La “dignità” del pensiero orientale

«L’inerzia del senso comune […] usa il concetto di “Oriente” con un’inconsapevole leggerezza teorica che produce, tuttavia, pesanti conseguenze pratiche»[1].

Partendo da questa citazione del professore e filosofo Giangiorgio Pasqualotto, possiamo intraprendere quella che si definisce una rivalutazione del pensiero orientale. Infatti, la modalità che si sofferma totalmente su definizioni è una teoria statica e, portata a livello “globale”, rischia, come detto nella citazione iniziale, di condurre a conseguenze pesanti a livello pratico e, aggiungerei, anche effetti molto dannosi se non controllati con le dovute precauzioni. Questo approccio, che definiamo già in partenza come un percorso da evitare in assoluto, ha “colpito” in maniera accentuata la dimensione orientale, alimentando la visione distorta di quest’ultima dovuta al fatto che, in occidente, la filosofia è quasi stata sempre vista soltanto come apporto teoretico: di conseguenza la filosofia orientale viene osservata in un’ottica inferiore in quanto risulta, in maniera banale, un semplice livello pratico di applicare alcuni pensieri.

Dunque il pensiero orientale, con la lente dei pregiudizi e preconcetti della cultura occidentale, risulta semplicemente tale, non degno di essere elevato a quello che noi chiamiamo filosofia. In questa prospettiva del senso comune, infatti, consiste erroneamente in pratiche di vita volte a liberarsi dei concetti, per poi cadere in un’irrazionalità assecondante, una contentezza di vita che appare misera. Si cade in una successione di luoghi comuni che necessitano di essere sfatati e che, come afferma Pasqualotto, limitano la “visibilità” della ricerca in entrambe le parti a «un fantomatico Oriente tutto votato all’intuizione irrazionale dell’Assoluto e dedito alla contemplazione inerte, opposto ad un altrettanto fantomatico Occidente tutto rivolto alle descrizioni razionali del mondo e alla volontà di dominarlo con i mezzi della tecnica»[2]. È proprio questo il punto di inizio: una rivalutazione del pensiero orientale con tutte le sue differenze interne per poi così, in un secondo momento, analizzare un possibile confronto, una “comparazione” tra questa filosofia e quella occidentale.

Come prima cosa, per intraprendere un diverso modo di guardare l’Oriente, bisogna partire da quello che l’Occidente possiede e non può rinnegare: idee, concetti e forme di sapere derivanti, e non svincolabili, da quella che è la tradizione greca. Questo, però, non significa accostare la filosofia greca al pensiero orientale per rendersi conto che non sono la stessa cosa o – ancora più banalmente – per avere l’occasione di dire che quella orientale non è una filosofia, bensì riconoscere che la differenza di partenza consiste proprio nel fatto che entrambe non possono essere racchiuse nella terminologia dell’altra (e, si potrebbe aggiungere, anche all’interno delle proprie).

Fatta questa iniziale precisazione, possiamo ora indagare gli aspetti di questa “saggezza” orientale seguendo le analisi dell’idea di tempo e le immagini che ne riguardano. In questo modo cominciamo ad avvicinarci a quello che il pensiero orientale propone senza divergere a causa dei “filtri” imposti dalla cultura occidentale.

