondati sull’emotività (abitudine-credenza).

Così, consapevole che l’esperienza non sia in grado di dare valore universale e necessario alle conoscenze che derivano da essa, comincia, per dimostrare i fondamenti delle scienza, un’analisi molto minuziosa del meccanismo di conoscenza razionale. In particolare, si pone un quesito a detta sua fondamentale: esiste un elemento a priori che fonda la ragione? Proprio questa domanda definisce il punto di partenza del peculiare procedere kantiano: il criticismo.

Pertanto Kant, ritenendo che le condizioni di possibilità della conoscenza precedano ogni esperienza empirica, vuole istituire un tribunale della ragione per processare ogni nostro modo di pensare: infatti, a suo dire, gli ambiti della ragione, i suoi limiti e ciò che può e non può conoscere non possono essere stabiliti dai sensi, ma devono essere descritti da un’analisi critica svolta dalla ragione stessa. La ragione si troverà quindi ad essere sia giudice che imputato.

Entrando nel vivo della riflessione, il filosofo tedesco ai giudizi2 analitici a priori – i quali sono formulabili senza fare ricorso all’esperienza, ma utilizzando il solo ragionamento, poiché non aggiungono conoscenza e si limitano ad esplicitare ciò che già è implicito (il triangolo ha tre lati) – e ai giudizi sintetici a posteriori – i quali aggiungono conoscenza, ma derivano solamente dall’esperienza personale (le rose sono rosse) –, già presenti con nomi diversi in Hume3, aggiunge i giudizi sintetici a priori.

Questi giudizi sono fecondi, ovvero sono in grado di garantire il progresso del sapere, e solidi, ovvero basati non sull’esperienza, ma sulla ragione. I giudizi matematici sono, secondo Kant, un esempio di questo caso particolare: 5+7=12. Il 12 non è già implicito nel 5 e nel 7, perciò arrivare al risultato significa acquisire nuove informazioni per via razionale e non per via esperienziale. La conoscenza che ne deriva è pertanto oggettiva e a priori.

Secondo il pensatore di Königsberg, quindi, i principi matematici sono giudizi sintetici a priori, e hanno carattere di universalità e necessità: universali poiché sono veri sempre e necessari poiché non possono non essere. Ne consegue che, nell’ottica kantiana questi principi, che fondano la conoscenza scientifica, non possono essere di natura empirica in quanto indicano una conoscenza che precede ogni esperienza ed è insita nella struttura stessa della conoscenza razionale. In Kant la mente non è una tabula rasa, bensì una sorta di casellario, dove le caselle sono le forme a priori dell’intelletto.

Sotto questa prospettiva la conoscenza scientifica non dice come è fatta la realtà, bensì come io conosco la realtà. Con Kant, quindi, i principi della conoscenza scientifica non sono leggi della realtà esterna al soggetto, ma sono le leggi con le quali il soggetto interpreta la realtà. Per chiarire questo nuovo approccio al problema è utile rifarsi ad una celebre metafora kantiana: quella degli occhiali dalle lenti colorate.

Immaginiamo, scrive il filosofo, di possedere tutti dalla nascita un paio di occhiali dalle lenti colorate (ad esempio di rosa); essi sono il mezzo attraverso il quale osserviamo la realtà. Il mondo esterno, inevitabilmente, apparirà ai nostri occhi tinto di rosa, tuttavia questo non ci autorizza a dire che il mondo sia effettivamente rosa. Quel colore non è altro che il mezzo attraverso cui leggiamo il mondo: sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui la realtà viene percepita, esperita e caratterizzata.

La conoscenza umana è quindi funzionale e non sostanziale: non è conoscenza della sostanza o dell’essenza delle cose in sé, ma è un sapere di funzioni, di relazioni tra i fenomeni e di cose per come sono percepite dal soggetto. La realtà è sì oggettivamente conoscibile, essendo formata in tutti gli uomini secondo precise forme a priori dell’intelletto, ma proprio per questo limitata alla catalogazione permesse da quest’ultime. Riprendendo la famosa metafora, il fatto di vedere il mondo rosa non ci autorizza a dire che il mondo sia essenzialmente di questo colore.

