Il lavoro per Emergency di un laureato a Trento

Claudio Cozzini, laureato in Ingegneria Edile e Architettura a Trento, ha raccontato la sua storia in un incontro organizzato dal gruppo universitario di EMERGENCY alla Fondazione Caritro.

Claudio arriva direttamente dall’Uganda e lì ritornerà tra pochi giorni. In Uganda non c’è la guerra, ma EMERGENCY sta lavorando alla costruzione di un ospedale che si inserisce nell’ambito di un progetto più vasto, chiamato ANME (African Network of Medical Excellence). L’idea è nata dopo aver aperto un centro di eccellenza cardio-chirurgica in Sudan nel 2007: EMERGENCY e il ministero della sanità Sudanese hanno riunito le autorità di 11 paesi Africani per discutere come garantire alle loro popolazioni il diritto ad una medicina gratuita e di alto livello. Questo incontro ha portato alla nascita di un manifesto per una medicina basata sui diritti umani, l’eguaglianza, la qualità, e la responsabilità sociale dei governi, nonché all’impegno reciproco alla cooperazione tra stati per creare una rete di ospedali in grado di fornire cure paragonabile ai migliori centri europei

Sul modello dell’ospedale Sudanese – che in 12 anni di attività ha effettuato più di 8000 interventi chirurgici e 70.000 visite specialistiche in modo totalmente gratuito per pazienti provenienti da 28 stati, e che oggi continua a rimanere attivo nonostante le difficile situazione del paese – nel 2017 è cominciata la costruzione del secondo ospedale della rete, quello di eccellenza pediatrica di Entebbe, di cui Claudio è attualmente capo cantiere. Vi riporto la sua testimonianza, e il contenuto di una piccola intervista che mi ha concesso.

«Ho iniziato a lavorare con EMERGENCY quando ancora ero un studente universitario. Il momento era particolare, perché era in corso l’emergenza ebola e vi era carenza di personale e risorse. Per questo motivo, in modo molto atipico e senza un solida esperienza pregressa, sono partito per la Sierra Leone come “logista”.»

Hai dovuto affrontare un colloquio per partire? 

«In realtà credo di essere stata l’unica persona nella storia di EMERGENCY a non aver nemmeno mandato un application: un’altra organizzazione aveva fatto il mio nome. Mi hanno chiamato, io ho mandato il curriculum e fatto colloqui con varie persone – dal capo della logistica, al capo dei tecnici… Era un progetto abbastanza critico e dovevano capire se chi voleva partire fosse davvero pronto. L’indomani ho avuto il feedback: 7 giorni per il visto e poi sarei partito.»

Ma eri ancora all’Università! I tuoi genitori come l’hanno presa? 

«È stato buffo, avevo ricevuto il giorno prima anche una proposta per un tirocinio in Russia, quindi sono tornato a casa con queste due strane offerte. Però preferivo andare in Africa. 

In quel periodo se ne parlava tantissimo, quindi mia madre mi disse “basta che non vai dove c’è l’ebola”. Quando le ho detto che era un centro per la cura dell’ebola è sbiancata. Ancora oggi mi capita di filtrare quello che succede quando lo racconto a casa, è inutile farli agitare… alcune cose le hanno sapute dopo, ad esempio sono stato messo in isolamento, e loro l’hanno scoperto durante una presentazione come questa, in cui raccontavo la mia esperienza.»

Avevi già lavorato come logista? Ma che cosa fa esattamente un logista?

«Non avevo alcuna esperienza. A loro serviva una figura per la parte edile-tecnica, in cui io rientravo. Dico sempre che il “logista” è un po’ il MacGyver della situazione, deve saper fare tutto: dalla riparazione, alla gestione dello staff locale, dei rapporti con le autorità, alla supervisione dei protocolli di sicurezza. È un titolo generico in cui si racchiude tutto lo staff non medico che segue il funzionamento dell’ospedale.»

Racconta dell’esperienza in Sierra Leone.