Il primo aspetto consiste nella staticità dei modelli che interpretano gli eventi della vita umana: si tratta piuttosto di un movimento inteso nella forma della ciclicità che si estende anche in tutte le sfere del mondo, da quella delle esistenze individuali a quella degli eventi sociali. Questo sistema, analizzato più a fondo, non implica affatto una pura e semplice ripetizione degli eventi, ma un ricorso infinito di modalità o meglio, di forme in cui i fenomeni si dispongono. Se vogliamo essere più chiari attraverso l’uso di un esempio, basti pensare alle stagioni: il fatto che primavera e autunno capitano ogni anno non comporta che tutte le primavere e tutti gli autunni siano identici tra loro. Questo aspetto riguarda la dimensione umana più che mai, e osservandolo meglio, trasforma radicalmente la concezione delle azioni che gli uomini compiono nella loro vita – e in maniera assolutamente diversa da come potremmo pensare in partenza “noi” occidentali – . Pertanto, ogni singolo momento ha senso in quanto è eterno, e risulta nell’eternità nella misura in cui entra nel sistema di una ciclicità eterna. Per questa ragione viene eliminata anche l’idea di un senso trascendente che è sempre lì a minare questo nuovo – definito “nuovo” in riferimento alla quotidiana concezione del tempo che pervade il mondo occidentale – modo di considerare la dimensione temporale. Tutto rende più chiaro molti elementi del cosiddetto Oriente. Un esempio in particolare è come le civiltà orientali abbiano dato una tale importanza al culto dei morti per così conferire una certa rilevanza a coloro che sono gli Antichi Maestri, ritenuti come antenati da cui trarre molto.

Il secondo aspetto caratterizzante l’immagine del tempo «è costituito dalla sua indissociabilità dallo spazio: in ogni cosa esistente, anche la più inerte come le pietre, spazio e tempo vengono visti come dimensioni compresenti»[3]; non vi è quindi un accesso al tempo in un secondo momento perché le cose diventano oggetti di una qualche attività, ma le singole cose sono in ogni momento colte come attività. Portando un esempio possiamo richiamare l’antico schema cinese dei “cinque elementi” (wu xing) – Terra, Acqua, Fuoco, Metallo e Legno –, i quali non vengono intesi staticamente, come ‘elementi’ in senso stretto, ma come forze, come ‘agenti’, il cui statuto di oggetti coincide con la loro capacità di essere attivi tanto nel senso di poter condizionare mutamenti quanto in quello di poter essere condizionati da processi dinamici. Quindi, entrando più nel concreto, possiamo affermare che «l’acqua, nei confronti del fuoco, ha la capacità attiva di spegnerlo, ma anche quella passiva di venir da esso trasformata in vapore.»

Infine, il terzo aspetto nelle diverse tradizioni orientali attribuito al tempo è la preminenza del suo carattere qualitativo: in tali tradizioni ciò che, dal punto di vista dell’esistenza concreta, conta di più è l’intensità con la quale i singoli eventi vengono vissuti. Tutto ciò che viene fatto non ha termini e scadenze prefissate, ma è vincolato al tempo “intrinseco” dell’attività stessa. Questa modalità va interpretata nel mondo lavorativo, ma anche in proposte di vita più generali, come una festa popolare orientale, dove poco importano il suo inizio e la sua fine. Questo discorso va ampliato in ogni circostanza della vita e, infatti, occupa un ruolo particolare il modo con cui la morte viene affrontata: essa perde il carattere di una cesura definitiva e assume quello di una fase di un’infinita trasformazione al pari della nascita, non è che una fase di un unico, incommensurabile processo di trasformazioni.

Un altro punto da analizzare è la visione distorta molto diffusa che sarebbe quella di ritenere la filosofia orientale, e di conseguenza anche quella occidentale, un blocco unico privo di distinzione interna, una generalizzazione controproducente alla stessa “ricerca della saggezza”.

Prima di tutto nel sistema complessivo vi è un soggetto ricercante che, sì, possiede un proprio bagaglio culturale, concettuale e storico, magari comune ad altri soggetti, ma nel ricercare, cioè filosofare, si trova di fronte a numerosi percorsi da intraprendere. Ciò che precede il soggetto è semplicemente un insieme di “attrezzi” – che possono tanto servire quanto essere inutili – per affrontare le vie della ricerca che si pongono avanti a noi. È proprio da questa considerazione che ora andiamo ad approfondire alcuni dei pensieri orientali, così da comprendere meglio che anch’esse sono filosofie.

