Caro gas, che mi racconti…

In ambito energetico, la particolare situazione a cui assistiamo oggi è la conseguenza della generale ripresa economica dalla frenata delle economie durante il Covid, essenzialmente dovuta ad un calo drastico della domanda e alla presenza di un contesto normativo mutevole che ha avuto un forte impatto sulle politiche produttive delle imprese. Chiariamo più nel dettaglio cosa è accaduto.

Dopo l’alleggerimento delle misure di contenimento della pandemia, la combinazione di più fattori ha generato una “tempesta perfetta” nella quale è difficile indicare con precisione quale sia stato l’elemento più influente: possiamo ricordare la carenza di semiconduttori (fondamentali in diversi settori industriali, come ad esempio quello dell’elettronica o dell’automotive) e lo svuotamento dei magazzini, sforniti di fronte alla crescente domanda post-pandemica (a causa della line-economy o “Toyotismo”, forma di gestione della produzione finalizzata alla diminuzione delle scorte per minimizzare i costi ma che di fatto espone di più l’impresa ad eventi anomali). Tuttavia è abbastanza facile individuare gli effetti, tra questi il ritorno dell’inflazione.

L’indice dei prezzi al consumo (comunemente indicato come CPI), che misura il livello generale dei prezzi dei beni che acquista un consumatore medio sulla base di un paniere predefinito, fino al 2019 si attestava attorno all’1%, mentre attualmente si attesta interno al 5,2%. Anche se tale aumento può essere stato certamente giustificato da una diversa composizione del paniere, a cui sono stati aggiunti nel corso del 2021 nuovi elementi (come ad esempio i dispositivi di protezione individuale e alcune forme di mobilità sostenibile, come i monopattini elettrici), tuttavia i prezzi delle materie prime (c.d. commodities), tra le quali rientrano beni agricoli, metalli preziosi e beni energetici, sono stati caratterizzati da elevata volatilità in seguito alla pandemia. Tale dato è molto importante perché questi beni, acquistati da imprese e consumatori, costituiscono gli input della produzione. Se la materia prima, l’energia per alimentare gli impianti e la benzina per il trasporto dei prodotti finiti costano di più, l’aumento del costo si deve inevitabilmente scaricare sui prezzi dei beni rivenduti ai consumatori, poiché le aziende non riescono a sostenere il peso dei rialzi per mantenere il prezzo finale di vendita invariato. 

Particolare importanza assume il costo del carburante e dell’energia, poiché il suo cambiamento ha effetti che si propagano in modo diffuso su moltissime attività economiche. Ci concentreremo quindi soprattutto sul caro benzina e del gas specificando però da subito alcune cose importanti: le variazioni reali non dipendono dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, dato che la Russia continua ad onorare i contratti di fornitura verso l’Europa; e il rincaro non è dovuto solo ad una scarsità di prodotto. In realtà, sono gli acquirenti che hanno smesso di fare ordini, perché i prezzi “spot”, ovvero i prezzi attuali di mercato, hanno cominciato a salire troppo e per l’industria questo ha rappresentato un grosso problema. Ma allora cosa ha fatto impennare il petrolio, il gas, la benzina e l’energia elettrica se l’offerta c’era e non si era verificata nessuna scarsità?

Il prezzo della benzina che il consumatore paga è costituito per il 55% da accise IVA, per il 36% dal costo internazionale del prodotto, l’8% è ricavo industriale e il 2% è il ricavo dei gestori delle pompe, i quali lavorano con un margine fisso per ogni litro di carburante venduto. Questi ultimi, quindi, non sono i colpevoli, e neanche le tasse, in quanto l’IVA è calcolata come percentuale sul prezzo del bene (anche se i consumatori lamentano comunque il fatto che i rincari vengono effettivamente amplificati dall’IVA, la quale arriva a superare come importo anche il costo industriale). Restano da analizzare il costo internazionale ed il costo industriale. Mettiamo da parte, per ora, il secondo aspetto sia perché ha un impatto minore rispetto al primo, sia perché proprio ora sono in corso indagini da parte della Guardia di Finanza per stabilire se ci siano stati accordi o abusi di posizione dominante da parte delle grandi compagnie petrolifere (ExxonMobil, Shell, ecc..) per la fissazione di prezzi alti sfruttando l’elevata concentrazione del mercato e le loro relative quote. Concentriamoci ora sul costo internazionale del prodotto, il quale viene anche chiamato “Platt’s” dal nome dell’agenzia privata, con sede a Londra, che ha proprio il compito di calcolare il costo internazionale della benzina e del gasolio. Nel Platt’s sono racchiusi essenzialmente due elementi: il costo del petrolio greggio (a cui, in Europa, si fa riferimento con il termine “Brent”) più quelli di commercializzazione e di trasformazione della materia prima in prodotto finito per l’autotrazione. Perciò si può dire che il Platt’s riflette sia le oscillazioni delle quotazioni del Brent, sia le oscillazioni causate dalla distribuzione del prodotto (per le frizioni fra domanda e offerta). Un rapporto della FIGISC (”Dentro il prezzo dei carburanti modulo 2/4”, 2005), conferma che questi due elementi sono estremamente variabili e, contrariamente a quanto si possa pensare, il Platt’s non segue perfettamente l’andamento del Brent. I due beni, infatti, si influenzano reciprocamente: se in un momento particolare il prezzo più alto del petrolio greggio rende necessariamente la benzina più cara, può succedere, in un’altra occasione, che una forte domanda di benzina faccia salire il prezzo del petrolio. Questo crea un circuito che si autoalimenta nei cicli rialzisti ed è molto probabile che la situazione attuale ne sia un esempio.  

