Brexit: la risposta non può mai essere fra un “sì” o un “no”

La vittoria della Brexit ha aperto una nuova era dell’Unione Europea. Forse la più critica della sua travagliata esistenza. La vittoria del “Leave” ha , innanzitutto, creato un importante precedente nella storia europea, con le spinte nazionalistiche e le correnti populiste che ora si fanno più forti e rilevanti, ulteriormente rafforzate dall’esempio britannico. Tuttavia, il protagonista indiscusso di questa vicenda rimane il referendum.

La pronuncia del popolo d’oltremanica è incontrovertibile e , ovviamente, legittima. Alcuni politici di primo piano inneggiano alla vittoria del “coraggio dei liberi cittadini”, sostenendo che altri popoli europei “meritano un referendum”,  cavalcando l’onda del nazionalismo più radicale e i sentimenti di chi vede nell’Unione Europea un apparato succhiasangue, insensibile alle questioni del popolo. Tuttavia, a pochi giorni da questa storica decisione, il ricorso allo strumento del referendum mi appare quanto di più inadeguato possibile. Di per sé, espressione massima  di democrazia diretta, il referendum per la “Brexit” è stato storpiato e strumentalizzato a tal punto da prendere le sembianze di un voto a favore o contro la propria libertà. Chi ha votato per il “Leave”, però, ha votato per una libertà che oggi non esiste più. La libertà di essere sciolti da ogni connessione con il “diverso”, con lo “straniero”, con l’Europa, con il resto del mondo , non può più esistere. Siamo inestricabilmente interconnessi fra di noi. E l’Unione Europea è un compromesso a queste connessioni. L’Unione non è certo un’idilliaca isola di felicità, ma è il compromesso ad una convivenza che può generare ricchezza ed opportunità da un lato, invece che scontri ed opposizioni , storicamente rivelatisi sanguinosi. Certo, fino ad oggi è stato un compromesso oggettivamente insufficiente ai bisogni di cittadini, che non percepiscono la propria “europeità” e, anzi, se ne sentono minacciati.

Ecco, il voto britannico è un voto che pone le sue basi su queste premesse: un voto che fonda le sue inquietudini sui recenti attentati terroristici nel cuore dell’Europa e nella questione-immigrazione.  È un voto che fa perno sulla paura, espresso nel momento di massima difficoltà dell’Unione. Per tutto ciò io credo che il primo ministro Cameron, mettendo nelle mani dei cittadini britannici lo strumento del referendum, abbia compiuto un atto temerario e irresponsabile, in un momento di drammatica fragilità. L’Unione oggi ha bisogno di scelte razionali e positive. Non di mosse drastiche e impulsive. E il dubbio che la mossa di Cameron sia stato un disperato tentativo di aggiustare dinamiche interne ormai alla deriva ,sorge e rende ancora più amaro il “Leave” per chi, come me, crede ancora nel futuro di un Unione Europea compatta. La politica e la diplomazia che devono fondare la convivenza e il progresso europeo vanno ben oltre ad un “yes or no”, o ad un “remain or leave”. Soprattutto, non possiamo permettere che gli interessi politici interni ad un singolo stato membro coinvolgano e influenzino le dinamiche comunitarie. Questo, a mio parere, è il lascito più grave e difficile da digerire del voto del 23 Giugno.

La “ Brexit” va compresa ed accolta, ma non possiamo elevarla ad esempio virtuoso. No, l’Unione Europea si fonda su basi di accoglienza ed inclusione. E dove si rileva un contrasto, la risposta non può mai essere fra un “sì” o un “no”. Proprio da qui dobbiamo ripartire, da questo giorno triste per l’UE, dobbiamo ripartire e ricalibrare le priorità della nostra Comunità:  dai cittadini europei e dalla loro convivenza,  dalla condivisione delle diverse culture e dall’abbattimento di anacronistici confini, dal sentimento di “europeità” e dalla ricerca di compromessi, rifiutando il goloso invito di chi ci offre di scegliere fra un “Sì” o un “No”.

Umberto De Marchi

Studente di giurisprudenza, appassionato di politica, musica e sport.

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