«Arrivato lì, ho trovato un contesto in cui sia gli espatriati europei sia lo staff locale si sono veramente dati da fare per combattere l’epidemia. Alcune persone erano state cacciate dai loro villaggi perché lavoravano nel centro ebola, e c’era chi dormiva sotto una palma per poter essere al lavoro la mattina alle 7. Ho trovato persone fiere, con un atteggiamento positivo nonostante tutto ciò che stava succedendo, e il cui pensiero era “voi siete venuti qui per darci una mano ma dobbiamo essere noi i primi ad aiutare noi stessi”. Queste cose mi hanno reso parte di una comunità collaborativa e ho avuto “un’illuminazione” già il primo giorno: mi sono sentito in dovere di dare qualcosa indietro, perché io ho avuto la possibilità di studiare e formarmi, mentre lì c’era molta gente che pur con la stessa dedizione non avrebbe mai potuto accedere alle mie stesse possibilità. Poi certo, ci sono stati momenti molto difficili, alcuni colleghi europei sono stati infettati. Dopo 3 giorni dal mio arrivo un infermiere si infettò e solo allora capii che ero realmente finito in un contesto rischioso: inizialmente era stato tutto un lavorare frenetico. Poi il mio vicino di camera si ammalò. La persona con cui due sere prima mi ero bevuto una birra! Nelle case di EMERGENCY si vive come una famiglia, “una famiglia con la E maiuscola” come la definisce un mio amico, si mangia insieme, si ride e si scherza anche per allontanare un po’ le paure e i pericoli che ci sono nel lavorare . Comunque tutti nello staff di EMERGENCY sono guariti. Peraltro hanno deciso di rimanere in Sierra Leone a farsi curare: anche in quel progetto l’associazione ha garantito trattamenti di qualità, con standard europei.

Come sei giunto al tuo lavoro attuale?

«Io ero partito prima della laurea, perché c’era bisogno in quel momento. Durante la missione ho avuto la possibilità di incontrare Gino Strada e Rossella Miccio (presidente di EMERGENCY). Mi fu detto di tornare in Italia, laurearmi, e poi mi avrebbero richiamato. A quel punto riscrissi da capo la tesi perché la mia visione del mondo era totalmente cambiata nel frattempo. Due mesi dopo la laurea sono ripartito, questa volta non come logista, ma come capo cantiere per seguire la costruzione di un ospedale in Repubblica Centroafricana. Quello fu un contesto diverso. Mentre l’ebola era un nemico invisibile che permeava l’aria di paura, questo era un paese in guerra civile da anni; se in Sierra Leone non potevo uscire perché correvo il rischio di essere infettato, in RC si rischiava di prendersi un proiettile vagante. Anche se EMERGENCY viene rispettata dove lavora. Inoltre è uno degli stati più poveri al mondo, la sanità è garantita ai bambini fino ai 5 anni, ma in ospedale ci si sentiva rispondere “io non ho né il bisturi, né le garze, né i guanti per il medico. Se tu riesci a recuperare queste cose, allora posso operare tuo figlio”. Ho lavorato qualche mese in questo ospedale, il quale prima che arrivasse EMERGENCY era in una situazione che è meglio non raccontare.. poi mi hanno detto che era richiesto il mio operato per il progetto in Uganda, che stava partendo (nel 2017). Sono volato ad Entebbe. Lì per la prima volta ho trovato un ambiente tranquillo. L’Uganda è un paese turistico, ci si può muovere tranquillamente. Ci sono comunque situazioni di estrema povertà e baraccopoli, ma sulla facciata principale della strada ci sono i centri commerciali, un cinema, etc.»

Il progetto per la realizzazione dell’ospedale di Entebbe è stato donato ad Emergency da Renzo Piano. I suoi lavori cercano solitamente di contestualizzare gli edifici nello spazio in cui sorgono, valorizzando e adattando materiali e le tecniche costruttive locali..

«In questo caso si è tradotto nella utilizzo della tecnica costruttiva del pisé (o rammed earth), una tecnica tradizionale che consiste nel compattare la terra strato dopo strato. Solo che tra i requisiti strutturali di un ospedale c’è chiaramente quello di sostenere carichi considerevoli, i muri dovevano essere in grado di supportare un bello sforzo. È iniziato, così, uno studio sul materiale di scavo e si è riusciti a ideare un “rammed earth tecnologico” con una resistenza paragonabile al calcestruzzo. In generale abbiamo cercato di adottare soluzioni sensibili alle tematiche ecologiche: ad esempio, appunto, utilizzare la terra di scavo per le pareti, che oltre ad abbattere l’uso di prodotti meno ecologici ha dotato l’ospedale di un’inerzia termica molto elevata. Inoltre abbiamo cercato di recuperare l’acqua piovana per poterla riciclare: anche se in tutti i nostri progetti sono previste vasche per stoccare l’acqua, cosicché se non arriva per tre giorni l’ospedale è in grado di continuare la sua normale attività, rimane una risorsa preziosa e vogliamo di riutilizzarne il più possibile. Per la corrente elettrica vale lo stesso discorso: ci sono dei generatori, ma in aggiunta si stanno posando circa 3000 mq di pannelli solari donati da ENEL Green Power, che consentono una riduzione in termini di gasolio e inquinamento.»