Se osserviamo l’andamento del Brent nell’ultimo periodo, la crescita negli ultimi 12 mesi è stata del 25% circa, dovuta principalmente allo squilibrio fra domanda e offerta sopra citato. L’impennata del costo del gas, già da ottobre 2021, ha amplificato l’effetto, anche perché risultava più conveniente sostituire il gas con il petrolio per la produzione di energia, generando un aumento improvviso della domanda di petrolio. Infine con l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, si è creata ancora più incertezza nei mercati internazionali, che ha causato picchi storici per il Brent e conseguentemente per il costo Platt’s di benzina e gasolio. Tuttavia non bisogna dimenticare un altro fattore che è intervenuto nella dinamica della formazione dei prezzi che oggi vediamo, ovvero la speculazione.

I mercati delle materie prime si suddividono in reali (dove i contratti si fanno in base ai “prezzi spot”) e finanziari (dove vengono negoziati strumenti derivati che legano i propri prezzi a quelli scambiati nei mercati reali). Nei primi le merci vengono effettivamente scambiate e i prezzi sono determinati sulla base di fattori reali (come la domanda e l’offerta), mentre nei secondi gli operatori concludono i cosiddetti contratti “futures” nei quali al sottostante (la materia prima oggetto del contratto) si stabilisce un prezzo fisso e una data determinata di scadenza per lo scambio, alla quale si suppone che il prezzo della materia prima sia cambiato. In questo caso, con un prezzo fisso, chi compra spera in un aumento di prezzo mentre chi vende spera che il prezzo scenda. Nei mercati finanziari, ancora, c’è chi utilizza i futures per un effettivo vantaggio commerciale (gli “hedgers”, in italiano potrebbero definirsi i “riparisti”) perché realmente interessato ad ottenere la materia prima ad un prezzo sicuro, e chi invece utilizza i futures solo per fini speculativi, dato che, poco prima della scadenza del contratto, si libera dalla posizione rivendendo e guadagnando dalla differenza di prezzo creatasi rispetto al momento dell’acquisto. 

I confini tra copertura (hedging) e speculazione sono molto labili. Di fatto, la speculazione permessa dall’esistenza dei futures è considerata positiva per due ragioni: permette l’affluenza di liquidità in un contesto di maggiore continuità e velocità delle contrattazioni e ha l’importante funzione di “price discovery” ossia, ipotizzando che i prezzi dei futures siano il risultato di un’attenta valutazione degli analisti del mercato, permettono di mettere in luce la quotazione di quel sottostante nel futuro. Ma alla fine il risultato è abbastanza controverso, in quanto la sicurezza che i riparisti cercano affidandosi a questi contratti viene controbilanciata dall’instabilità apportata dall’eccessiva liquidità immessa dagli speculatori (liquidità implica volatilità). In questo contesto i timori per una possibile scarsità futura vengono sfruttati dai trader, ai quali si aggiungono investitori generalmente “prudenti” che decidono di puntare proprio sulle materie prime, le quali molte volte si sono rivelate resilienti alle conseguenze delle crisi, generando così un afflusso ingente di liquidità. Succede, quindi, che i prezzi dei futures vanno ad influenzare i prezzi spot nei mercati reali, amplificando gli effetti delle frizioni domanda-offerta post-pandemici  attraverso le scommesse sui rialzi, non solo del prezzo del petrolio. Se si osserva il grafico delle quotazioni dei futures sul gas nel TTF (il mercato di riferimento per lo scambio del gas) è chiaramente visibile un’impennata nel prezzo da una media di 18 a punte di 136 megawattora nei mesi fra settembre e novembre 2021 che si differenzia nettamente dall’andamento degli anni precedenti. I futures sul greggio Brent sono saliti dagli 8,53 ai 94,10 dollari al barile e variazioni simili si sono viste anche per il WTI e per il DME (valori di riferimento per il petrolio nel mercato americano e asiatico).