Così dicendo, Kant divide tra la cosa in sé (noumeno) e la cosa per me (fenomeno): la prima è e sarà sempre inconoscibile per l’uomo, costretto a percepire il mondo mediante le forme dell’esperienza (i cinque sensi) e, soprattutto, mediante le forme a priori dell’intelletto. La conoscenza, dunque, può essere certa, a patto che prenda atto dei propri limiti.

Si compie quella che il filosofo ribattezzerà col termine rivoluzione copernicana della conoscenza. Infatti, analogamente alla rivoluzione astronomica avviata dal “De revolutionibus” – che aveva posto il sole e non più la terra al centro del sistema di orbite dei pianeti – la rivoluzione di Kant attua un rovesciamento di prospettiva, ponendo il soggetto e non più l’oggetto al centro del processo conoscitivo. Il mondo si mostra all’uomo come fenomeno, come cosa per me, adeguandosi a quelle forme che circoscrivono la conoscenza umana.

“Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta […] fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che […] essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sibbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge.4

Dopo aver esaminato l’orizzonte classico, è interessante ora osservare come la dialettica tra livello della teoria e livello dell’esperienza si articoli all’interno di un secolo come il ventesimo, il quale, da un lato, ha visto crescere esponenzialmente d’importanza il ruolo della scienza nella società e, di conseguenza la fiducia in essa, dall’altro ha sancito una filosofia della scienza tanto proficua quanto diversificata.

Il movimento filosofico più importante del primo novecento nel campo della filosofia della scienza fu senza ombra di dubbio il neopositivismo o empirismo logico, che partiva dal presupposto che la filosofia dovesse ambire al rigore metodologico proprio della scienza.

In questa prospettiva, la filosofia doveva abbandonare l’aspetto puramente teorico-speculativo e ricercare una chiarezza che si basasse sull’esperienza, così da fondare in maniera rigorosa la conoscenza. Infatti, all’interno de “La concezione scientifica del mondo“, un vero e proprio manifesto dell’empirismo logico, pubblicato nel 1929, vengono esposti i due attributi fondamentali della conoscenza scientifica:

  • Essa è empirica e positivista, ovvero si da solo conoscenza basata su dati immediati
  • Essa è contraddistinta dall’applicazione di un preciso metodo, quello dell’analisi logica

Il lavoro scientifico tende, dunque, a realizzare l’unità della scienza, applicando l’analisi logica al materiale empirico per la formulazione delle teorie scientifiche. In termini più prettamente tecnici, lo scopo è la cosiddetta assiomatizzazione, ovvero una formulazione astratta e formale delle teorie scientifiche dove il riferimento all’esperienza è il sigillo di garanzia dell’affidabilità della conoscenza. L’esperienza è, quindi, utilizzando l’immagine utilizzata da Herbert Feigl nel suo articolo del 1970 “The orthodox view of theories”, il suolo, ovvero il livello più basso, il punto di partenza nella costruzione di una teoria. Da qui lo studioso delinea logicamente dei concetti empirici che hanno un rapporto instabile con il “suolo”, ma sono lo specchio della convinzione cardine del movimento neopositivista: la fiducia nella possibilità di definire la legittimità della teoria partendo dal livello dell’esperienza, la cui traccia sarà conservata dalla neonata teoria scientifica.

Si va a delineare il cosiddetto principio di verificazione: un certo enunciato viene ad assumere o meno un significato sulla base della possibilità o meno di verificare empiricamente l’enunciato stesso.

Un esempio emblematico è quello proposto da Ernest Nagel rispetto al modello atomico di Bohr (che prevede il “salto” di un elettrone da un’orbita all’altra, che, però, non può essere osservato in sé) : come assegnargli comunque un significato empirico? Mediante l’associazione tra il livello teorico e il livello sperimentale della lunghezza d’onda della luce emessa in occasione di uno specifico salto, che si colloca in una certa posizione lungo lo spettro elettromagnetico.