Sempre nel 2017 Renzo Piano ha ideato anche un ospizio pediatrico a Bologna, in cui la struttura si solleva dal suolo, proprio per dare sollievo ai piccoli ospiti, che si ritrovano immersi nel verde degli alberi. Sono state adottate strategie simili nel progetto in Uganda, per il benessere dei futuri pazienti?  

«Vi è stata molta attenzione e molto studio su come poter dare ai bambini un’idea di casa e familiarità all’interno delle stanze, ad esempio il controsoffitto è fatto “a casetta”, anche se il tetto ha un’altra forma. Si sono studiati pozzi di luce che arrivano fino al piano inferiore per dare un’illuminazione naturale, e nell’arredare si adotteranno tutti gli accorgimenti possibili per farli sentire a loro agio durante la permanenza. In generale tutti i progetti di EMERGENCY sono pensati per essere belli, piacevoli e vivibili, perché è dimostrato che la bellezza ha proprietà terapeutiche e aiuta il recupero dei pazienti. Quando il progetto è partito abbiamo realizzato dei vasi in cui abbiamo piantato dei piccoli alberi, oggi sono 400 e presto saranno abbastanza alti per donare ombra e sollievo. Inoltre l’ospedale sorge in un luogo molto suggestivo. Il terreno è stato donato dal governo ugandese e si affaccia sul lago Vittoria.»

Com’è composto l’ospedale?

«C’è un entrance bloc, in cui viene fatto lo smistamento; alcuni ambulatori per i pazienti che hanno bisogno di visite periodiche o fisioterapia dopo gli interventi; l’area diagnostica; la terapia intensiva; tre sale operatorie; inoltre la mensa e tutti gli altri spazi necessari per funzionamento dell’attività medica. È un ospedale di eccellenza per patologie che non possono essere trattati in altri luoghi, almeno non gratuitamente, ma c’è anche un piccolo pronto soccorso dove si possono stabilizzare pazienti per poi trasportarli in altri centri di riferimento. È stata anche realizzata una guest house per i parenti dei bambini che vivono fuori l’area di Entebbe. Si sta creando, infatti, un network tra i paesi africani per cui i bambini potranno partire da altri stati per essere trattati nella struttura specializzata. L’ospedale è stato costruito a pochi minuti dall’aeroporto anche per facilitare i trasporti, che avvengono in modo gratuito, a volte finanziati dagli stati d’origine altre da EMERGENCY stessa. Dipende dagli accordi con i ministeri, ma tutto l’iter dev’essere gratuito.»

Che ruolo hanno avuto le maestranze locali nella costruzione? Si è riusciti a creare un’opportunità per le persone del luogo? 

«Ci sono tra i 100 e 150 ugandesi che lavorano nel cantiere, e dai 30 alle 50 lavoratori europei. Cerco di affiancarli in modo che si formino, che possano imparare un mestiere, così che riescano a continuare a lavorare per l’ospedale, o comunque a rigiocarsi queste competenze per trovare un buon lavoro. Ci sono anche molte donne, una delle mie caposquadra, ad esempio, è donna, e fanno qualsiasi lavoro, anche meglio degli uomini. Ci sono anche cantieri in cui la percentuale di donne è nettamente sopra il 50%. Hanno voglia di imparare, di fare, di garantirsi un futuro anche loro. In generale la policy di EMERGENCY, sia per i sanitari che per qualunque altro collaboratore, è quella di far sì che una volta avviato il progetto, venga affidata sempre più responsabilità al personale locale: appena  si ritengono i tempi maturi si restituisce l’ospedale alla gestione diretta dello staff locale. Non ci vogliamo sostituire alle strutture già presenti, ma integrare quelle mancanti per il tempo necessario affinché possano imparare da soli quel tipo di attività. Poi lì c’è un grande problema di AIDS, per questo una volta al mese si fa formazione su questi temi al nostro staff, e si offre la possibilità di fare test gratuiti. Sono anche stati messi in piedi dei programmi per l’igiene personale: non sempre i locali hanno accesso all’acqua corrente, ma ci sono le docce in cantiere; sono accorgimenti che per noi sono superficiali, però a loro possono migliorare di molto la qualità della vita.»

Hai dovuto imparare la lingua locale?