Il “Monthly Oil Market Report” redatto dall’OPEC per il mese di marzo, nonostante metta in conto diverse situazioni specifiche dove si sono realmente registrate tensioni fra domanda e offerta in regioni sparse del mondo, riporta i valori specifici degli incrementi (4,9%) in posizioni finanziarie aperte (“open interests”, il numero di contratti non ancora chiusi) nei contratti futures riguardanti le principali materie prime durante i mesi di febbraio-marzo: il report evidenzia “atteggiamenti rialzisti” soprattutto verso il WTI, il gas, l’oro e il rame. In sintesi, quindi, l’aumento immediato degli acquisti post pandemia si è intensificato ed è coinciso col sorgere delle tensioni geopolitiche in Europa, seguito di volta in volta da rivendite in massa per ricavarne profitti sui mercati finanziari globali.

Le conseguenze di tutto ciò per l’economia reale sono purtroppo molto pesanti. Le imprese, che nella situazione pre-Covid pagavano di bolletta energetica (il cui prezzo è legato a quello del gas) 9 miliardi di euro all’anno, quest’anno verseranno 51 miliardi. Il contestuale aumento dei prezzi dell’output ha generato una spirale inflattiva: così la domanda dei beni rischia di scendere nuovamente, dopo la forte perturbazione causa Covid. I primi segnali di questi fenomeni sono già visibili nelle molte imprese costrette a ricorrere alla cassa integrazione per i dipendenti o, addirittura, obbligate a bloccare la produzione. 

Si sente spesso dire che “la miglior cura per i prezzi alti sono i prezzi alti”, facendo riferimento con questo alla dinamica economica di autoregolazione del mercato e intendendo con ciò che col tempo i prezzi scenderanno automaticamente, a causa di una contrazione della domanda. Si potrebbe concordare  con questa argomentazione da un punto di vista della teoria economica, sia perché probabilmente i prezzi tenderanno prima o poi a scendere da soli, stabilizzandosi, ma anche perché questa situazione ha sicuramente accelerato gli sforzi per la transizione ecologica (se aumentano i prezzi dei combustibili fossili diventa più conveniente l’utilizzo di fonti d’energia rinnovabili). Tuttavia questa tesi espone eccessivamente le nostre società alle oscillazioni del mercato, difficilmente prevedibili, e derubrica gli Stati ad un ruolo passivo, di inazione, sia ex-ante che ex-post: a smentire una prospettiva puramente teorica infatti vi sono le prime discussioni in Italia ed in Europa sul futuro del nostro bacino energetico. Il governo italiano ha ratificato un primo taglio alle accise sulla benzina, che ha fatto ritornare i prezzi al di sotto dei 2€/Litro. Tuttavia ciò non basta e, stavolta a livello europeo, è in discussione l’imposizione di un tetto massimo (price-cup) per il mercato del gas oltre il quale non si può salire per controllare gli effetti della speculazione. Germania e Olanda sono contrarie adducendo come argomentazione la difesa del libero mercato e la frenata che ciò causerebbe sulla transizione delle energie rinnovabili, mentre i paesi del Mediterraneo, tra cui l’Italia, stanno pressando con forza per limitare i danni a consumatori e imprese. La speculazione sicuramente non dovrebbe essere demonizzata come causa principale di questi rincari generali, data anche la complessità di tutta la situazione. Tuttavia non è un’esagerazione, come è stato già detto in precedenza, dire che il quadro complessivo sia stato aggravato dalle ondate speculative. Una cooperazione per la gestione europea delle risorse energetiche, che veda, oltre all’esercizio di contratti collettivi che permettono di opporre una maggiore forza contrattuale nel momento della stipulazione dei contratti energetici, un trasferimento della competenza di gestione del settore dal nazionale al comunitario, sotto la spinta delle problematiche sia endogene (speculazione) che esogene (tensioni geopolitiche), potrebbe rappresentare un importante passo verso una migliore gestione delle crisi energetiche e dell’integrazione europea. 

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