La costruzione simbolica del mondo (Parte 1)

Che cos’hanno in comune Indro Montanelli, Babbo Natale, il milite ignoto ed Ernesto Che Guevara? E soprattutto, che cos’hanno in comune queste quattro figure con una miriade di altre cose, persone, gesti e oggetti che, apparentemente, non presentano nulla in comune?

E no, la risposta non è che hanno in comune il bislacco accostamento elaborato dal pazzo che sta scrivendo quest’articolo.

Con Ernst Cassirer[1], noi potremmo dire che essi, se guardati sotto una certa prospettiva, condividono un aspetto “funzionale”: un aspetto cioè che non è relativo ai contenuti della singola cosa, presa in esame con un occhio analitico e distaccato, teso a descriverne gli aspetti fattuali, oggettivi, minuziosamente analizzabili ed empiricamente verificabili. Se considerassimo gli oggetti appena menzionati sotto questa luce, dovremmo ben convenire che la vecchia foto di un soldato morto, un vecchio pancione sorridente vestito di rosso, un braccio alzato a mezz’asta e un rivoluzionario comunista di patria argentina non hanno niente in comune, fuorché il fatto di essere tutti presenti in questa frase.

L’aspetto che considereremo, e che accomuna i quattro summenzionati (che pure non verranno tutti trattati singolarmente, ma ci servono solo da esempio), è invece relativo alla funzione che essi svolgono. O meglio, è relativo alla funzione che noi gli attribuiamo che svolgano, ossia al significato simbolico che essi assumono, dal momento in cui una narrazione (o più narrazioni) inizia (o iniziano) a delinearne delle determinate caratteristiche. A prescindere che questa narrazione sia, nel bene o nel male, volutamente parziale, oppure indipendente da intenti secondari[2], è inevitabile che essa, nella sua costruzione di un simbolo, effettui molti tagli, qualche aggiunta e in generale numerose deformazioni, nel ritratto dell’oggetto che sta rappresentando, tali che, a conti fatti, non ci rimane in mano che un’ombra più o meno opaca dell’oggetto che fu, un’ombra tuttavia dai contorni molto più definiti rispetto all’oggetto. È altresì inevitabile, fuorché nella sede di una (il più possibile) imparziale, rigorosa ed esaustiva descrizione “scientifica”, che la narrazione conferisca all’oggetto raccontato un significato, carico di valore (morale, politico, estetico…), tali che molto spesso un personaggio storico, un gesto, una fotografia, non vengano più a coincidere nell’immaginario collettivo (o negli immaginari collettivi) con la cosa che effettivamente sono, o con il significato originario che essi ebbero, ma con il significato (o i significati) che essi hanno assunto.

Ci tengo a precisare che le argomentazioni che seguono sono ispirate per la maggior parte dai pensieri di Ernst Cassirer e Susanne K.Langer, oltre che, in misura minore, dai pensieri di Martin Heidegger, Max Scheler e Arnold Gehlen.[3]

Il presupposto che si è cercato fin qui di difendere e che sta alla base di quest’articolo, è che l’uomo costruisca, mediante un processo di produzione segnica e simbolica, la realtà in cui vive. La realtà, per l’uomo, non è solo ciò che egli direttamente vede, in cui vive ed è immerso, ma è anche (e forse soprattutto) i significati e le funzioni che egli attribuisce alle cose. Ma l’uomo non si limita ad attribuire un senso alle cose già esistenti, bensì egli stesso “crea” delle cose a cui attribuisce nuovi sensi, come nel caso degli strumenti, dei segni e dei simboli di sua invenzione.

Gli strumenti, in molti casi i segni, e in qualche caso i simboli, rispondono perlopiù a un’esigenza strumentale, pratica e immediata e sono perciò fortemente legati, nella loro configurazione, al problema che devono risolvere. In questa sede non tratteremo esaustivamente i segni e gli strumenti, basterà farcene un’idea attraverso alcuni esempi. Eccone uno: un martello, tipico esempio di uno strumento creato da noi, ha una configurazione tale da svolgere brillantemente il suo compito; se il martello avesse la forma di una spirale, anziché di una T, vi lascio immaginare la difficoltà del suo utilizzo! Accanto all’immagine del martello, possiamo mettere quella di una pietra molto dura e maneggevole, un rudimentale utensile che l’uomo primitivo usava per assolvere alla stessa funzione del martello: ecco un tipico esempio di come non solo l’uomo crea strumenti, ma attribuisce funzioni di strumentalità a oggetti che di per sé non hanno significato. Un esempio di segno, invece, può essere la campanella che nelle scuole cadenza il passaggio da un’ora all’altra, dell’intervallo e dell’inizio e della fine della giornata scolastica. Il suono della campanella è un segno fisico, con un riferimento “denotativo” specifico a ciò che indica. L’esempio di un segno non creato dall’uomo, invece, può essere quello del diradarsi del mare prima di uno tsunami. Chi vive in luoghi spesso afflitti da maremoti, riconosce in questo segno, per immediata associazione, l’arrivo dell’onda anomala e agisce di conseguenza (si spera!).

