Stanno uccidendo L’Espresso

Nel giornalismo italiano l’aria sta cambiando, forse già da tempo si è fatta pesante da respirare. Due settimane fa, il quattro marzo 2022, Marco Damilano si è dimesso dalla direzione di una testata storica del giornalismo italiano: L’Espresso. Questo non solo è stato un gesto di protesta contro la decisione dell’impresa editoriale GEDI di vendere la proprietà del giornale, ma è anche simbolo di opposizione al monopolio delle aziende editoriali sulla vita e sull’identità dei vari giornali.

La testata dell’Espresso è stata venduta a BFC Media. Attualmente non si sta parlando di chiusura, tuttavia le parole nella lettera di dimissioni di Damilano mostrano chiaramente delle situazioni di frustrazione nel contesto della stampa italiana che non possono essere taciute.

Non è accettabile che le sorti di una testata giornalistica siano ostaggio dei meri interessi economici e finanziari di un’azienda: il giornalismo non può essere al servizio del denaro. Abbandonare L’Espresso significa perdere un attento osservatore sulla tenuta della democrazia in Italia che è stato, tra l’altro, anche un importante protagonista nelle lotte per i diritti civili, contro le mafie e contro i poteri occulti dello Stato. Cedere all’improvviso un giornale che ha fatto delle inchieste e delle battaglie politiche, civili e culturali la propria ragion d’essere a un gruppo editoriale che si occupa di private banking significa annichilire tutta la storia del settimanale.

La libertà di stampa è un importante indicatore della democraticità di uno Stato. Nelle fasi più dure del ‘900 l’informazione era tenuta sotto stretto controllo e, anche se ad oggi la situazione è decisamente migliorata, ancora in non poche parti del mondo sono necessari molti passi avanti: un esempio è la legge appena approvata dalla Duma, in Russia, in merito alla presunta “circolazione di fake news”, la quale va, in realtà, a punire i giornalisti non in linea con il regime di Putin con un massimo di quindici anni di reclusione.

In Italia fortunatamente non siamo più in quel periodo buio di oppressione da parte del fascismo: la libertà di stampa e di opinione sono dei beni giuridici costituzionalmente garantiti. Alcuni dubbi, tuttavia, si possono porre in merito alle scelte effettuate dalle imprese proprietarie dei giornali: cosa succede se decidiamo di staccare la spina diminuendo le risorse finanziarie? Scrive Marco: «Indebolire un giornale rende più fragile la democrazia». Se vengono tagliati i finanziamenti, venduta la testata giornalistica o, arrivando alla più grave decisione, se la si chiude, necessariamente il lavoro della redazione viene reso più difficile e, conseguentemente, la serietà del giornale si abbassa fino a perdere la sua identità originale.

L’Espresso non è l’unico caso di giornale o di settimanale ad aver subito colpi veramente pesanti da sostenere dalle scelte imprenditoriali delle case editrici: è un fenomeno osservabile in realtà già da almeno vent’anni. Molte redazioni, ad esempio, hanno dovuto rinunciare al cartaceo per trasferirsi definitivamente sulle piattaforme online, di alcune sono state chiuse le redazioni distaccate che presiedevano piccoli centri. Si tratta di un fenomeno di crisi editoriale che può potenzialmente sfociare in una crisi per la democrazia: « su 20-25 seri giornali è difficile avere una forma di controllo; mentre su 5 o 6 sì ».

Un caso recente che risale ad aprile del 2020 è stato quello di la Repubblica (tra l’altro anch’essa di proprietà di GEDI): è bastato un semplice cambiamento della composizione del Consiglio di amministrazione del gruppo editoriale perché Elkann adottasse, come primo atto della nuova compagine proprietaria, quello di defenestrare l’ex-direttore Carlo Verdelli. Gad Lerner, firma del quotidiano che si è dimessa poco dopo quel licenziamento in tronco, aveva ben spiegato che l’allontanamento improvviso e la generale incertezza sul progetto di rilancio di Repubblica non facevano altro che sottolineare in questo modo una forma di controllo padronale – avrebbe detto la redazione di l’Unità – da parte degli azionisti dell’impresa proprietaria del quotidiano. Da quel momento in poi l’identità di Repubblica è cambiata, perdendo quel profilo di sinistra che aveva a partire dal 1976, l’anno della sua fondazione, spostandosi verso posizioni più liberali e di centro. Sembra che la storia si stia ripetendo anche per il Gruppo Espresso; tuttavia, non si sa ancora quale piega prenderà tutto ciò dopo la cessione del settimanale.

Le imprese editoriali sono chiaramente essenziali per la pubblicazione di un giornale e, sì, garantiscono il lavoro ai giornalisti, ma la libertà di stampa non può essere ostacolata dalla scelta di un gruppo di azionisti: non è al servizio del denaro, svolge invece un fondamentale servizio pubblico. Al momento, per quanto riguarda L’Espresso non possiamo fare altro che salutare l’ormai ex-direttore Marco Damilano, che ha deciso di dimettersi dalla guida del settimanale per rimanere coerente alla sua idea di giornalismo libero da interessi padronali e, oltre a questo, ringraziare lui e la redazione per il lavoro fatto in tutti questi anni. Giorni migliori per il giornalismo arriveranno, prima o poi.

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