Partendo dall’India, cerchiamo di indagare su quella che è la conoscenza riportando che ciò che vale per l’Ātman/Brahman – vale per l’individuo umano, che ne è una manifestazione – : ciascuno si trova, infatti, all’interno di un flusso di esperienza (samsāra) che è costituito da azioni – mentali, verbali e corporee – provenienti dal passato. La conoscenza si prefigge allora il compito di determinare ciò che è immutabile da ciò che si consuma all’interno di questa condizione esperienziale. «Tuttavia tale conoscenza non è fine a se stessa: ha come scopo il raggiungimento della capacità di non rimanere attaccati ai contenuti della coscienza»[4]; un distacco (vairāgya) che porta al raggiungimento di una conoscenza definibile più “adeguata” o, semplicemente, una “vera conoscenza” che è migliore dal punto di vista qualitativo. Dunque, la qualità della conoscenza a cui può aspirare ogni soggetto umano non è determinata dal grado e dal modo di sapere che cosa è la realtà, ma dal grado e dal modo di sapere come si riesce a distaccarsene senza, peraltro, negarla».

Questi concetti vengono ripresi anche dalla tradizione yoga, per la precisione nel Yogasūtra di Patańjali, affermando che la conoscenza ha come scopo non l’acquisire informazioni sulla struttura della realtà, ma l’eliminare il dolore cosmico. Si viene a definire così lo yoga come «la soppressione delle modificazioni della coscienza”, dove per ‘modificazioni’ (vṛtti) si devono intendere le attività dispersive della coscienza, cioè le distrazioni a cui è sottoposta la coscienza durante la vita quotidiana»[5].

Si deduce da questi riferimenti che l’elemento fondamentale per parlare della conoscenza è il concetto di “distacco”. Negli insegnamenti del Buddha questo argomento viene posto in maniera molto elaborata e, analizzando i caratteri principali della meditazione buddhista, possiamo comprendere più dettagliatamente le indicazioni che in questa tradizione connettono i mutamenti – nei modi e nei contenuti del pensare – alle trasformazioni – nei modi e nei fini dell’agire – .

A questo punto possiamo riportare qui le fasi del percorso meditativo buddhista[6]. Innanzitutto, questo tipo di meditazione prevede l’esercizio di quattro “assorbimenti sensibili” (Rūpasamādhi).

Il primo “assorbimento” consiste nell’allontanarsi dalle passioni e dai tre “fattori nocivi” (akuśala). Questi ultimi sono: 1) attaccamento (Lobha), che va contrastato con la generosità (Dana); 2) avversione (Dosa), che va contrastata con la benevolenza (Maitrī); 3) illusione (Moha), che va contrastata con la conoscenza (Vidya), mediante l’analisi (vicāra) e la riflessione (vitarka). Tutto questo esercizio porta anche a dei risultati ben precisi che sono gioia (prīti) e piacere-senza-attaccamento (sukha). Il secondo, invece, è costituito dalla stabilizzazione di vitarka e vicāra, comportando così come risultato la capacità di focalizzarsi su un oggetto fisico e mentale; il terzo consiste nella scomparsa di sukha e dalla corrispondente comparsa di equanimità (Upekkhā) e, infine, il quarto è la stabilizzazione di Upekkhā e la “presenza mentale” (sati) o – è questo il termine che useremo in seguito – l’attenzione.

L’attenzione richiede di essere esercitata innanzitutto nei confronti del “corpo”: va rivolta all’inspirazione e all’espirazione, ai fattori della nascita e della sua dissoluzione e ad un insieme di altri elementi corporali al fine di comprenderne a fondo la natura impermanente. Successivamente, va portata alle “sensazioni” e alla loro impermanenza (anicca); dopo di che deve essere rivolta alla “mente” e, in seguito, agli “oggetti mentali” per cogliere la qualità anattā, ossia la loro non autosufficienza.