Sia lo strumento che il segno, abbiamo visto, sono ben determinati nel loro significato, che corrisponde quasi in toto con la funzione che devono svolgere. Pare che anche gli animali, specialmente quelli in linea evolutiva più vicino all’uomo, facciano ampio uso di segni, e, per quanto in maniera rudimentale, anche di strumenti.[4]                                                        

L’oggetto che interessa invece il nostro lavoro, il simbolo, a differenza del segno, è una creazione esclusivamente umana, non ha un significato che corrisponde per forza a una necessità pratica, materiale, più o meno immediata. Inoltre, non ha un riferimento denotativo specifico e preciso, ma è per sua natura vago e indefinito, mai del tutto circoscrivibile in una definizione esaustiva, dal significato mutevole col tempo e dalla configurazione estremamente convenzionale, che spesso rimanda a tutta una serie di significati a loro volta indefiniti. L’esempio più emblematico di questa natura “vaga e indefinita” del simbolo è la Croce (mi riferisco, ovviamente, non all’oggetto fisico, bensì al simbolo del Cristianesimo): al lettore, che presuppongo non essere estraneo a questa religione (sia che ci creda, che non ci creda, che la ami e che la odi), risulterà subito evidente quanto questo simbolo sia gravido di significati, di rimandi, di suggestioni… Il linguaggio stesso (sia verbale che non verbale, come per esempio la danza) è un simbolo ed è il simbolo più importante, poiché sta alla base del nostro sistema di espressione e comunicazione.[5]

La tesi che mi propongo di sostenere è un corollario immediato di questo presupposto, applicato alla costruzione sociale e mediatica della realtà[6]: le narrazioni all’interno di cui ci muoviamo nella vita di tutti i giorni utilizzano ampiamente i simboli, ossia attribuiscono a delle “cose” (intese in senso ampio: personaggi storici, personaggi di attualità, gesti, ma anche città, civiltà, intere epoche storiche) dei significati necessariamente riduttivi o ingigantiti, sicuramente deformati rispetto all’oggetto che utilizzano come simbolo. Questo, come ho tentato di dimostrare sinora, è parte del processo produttivo della realtà di cui l’uomo è artefice.

Sulla natura di queste “narrazioni”, è opportuno aprire una parentesi, prima di continuare con la mia tesi: in questa sede il termine è inteso in un’accezione più ampia di quella di “narrazione storica, ideologica”. Mi rendo conto che la parola potrebbe facilmente esser intesa in questo senso, che ha un’accezione piuttosto negativa, poiché indicativa di un racconto parziale, fazioso, e soprattutto orientato, più o meno consapevolmente, da fini secondari rispetto alla verità dei fatti. Il termine “narrazione”, nel senso in cui lo intendo, ricomprende questa accezione, ma vuol significare anche, in senso più ampio, il processo di costruzione di quel mondo di significati all’interno del quale l’uomo vive, quasi totalmente. Come si è detto, infatti, ben poche volte l’uomo si interfaccia con la natura “nuda e cruda”, ma riveste il mondo esterno di significati che egli stesso attribuisce. Essendoci in questa costruzione, per forza di cose, una componente fortemente soggettiva, è naturale che l’uomo creerà diverse “narrazioni” delle stesse cose, per loro stessa natura intrinsecamente diverse e parziali.