Si tratta di una posizione piuttosto radicale: comporta che qualsiasi enunciato per il quale non si disponga di una procedura di verifica empirica, risulti essere letteralmente privo di significato.

Tuttavia, questo principio, che per sua natura si pone come antidogmatico, attaccando tutto quello che sembra essere assunto come vero al di là di una verifica empirica, nasconde una tendenza proprio al dogmatismo. Tant’è che, dopo un’attenta analisi, sono attribuibili al verificazionismo quegli stessi difetti che esso imputa alla metafisica. Infatti, affermare che ogni enunciato ha significato se e solo se è possibile immaginare un metodo empirico per la sua verifica, significa formulare a conti fatti un universale, poiché ci si sta riferendo a tutti gli enunciati dotati di senso. Per poter dire effettivamente che questo enunciato è vero, però, da principio dovrebbe essere possibile poter studiare tutti gli enunciati. Qui che emerge il paradosso: applicando il principio di verificazione al principio stesso, si nota come esso non sia verificabile empiricamente: la totalità delle esperienze non è un’esperienza possibile, ergo stando al criterio stesso, ci si trova davanti ad un principio dogmatico e metafisico.

Tutto ciò risulta ancora più evidente se ci rifacciamo alla critica mossa da Karl Popper5 rispetto alle proposizioni generali. Egli nota che le cosiddette scienze empiriche, che partono dall’esperienza, tendono a formulare delle proposizioni generali che valgono per un numero illimitato di eventi (come le leggi fisiche). Tuttavia, queste trascendono qualsiasi esperienza specifica perché richiederebbero, per la loro verifica, una quantità illimitata di controlli e questo le rende – agli occhi di un empirista logico – delle proposizioni metafisiche. Scrive dunque Popper:

“I positivisti nella loro ansia di distruggere la metafisica distruggono, con essa, la scienza della natura“. 6

La visione popperiana diffida da ogni cammino di generalizzazione dall’osservazione alla teoria ed è in linea con un famoso micro-trattato – se così possiamo chiamarlo – che Albert Einstein (1879 – 1955) scrisse, in merito al rapporto tra teoria e esperienza, all’interno di una lettera inviata all’amico Maurice Solovine il 7 maggio 1952.

Einstein mostra che nel costruire una teoria scientifica, gli assiomi – ovvero le ipotesi complessive della suddetta teoria, che ambiscono poi a diventare leggi – poggiano sulle esperienze immediate – ovvero la totalità delle esperienze sensibili – unicamente da un punto di vista psicologico, o per meglio dire intuitivo. Secondo Einstein non esiste alcun percorso logico che dalle esperienze conduca agli assiomi: c’è unicamente una connessione intuitiva e sempre fino a prova contraria. Pertanto, alla base deve esserci il procedimento deduttivo che dagli assiomi conduce a degli enunciati particolari, i quali possono, in virtù di ciò, pretendere di essere veri. Einstein riassume il tutto in questo famoso passo:

“Il compito supremo del fisico è di arrivare a quelle leggi elementari universali da cui si può costruire il cosmo per pura deduzione. Non esiste un percorso logico per queste leggi; solo l’intuizione, che poggia sulla comprensione empatica dell’esperienza, può raggiungerle.” 7

L’idea di fondo è che non esista alcun percorso razionale, e tanto meno logico, per la scoperta di nuove idee e ipotesi. Le leggi scientifiche non vengono ricavate induttivamente, ovvero mediante un’iniziale osservazione di puri fatti empirici, da cui segue una graduale astrazione atta a individuare logicamente la relazione capace di connettere questi fatti: le leggi sono sempre precedute da un’intuizione sulla natura delle cose o da un’ipotesi di lavoro. In Popper e Einstein, kantianamente, l’osservazione non è mai neutra, ma è sempre intrisa di teoria, di idee preconcette, che, appunto, si vorrebbe mettere alla prova. Solo così lo scienziato può cogliere dall’esperienza – che per sua natura è articolata e frastagliata – quei fatti che sono abbastanza semplici da rendere palesi le relazioni indagate. Ne segue che le teorie non vanno in contro a facili verificazioni, ma a probabili falsificazioni.