Al termine di queste operazioni, l’attenzione va rivolta verso realtà che non hanno più alcun riscontro empirico. Queste dimensioni sono le quattro attività denominate “assorbimenti sovrasensibili” (Arupasamādhi) che consistono in forme di intensa concentrazione sullo spazio illimitato (ākāśa), sulla coscienza illimitata (vijnāna), sul vuoto (śūnya) e sulla condizione di “né percezione, né non percezione”. Tutto ciò porta a quelli che sono i risultati di questi ultimi esercizi che possiamo suddividere in due tipi correlati tra loro: il primo, che definiamo “teoretico”, consiste nel riuscire a cogliere in ogni forma di realtà le qualità del vuoto e dell’assenza di caratteristiche stabili (animitta); il secondo, che qualifichiamo come “pratico”, consiste nel riuscire a liberarsi del desiderio di raggiungere il Nirvāna (o Nibbāna). Chi riesce a ottenere questo ultimo stato, il “samādhi supremo”, è colui che ha realizzato il distacco da ogni desiderio; in tal senso il Nirvāna può essere definito come estinzione di ogni desiderio, compreso quello di raggiungerlo.

Ci troviamo alla conclusione della meditazione buddhista che fa capire come la conoscenza non costituisce il fine ultimo della vita, ma lo strumento fondamentale per realizzare la liberazione dal dolore, per ottenere il “nibbāna qui e ora”.

Alla luce di questo percorso all’interno di alcune tradizioni dell’Oriente, possiamo comprendere meglio come il pensiero o, più precisamente, i pensieri orientali hanno affrontato la questione della conoscenza, della saggezza e quindi, in ultima analisi, anche della filosofia. Però, nel leggere soltanto queste posizioni, rimane ancora un barlume di opposizione e sembra non risultare convincente e chiaro il modo con cui dobbiamo osservare e conoscere il pensiero orientale. In conclusione, dobbiamo affermare che

Non si dà ‘filosofia’ buddhista – come non si dà ‘filosofia’ indiana – se con il termine ‘filosofia’ ci si ostina a voler designare soltanto una ‘teoria’, o una ‘visione’ del mondo o anche un ‘amore della sapienza’ fine a se stesso: nella tradizione indiana, prima brahmanica e poi buddhista, si possono trovare enormi ‘giacimenti’ di filosofia, ma solo se con questo termine non indichiamo più soltanto sistemi di logica e/o di metafisica, bensì designiamo insiemi di idee, ragionamenti e prospettive che possono anche includere sistemi di logica e/o di metafisica ma che, in definitiva, risultano sempre funzionali a praticare ‘stili di vita’. Proprio come avveniva in molte scuole della tradizione filosofica greca che prevedevano e coltivavano esercizi spirituali funzionali a imparare a vivere bene e a morire bene.[7]

Bibliografia

Giangiorgio Pasqualotto,

  • East & West. Identità e dialogo interculturale, Venezia, Marsilio, 2003
  • Oltre la filosofia, percorsi di saggezza tra oriente e occidente, Vicenza, Colla, 2008
  • Alfabeto filosofico, Venezia, Marsilio Edizioni, 2018
  • Simplègadi. Percorsi del pensiero tra Occidente e Oriente, a cura di Giangiorgio Pasqualotto, in Id., Introduzione. Filosofia come comparazione, Padova, Esedra, 2002;

Citazioni

[1] Giangiorgio Pasqualotto, Alfabeto filosofico, Marsilio, Venezia 2018, p. 117.

[2] Giangiorgio Pasqualotto, Simplègadi. Percorsi del pensiero tra Occidente e Oriente, a cura di Giangiorgio Pasqualotto, in Id., Introduzione. Filosofia come comparazione, Esedra, Padova 2002, p. 27

[3] Giangiorgio Pasqualotto, East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia 2003, p. 66.

[4] Giangiorgio Pasqualotto, Oltre la filosofia. Percorsi di saggezza tra Oriente e Occidente, Colla, Vicenza 2008, p. 13.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, pp. 15-17.

[7] Ivi, p. 17-18.

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