Abbiamo quindi detto che l’uomo tende a costruire e interpretare la realtà a suo modo e tuttavia, questo non lo esime dalla possibilità di incorrere in alcuni errori, o meglio, in alcune “confusioni” all’interno della costruzione che egli compie, dovute in larga parte alla sua inconsapevolezza della natura simbolica della gran parte del mondo di cose all’interno delle quali si muove. L’uomo tende infatti, per atteggiamento naturale, ad avere una visione “realistica” del mondo[7], ossia attribuisce a quanto incontra nel mondo un’esistenza autonoma e indipendente da sé e considera ciò che incontra innanzitutto come delle “cose”. Noi abbiamo cercato di argomentare, sulla scorta di ispirazioni che provengono da Cassirer e Heidegger, che in realtà l’uomo si approccia alla realtà (e aggiungiamo: perlopiù inconsapevolmente) e alle sue “cose” considerandole innanzitutto come strumenti, segni, e costruendo simboli. All’interno delle narrazioni che si succedono nella realtà, a causa della mancata consapevolezza della natura simbolica della realtà che costruiscono (della natura quindi in qualche modo “artefatta” del loro mondo), spesso accade che le persone vadano a far coincidere l’oggetto rappresentato con la funzione simbolica che esso ha assunto, non tenendo ben presente la distinzione fra le due cose. Vengono fuori, in questa sede, i limiti del processo di simbolizzazione della realtà; l’oggetto, infatti, o è qualcosa che nella sua descrizione non può essere ridotto a un simbolo (come nel caso di un personaggio storico, di un’epoca o di una civiltà), o, se l’oggetto stesso è di per sé un simbolo (come uno stemma o una bandiera, che tralasciando le componenti materiali di cui sono composti, sono concepiti per essere un simbolo) molto spesso accade che si manipoli il suo significato originario, e lo si vada a far significare ad una cosa diversa da ciò che originariamente rappresenta. Quest’ultima cosa non è di per sé un male, poiché abbiamo parlato della natura mutevole e della referenzialità vaga e molteplice che ha il simbolo, tuttavia, questo cambiamento può portare a un “deturpamento” della funzione originaria che il simbolo assolveva e questo può portare a confusioni sul piano della corretta conoscenza, specialmente quella storica. Talvolta, può portare anche a “confusioni” sul piano pratico.

Ricordate i quattro esempi che ho citato a inizio articolo? Bene, nella seconda parte di questo articolo ho selezionato, assieme a due di essi, altri due esempi che dimostrano efficacemente la tesi qui sostenuta, e che spero saranno utili per comprendere un argomento che, me ne rendo conto, è molto teorico. Mi soffermerò di più sull’ultimo in particolare, poiché rappresenta nel modo più emblematico gli errori a cui porta una confusione fra oggetto e simbolo, e dei sommovimenti che questa può creare anche sul piano pratico.

Gli esempi scelti sono perlopiù personaggi, storici e contemporanei, poiché gli esser umani sono quanto di più complesso e articolato vi è nella realtà; la scelta di selezionarli come esempi è stata fatta al fine dimostrare, per una stridente contrapposizione, la semplificazione a cui questa complessità è sottoposta nel momento in cui vengono ridotti a simbolo.


[1] Si veda in particolare Filosofia delle Forme Simboliche, in particolare il Terzo Volume, 1929, ma anche Sostanza e Funzione, 1910, e il Saggio sull’uomo,1944

[2] “da moventi eteronomi”, direbbe Kant

[3] Per una presentazione generale dell’antropologia filosofica di Scheler e Gehlen, cui qui ci riferiamo rimando all’ottimo manuale Antropologia Filosofica di Maria Teresa Pansera, 2007. Per Susanne K.Langer, rimando alla sua opera principale Filosofia in una nuova chiave: linguaggio, mito, rito e arte, pubblicato per la prima volta in italia nel 1972. Per Martin Heidegger, oltre che all’edizione di Essere e Tempo curata da Mauro Volpi e tradotta da Pietro Chiodi, rimando a una trattazione manualistica anche abbastanza generica, come quella di Gianni Vattimo, Introduzione ad Heidegger, 1971.

[4] Vedi il Saggio sull’uomo, in particolare al cap.3

[5] Si potrebbe discutere se il linguaggio “non verbale” abbia diritto a chiamarsi linguaggio, oppure, per quanto al suo interno siano ricomprese numerose forme di espressività e comunicazione, non richieda un’altra definizione. Langer lo ha fatto del Capitolo 4 di Filosofia in una nuova Chiave, distinguendo fra la forma discorsiva del linguaggio, e le altre forme, dette “presentazionali”, come quelle della musica, dell’arte in generale, del mito e del rito

[6] Il lettore più informato in materia di sociologia, non potrà che cogliere, in questa frase, un riferimento al celebre saggio di Peter Berger e Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, 1966.

[7] Per una difesa di questa posizione “realistica” sull’atteggiamento naturale dell’uomo, il riferimento più immediato è ovviamente all’opera di G.E. Moore

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