Mi spiego meglio: le teorie portate avanti dagli scienziati sono, come mostrato dinazi, figlie di congetture e previsioni e, nella maggioranza dei casi, non sono totalmente verificabili in quel preciso momento storico; di conseguenza, sono anche fortemente osteggiate dalla comunità scientifica del tempo, tant’è vero che appartiene al nostro quotidiano assistere all’evoluzione scientifica che gradualmente corrobora – termine fondamentale introdotto da Popper – una teoria proposta anni e anni prima8.

Infatti, la critica popperiana all’empirismo logico partiva dal presupposto che milioni di conferme non fossero in grado di definire una teoria come certa, e che quindi pretendere di fondare la scienza sul verificazionismo significasse, di fatto, minare la stessa scienza alle sue fondamenta. Da qui la necessità di invertire il criterio che da verificazione, deve diventate di falsificazione: viene così teorizzato il falsificazionismo.

Per questo motivo una teoria si candida seriamente a diventare una teoria scientifica solo quando è falsificabile, ovvero quando, oltre a formulare una serie di congetture, indica in quali casi possa essere contraddetta da esperimenti adeguati. Al criterio di significanza viene opposto un criterio di demarcazione, il quale abbandona l’identità tra scienza e significato (vedi empirismo logico) e permette di “marcare” il confine tra scienza e non scienza: non esistono più teorie scientifiche vere, ma corroborate, ovvero teorie che per il momento hanno superato i controlli della falsificazione. Popper apre la scienza al dubbio: la verità in sé è irraggiungibile, tutto è, humianamente, vero fino a prova contraria.

In conclusione, il criterio falsificazionista è realmente antidogmatico, in quanto mette in evidenza il fatto che, se una teorica non può essere sottoposta a un controllo che possa falsificarla, allora, a partire da essa, è possibile avanzare qualsiasi altra concezione senza contraddittorio. Al contrario, nella dialettica osservazione-teoria, bisogna approssimarci idealmente all’oggettività mediante un costante processo evolutivo di eliminazione del falso, consapevoli che la scienza non permette di conoscere la verità assoluta, poiché non poggia su un solido strato di roccia, bensì su delle fragili palafitte, volta in volta sostituibili:

“Dunque la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di “assoluto”. La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o “data”; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura.9.

E ancora:

“Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità.”10

NOTE:

[1] Hume articola il contenuto della coscienza in idee ed impressioni, dove le prime derivano dalle seconde. Le impressioni sono le percezioni, le sensazioni e le emozioni più forti di cui l’uomo fa esperienza; tutto parte da loro. Le idee sono il ricordo di queste impressioni. Nello specifico la differenza che intercorre tra impressione ed idea consiste proprio nel grado di forza e vivacità con cui colpiscono lo spirito umano ed entrano nel pensiero e nella coscienza.

[2] Il concetto di giudizio non rappresenta assolutamente una novità, poiché esso è alla base del procedere filosofico fin dai suoi albori. Il giudizio, infatti, non è altro che un’affermazione in cui si dice qualcosa di un dato soggetto. L’esempio classico è: “Socrate è mortale”. Esso è un giudizio.

[3] Già Hume poneva una distinzione tra relazioni di idee vere e proprie, attraverso le quali ricavare un’idea derivandola senza il ricorso all’esperienza (a priori), e relazioni tra dati di fatto che – al contrario – si basano sull’esperienza.

[4] Immanuel Kant, Prefazione alla Critica della ragion pura (seconda edizione, 1787), Laterza, Roma-Bari, 2000.

[5] Karl Popper (1902 – 1994) fu uno tra i maggiori e più influenti filosofi della scienza del XX secolo, soprattutto in virtù della sua concezione fallibilistica della conoscenza e del metodo scientifico.

[6] Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 2010.

[7] Albert Einstein, Ideas and opinions, Crown Publishers, New York 1954, trad. di E. Ippoliti.

[8] Un esempio emblematico è quello del bosone di Higgs, che fu teorizzato nel 1964 e rilevato per la prima volta solo nel 2012.

[9] Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 2010.

[10] Ibidem.

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