Che senso ha dare procedura penale?

Facciamo un discorso serio sul tema “esami a giurisprudenza”. Come tanti miei compagni di corso sto preparando l’esame di procedura penale. È uno dei due esami più grossi, conta 14 crediti che per dare un’idea si traducono in circa 1200 pagine, ed è un esame del quarto anno, per cui molti miei compagni lo hanno già sostenuto. Lo sto preparando su un codice uscito a dicembre dello scorso anno e su un manuale aggiornato a febbraio di quest’anno. Ora, la rapidità con la quale il legislatore agisce in materia è tale per cui chi ha dato l’esame a maggio 2018 ha portato un programma leggermente differente rispetto a chi lo ha dato a dicembre dello stesso anno; programma che sarà ancora differente per chi, come me, proverà a darlo adesso. I miei stessi strumenti di lavoro, codice e manuale, hanno delle differenze sostanziali in alcune delimitate parti che rendono alla fine il codice già obsoleto a meno di 3 mesi dalla stampa. Ora, con l’odioso scandalo del CSM, si sta discutendo una nuova possibile riforma in tema di intercettazioni e sui tempi delle indagini preliminari.

Sono sempre piccoli atti che però vanno ad incidere su argomenti dalla portata enorme. Lasciando perdere le implicazioni pratiche, io mi chiedo molto umilmente quale sia il senso di mantenere un esame fiume da un migliaio di pagine dove alla fine la tua valutazione, qualsiasi sia il metodo che uno vuole applicare, si baserà comunque su una parte infinitesimale di un programma colossale che cambia anche in alcune sue parti fondamentali ad ogni sessione d’esame. Anche perché poi, parliamoci chiaro, chi pensa di poter essere in grado di affrontare l’avvocatura con lo studio teorico delle due procedure senza aver mai nemmeno visto uno studio o un’aula di tribunale prima di uscire dall’università se non per sua singola iniziativa? Io credo che andrebbe ripensato proprio l’impianto di Giurisprudenza, perché esami così oggi non hanno proprio senso, e questo al di là dell’impararsi a memoria 1200 pagine. Non ha senso studiare così una materia che fra 6 mesi sarà già stravolta. Forse si dovrebbe optare per un approccio molto più pratico, meno anni nell’ambiente accademico, esami che tracciano le nozioni fondamentali e forniscono un metodo, dopodiché la gavetta durante il praticantato, soprattutto alla luce di un mondo del lavoro che alla fine di 5 (facciamo 6 per gli esseri umani tipo me) anni di giurisprudenza ti propone (se vuoi fare l’avvocatura) altri 18 mesi di studio/lavoro non pagato con un ulteriore esame da superare. Se proprio non si vuole riformare il praticantato almeno fate uscire la gente prima dall’università. Perché così non può proprio più funzionare ed è lesivo anche della dignità del lavoro pensare di poter essere finalmente un libero professionista, se tutto va bene, a 26 anni guadagnando comunque cifre non astronomiche.

Tutto questo senza dimenticare che le facoltà di Giurisprudenza necessitano urgentemente del numero chiuso, perché di laureati questo paese ne sforna troppi e troppi significa prospettive lavorative minime dopo.

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