La società dei consumi

Il termine consumismo viene definito dal dizionario Oxford come un “atteggiamento volto al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali, alieno da ideali, programmi, propositi, tipico della civiltà dei consumi”. Cosa c’è di più attuale? Oggi proveremo a tracciare una linea temporale di questo fenomeno in Italia, con il supporto delle riflessioni di grandi pensatori, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Tra gli anni ’50 e ’70 del ventesimo secolo, il totalitarismo politico dei decenni precedenti è declinato in termini economici. Totalitario, infatti, è un sistema sociale in cui, politicamente o economicamente, viene soffocata l’autonomia degli individui. Dagli anni 50 le innovazioni in ambito tecnologico vedono un ampio e positivo riscontro sul mercato, a partire dai vari elettrodomestici fino alla televisione, status symbol di quegli anni. Tutto questo progresso e questi vantaggi, però, a quale prezzo?  Oltre al problema degli investimenti dei singoli prettamente nel consumo privato anziché pubblico, le cui conseguenze negative saranno portate alla luce poco più avanti, la Tv ha favorito in maniera decisiva l’omologazione. Questo, se da un lato si considera come estremamente positivo (la trasmissione di Alberto Manzi, ad esempio, Non è mai troppo tardi, favorì notevolmente la diffusione della lingua nazionale), ha anche come innegabile risultato la formazione di un’anima collettiva, nella quale «le attitudini intellettuali degli uomini e le loro individualità si annullano» (Gustave Le Bon, Psicologia delle folle): non a caso la Rai (Radiotelevisione italiana) è l’erede dell’Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche), inventato da Mussolini nel 1927 proprio a tale scopo.

Il 3 febbraio 1954 viene mandato in onda il primo programma di pubblicità, Carosello, portato avanti fino al 1977. Questo vedeva, attraverso brevi e simpatici sketch, la dimostrazione dell’efficacia dei vari prodotti, come detersivi per lavare i vestiti, ad esempio. Ecco allora che, poiché la comodità dei nuovi elettrodomestici è innegabile, aumenta la domanda, il prezzo si abbassa e questi arrivano alla portata di tutti. Ogni spot è caratterizzato da immagini semplici e divertenti, frasi brevi e originali (ne è campione Non c’è due senza triplex, detta alla fine della pubblicità della cucina Triplex Fornorama) di modo che possano restare impresse nella mente degli spettatori. Del resto, come dice Gustave Le Bon nel libro sopracitato, «tutto ciò che colpisce le folle si presenta sotto forma di un’immagine impressionante e precisa, priva di interpretazioni accessorie, ma arricchita magari di qualche fatto meraviglioso». 

Quello che conta in una società rivolta in questa direzione, dunque, diventa la possibilità di accedere a questi mezzi, che rendono più facili e veloci le faccende un tempo faticose e che sono segno di benessere economico. Per questo Herbert Marcuse, filosofo e sociologo del tempo, in Uomo a una dimensione dice che «il fatto che la capacità di soddisfare i bisogni in misura crescente sia assicurata da un sistema autoritario o da uno non autoritario sembra fare poca differenza». Questa organizzazione economico-politica «opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte degli interessi costituiti» e quindi riduce l’opposizione al «compito di discutere e promuovere condotte alternative all’interno dello status quo».  Esigenze inizialmente secondarie sembrano diventare primarie. Pare che i bisogni degli individui siano assecondati a pieno dal nuovo sistema produttivo. Sarebbe interessante approfondire come, in realtà, la difficoltà di “fare il bene dell’altro”, come spiega Freud nel Disagio della civiltà, risiede nel fatto che noi non possiamo mai sapere cosa sia per l’altro il bene. 

Tornando a noi: cosa comporta il non inserirsi in questa nuova organizzazione? Oltre a tangibili svantaggi pratici (si rinuncia a comfort che fanno risparmiare tempo e fatica), chi non supporta il progresso è destinato, politicamente e socialmente, all’emarginazione e al disagio. In più «una simile società», aggiunge Marcuse, «può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettate come sono», in quanto essa, da parte sua, garantisce i beni di consumo che, di generazione in generazione, diventano indispensabili. Ecco che la popolazione viene quindi distratta dai mezzi e guarda solo al fine. Risulta allora attualissima l’idea leopardiana secondo cui «l’ossessiva ricerca dell’utile ha finito per rendere inutile la vita stessa» (da Il pensiero dominante, L’utilità dell’inutile, Nuccio Ordine). 

Questo fenomeno è, ora più che mai, arrivato alle sue estreme conseguenze. Beni assolutamente non necessari, come la televisione, il computer (dal 1981), la connessione ad internet (le cui origini risalgono alla rete ARPANET, 1969), i cellulari e i social media (Instagram ha festeggiato da poco i suoi 10 anni di vita) sono indispensabili per essere parte attiva della comunità, in ogni suo ambito. Sicuramente possederli concede vantaggi inequiparabili, ma è pur vero che ognuno di questi non è così fondamentale ai fini della nostra sopravvivenza come talvolta appare. Già nel 65 a.C. Seneca, nelle Epistole a Lucilio, consigliava, riferendosi alle ricchezze, non di non averne, ma «di possederle serenamente», aggiungendo che ciò sarebbe stato possibile solo convincendosi di poter vivere felice anche senza di esse, guardandole come exituras, cioè effimere, destinate a trascorrere (epistola 8). Insomma, un pomeriggio possiamo spegnere il cellulare, ascoltare i nostri pensieri e vivere la giornata solo con noi stessi e non succederebbe niente.

Assistiamo costantemente ad appiattimenti di personalità che, per “stare al passo con i tempi” e sentirsi parte di qualcosa, rinunciano ad un’indagine interiore e alla loro realizzazione personale. Dovunque ci giriamo, sui social network specialmente, assistiamo a infinite ostentazioni di beni assolutamente superflui che ci attirano come calamite. Ormai è “normale” avere un’infinità di oggetti futili: ce li hanno tutti.
Allora forse è proprio vero che, come dice Miguel Benasayag in Oltre le passioni tristi, «se in altri tempi ci si è dovuti battere per liberare i folli dall’internamento psichiatrico, oggi occorre aiutare le persone a liberarsi dalla tirannia della norma».

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