The story behind the lyrics: la vicenda di Hattie Carroll raccontata da Bob Dylan

I can’t breathe, officer”: queste sono le parole che, dopo più di 5 mesi, risuonano ancora nella mente di molti attivisti del movimento Black Lives Matter, e che richiamano le immagini di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso a Minneapolis il 25 maggio scorso da Derek Chauvin, agente in forza alla polizia cittadina. Questo è solo uno degli ultimi celebri casi di violenza arrecata ad un cittadino di colore, il quale, assieme all’assassinio di Ahmaud Arbery, freddato a colpi di fucile da due uomini- Travis McMichael e suo padre Gregory- in Georgia il 23 febbraio 2020, e all’omicidio di Breonna Taylor, uccisa da tre agenti della città di Louisville, in Kentucky, ha mantenuto aperta una ferita che da decenni continua a sanguinare e che oramai può essere considerata molto difficile da arginare.

La divulgazione di questi episodi oggigiorno avviene principalmente attraverso i mass media e, negli ultimi anni, anche varie piattaforme social come Instagram e Twitter; tuttavia va ricordato che in passato uno dei mezzi sfruttati per comunicare al mondo vicende di violenza a sfondo razziale fu la musica, e una delle canzoni, purtroppo non così nota al grande pubblico, che meglio rappresenta questo efficace espediente comunicativo è ”The Lonesome Death of Hattie Carroll” di Bob Dylan.

Una canzone registrata nel 1963, la quale, a distanza di 57 anni, continua ad essere più attuale che mai. Parte integrante dell’album “The Times They Are a-Changing”, pubblicato nel 1964, essa racconta, come si può dedurre dal titolo, la morte solitaria di Hattie Carroll, barista 51enne di colore barbaramente ferita a colpi di bastone mentre era di turno all’Emerson Hotel di Baltimora. L’aggressore era il 24enne William Zantzinger il quale, a detta dei testimoni, visibilmente ubriaco e spazientito dal ritardo con cui la stessa Carroll si accingeva a servirlo, compì il tremendo atto, lasciando la donna quasi senza vita (quest’ultima infatti morì poco dopo in ospedale). Dylan, nelle 4 strofe che compongono il brano, fornisce agli ascoltatori un quadro generale dell’intera vicenda, soffermandosi da una parte sulla figura dell’assassino (chiamato “Zanzinger” al posto di Zantzinger), ricco possessore di una fattoria di tabacco di 630 acri e appartenente ad una ricca ed influente famiglia della zona, e dall’altra su quella della barista (da lui erroneamente definita una “maid of the kitchen”, ovvero una cameriera), madre di 10 figli, a detta dello stesso cantante vittima innocente della condotta ingiuriosa del giovane. La storia non si concluse nel migliore dei modi: Zantzinger, nonostante la pesante accusa di omicidio colposo ai danni della donna, scontò solo 6 mesi di carcere in una prigione locale, prima di essere rimesso in libertà. Una sentenza, quella dei giudici, aspramente criticata da Bob Dylan, il quale modificò il ritornello della canzone proprio negli ultimi 3 versi, scrivendo: “Oh, but you who philosophize disgrace and criticize all fears Bury the rag deep in your face For now’s the time for your tears” (letteralmente: “Ma voi che filosofate sulle disgrazie e criticate tutte le paure, seppellite la faccia nel vostro fazzoletto, perché questo è il momento per le vostre lacrime”), al fine di evidenziare come i giudici abbiano voluto graziare il 24enne e alleggerirgli la pena, solo per il suo status sociale.

Sembra dunque, come ci dimostra il menestrello di Duluth, che il problema sia tutt’altro che risolto; anzi pare che la storia, per certi versi, si ripeta nonostante le proteste, i cortei e il disordine pubblico, a cui purtroppo le persone sembrano essersi abituate. La domanda quindi sorge spontanea: lo scenario nei prossimi anni potrà veramente cambiare? Sentiremo ancora parlare di casi analoghi a quello di Hattie Carroll o di George Floyd, che scuoteranno un’America già travagliata dalla pandemia in corso?

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