«No, uso le lingue ufficiali: inglese e francese. Ho imparato il tanto che basta non essere considerato il mzungu (“uomo bianco europeo”) che li vuole spennare: se gli dico qualche parola nella lingua locale mentre contrattiamo sono più tranquilli. Poi, in alcuni momenti, nel cantiere sembrava di costruire la torre di Babele: c’ero io italiano, l’operaio che montava le strutture veniva dall’Albania, al piano di sotto c’era uno che parlava solo noneso (dialetto della Val di Non, in Trentino), i ragazzi ugandesi… capitava di doversi servire delle traduzioni di vari intermediari per far comunicare due persone tra loro.»

Quanto manca per terminare l’ospedale? Come proseguirà la costruzione del network di eccellenze?

«L’ospedale sarà finito all’incirca a fine anno. Uscirà anche un documentario sulla sua costruzione. L’idea, poi, sarebbe quella di realizzare altri centri, in modo da coprire diversi tipi di trattamenti. All’inizio si parlava di 7 strutture, si vedrà quando ci sarà disponibilità di fondi, personale e tutto il resto. Poi bisogna trovare un accordi con lo stato in cui si andrà a costruire e decidere che tipo di eccellenza si vuole realizzare. Sono progetti che richiedono un bel po’ di energie, sia da parte nostra, che lavoriamo sul campo, che dalla sede a Milano. Parliamo di anni comunque, anche perché la priorità rimane ai progetti di emergenza che partono dove c’è immediato bisogno.»

Tu sei partito poco dopo esserti laureato, quanto ti è servito quanto hai studiato sui libri in un’esperienza così concreta? 

«Io ho iniziato presto a lavorare nei cantieri, anche durante l’università, quindi le mie competenze sono cresciute con l’esperienza. Ma senza l’istruzione che ho avuto qui a Mesiano (Università degli Studi di Trento) non sarei dove sono. Poi certo, io non sto lavorando in uno studio di progettazione, sto facendo il capo cantiere: è un posto con delle dinamiche particolari e con me lavorano persone con il doppio dei miei anni, devi far vedere che sai quanto loro ciò di cui stai parlando.»

Che consigli daresti a chi vorrebbe seguire un percorso simile al tuo?

«Il mio è stato un iter tutto particolare. In EMERGENCY solitamente servono almeno 2 anni di esperienza, anche perché, per quanto ci siano frequenti scambi con la sede, lì sei da solo. Devi sapere cosa stai facendo e su cosa stai mettendo le mani. Poi c’è sempre spazio per imparare ma, anche guardando agli avvenimenti del passato, il personale umanitario che parte seguendo l’idea che “andare a fare qualcosa è meglio che fare niente”, pur con tutta la buona volontà, rischia di causare moltissimi danni se non è seguito. Ci vuole una certa preparazione in queste situazioni. Il mio consiglio è fare gavetta, a meno che non si trovi un’organizzazione che prende stagisti e li fa seguire da qualcuno più esperto sul campo. Però non è il caso di EMERGENCY.»

Sono 25 anni che EMERGENCY è testimone di guerre, devastazioni e vittime innocenti, eppure sono stati capaci di mettere in piedi un progetto tanto ambizioso quanto l’ANME. Sono dei pazzi sognatori o dei pragmatici consapevoli di essere tra i pochi in grado di poter realizzare un cambiamento del genere?

«Semplicemente questo progetto rispecchia la filosofia di EMERGENCY. È vero che il nome e la storia dell’associazione sono legati alla chirurgia di guerra, quindi alla medicina d’urgenza e al primo soccorso, ma Gino Strada ha sempre detto “un ospedale va bene quando tu ci cureresti la tua famiglia”. Non si è mai seguita la filosofia del “meglio qualcosa che niente”, di cui parlavo prima. Un livello di cure basso per EMERGENCY non è accettabile, nemmeno se si è in Africa.»

L’importanza del lavoro di EMERGENCY in questi 25 anni è inestimabile. Non so se riusciranno nella loro missione di non aver più bisogno di esistere, ma sicuramente, finché ci sarà bisogno, continueranno a lavorare con la tenacia e la serietà che li ha sempre contraddisti. Sicuramente continueranno a ripudiare la guerra e la sua inutilità, a denunciare come siano sempre i civili a pagare il prezzo più alto, soprattutto i bambini. Laddove la guerra vuole distruzione e morte indiscriminata, indiscriminatamente loro continueranno a costruire ospedali e salvare vite. Forse non tutti possiamo partire come Claudio, ma nel piccolo è comunque possibile diventare volontari locali e aiutare l’associazione nell’ideare eventi finalizzati a raccogliere i fondi che vengono impiegati in questi progetti. Per chiunque fosse interessato o volesse saperne di più potete visitare: www.emergency.it o la pagina Facebook: Gruppo EmergencyTrento.

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