Gas, grandi potenze e pseudodemocrazie: perché il conflitto in Nagorno-Karabakh ci interessa da vicino

IL VIAGGIO – Attraversando in auto le brulle colline del Caucaso si percepisce, nei diversi contesti e con diverse intensità, l’influenza dell’Unione Sovietica, che ha governato quei territori fino al 1991. L’Armenia è la più arretrata delle tre repubbliche caucasiche, sia a seguito una superficiale analisi qualitativa di quello in cui ci si imbatte guardandosi intorno, sia per gli oggettivi parametri socio-economici. Fattesi indipendenti, le tre nazioni sono state attraversate da un trentennio di tensioni e ostilità su più fronti; il più rilevante e attuale riguarda la contesa della regione del Nagorno-Karabakh – recentemente tornata agli onori della cronaca – al riguardo della quale Sofia Sarta aveva già dedicato su queste colonne un’approfondita analisi che ne spiega le principali ragioni storiche ed etniche. La recente escalation che ha portato l’Azerbaijan a riprendere il controllo dell’enclave armena è soltanto un piccolo elemento di un quadro geopolitico complesso in cui rientrano la dipendenza europea dalle fonti fossili, la silenziosa lotta in termini di soft power tra Russia e Stati Uniti e le prospettive di una parte di mondo in cui – con diversi tempi e modalità – alcune democrazie in via di consolidamento stanno strizzando l’occhiolino all’Unione Europea e all’alleanza atlantica, voltando le spalle al proprio passato sovietico.

Il crocevia tra tre paesi, nei pressi di Yeraskh. Sulla sinistra il confine con l’Azerbaijan, sullo sfondo il monte Ararat e il confine turco. Al centro dell’autostrada, la bandiera armena.

Il grande assente, nella rapida e in fondo prevedibile accelerazione azera per riaccaparrarsi la regione separatista, è la Russia. L’invasione del territorio che – è bene sottolinearlo – è internazionalmente riconosciuto come parte dell’Azerbaijan, sta avvenendo con il tacito consenso dei cosiddetti peacekeepers russi presenti nella regione. Un fatto che sorprende, pensando alle buone relazioni diplomatiche storicamente in essere tra Armenia e Russia. Due le opzioni plausibili, che non si escludono necessariamente a vicenda: o Putin era troppo impegnato sul fallimentare fronte ucraino, oppure ha mascherato con l’ignavia una coscienziosa mossa politica. L’instaurazione del governo di Pashinyan ha fatto traslare Yerevan su frequenze ulteriormente più occidentali (sono state documentate addirittura recenti esercitazioni militari con gli USA) ed è lecito credere che il Cremlino possa avere degli interessi in un rovesciamento del regime armeno. Niente è più destabilizzante di una sconfitta militare e non a caso, nelle piazze di Yerevan, si è contestato a gran voce il primo ministro; Pashinyan, ex giornalista, nei suoi cinque anni di mandato non ha effettivamente brillato per le sue scelte di politica estera.

La Repubblica dell’Artsakh – mai riconosciuta da alcuno stato ONU – verrà dissolta, burocrazia e milizie incluse. L’apparato istituzionale a stampo armeno che governava la regione non esisterà più e dunque, sebbene Baku non abbia costretto gli abitanti a emigrare puntando loro una pistola alla tempia, più di 100mila abitanti di etnia armena cercheranno rifugio altrove, abbandonando i loro possedimenti. La pistola alla tempia metaforica, tuttavia, sono stati i 9 mesi di semi-isolamento a cui la popolazione è stata costretta prima dell’attacco; le forze azere avevano bloccato, con pessime ripercussioni umanitarie, lo strategico corridoio di Lachin, un lembo di terra largo appena nove chilometri che rappresentava l’unica via di accesso per l’Armenia dall’enclave.

Il mancato appoggio militare della Russia, tuttavia, ha sbloccato un potenziale inedito per la connettività economica e la coesistenza pacifica a lungo anelata da entrambi i paesi. In precedenza, questi sforzi erano stati compiuti separatamente e spesso in contraddizione tra loro. Nella letteratura si riscontra più volte il desiderio dell’Azerbaijan di perseguire militarmente la realizzazione del cosiddetto corridoio Zangezur, per costruire collegamenti stradali, ferroviari ed energetici. Il progetto avrebbe collegato l’exclave della Repubblica autonoma di Nakhchivan e la Turchia; si sarebbe dovuto realizzare attraverso la zona dell’Armenia meridionale che confina con l’Iran, senza una vera intesa politica con Yerevan. L’apertura del governo di Pashinyan riconosce il principio dell’integrità territoriale (fondamentale per qualsiasi accordo di pace tra Yerevan e Baku) ma propone anche progetti specifici di connettività, come la costruzione e il ripristino di condutture, strade, ferrovie, cavi e linee elettriche. Allo stesso tempo, Baku sembrerebbe aver rinunciato alle sue mire riguardanti il corridoio Zanzegur in favore di nuove infrastrutture da realizzare attraverso l’Iran. Se fino a questo punto il diritto internazionale spezza una lancia a favore dell’Azerbaijan, un’eventale aggressione dei territori armeni non sarebbe invece in alcun modo giustificabile.

Siamo passati nelle zone di confine con l’exclave di Nakhchivan, percorrendo un’autostrada che costeggiava alcuni bastioni militari non presidiati. La vita nei villaggi circostanti continuava senza che si potesse presagire la minima tensione. Non avessimo letto i giornali, mai avremmo potuto intendere che ci trovavamo in un paese in guerra. Sebbene fossimo molto lontani dai luoghi che sono stati teatro del conflitto, è stata una sensazione piuttosto strana e inaspettata. Strano e inaspettato è stato anche vedere sventolare la bandiera a stelle strisce a una manciata di metri dal confine azero, in una strada interrotta nei pressi di Yeraskh. Ai lati c’erano caserme, edifici militari e accampamenti; alcuni in costruzione, alcuni dall’aspetto piuttosto trascurato e forse non più in uso. Pochi chilometri prima avevamo incontrato un checkpoint che batteva bandiera russa, una delle tante basi che ha coordinato, durante il trentennio di ostilità, le operazioni di «sovrintendenza» portate avanti da Mosca.

Poco prima avevamo anche attraversato un piccolo triangolo di terra con un manto stradale perfetto, che per breve tempo ha dato tregua alle sospensioni della nostra Toyota Corolla, stremata dalle dissestate strade armene.

“Porca miseria, Riccardo, il navigatore dice che siamo in Azerbaijan!”

La divisione dei distretti amministrativi dell’Azerbaijan. Karki è un exclave de facto governato dall’Armenia.

Nessuna frontiera, solo dozzine di operai al lavoro sull’asfalto (che già senza il loro intervento era molto superiore qualitativamente alla media di ciò che avevamo incontrato fino a quel punto). In effetti, disseminate nella regione, ci sono molte «isole» che appartengono de iure all’Azerbaijan ma si trovano in territorio armeno, o viceversa. Reliquie del processo idiosincratico di ridefinizione dei confini che ha segnato la dissoluzione dell’Unione Sovietica, questi villaggi sono sotto l’amministrazione e la giurisdizione del paese che li ospita geograficamente pur appartenendo, sulla carta, all’altra nazione. Karki – il piccolo villaggio in questione – ha un valore strategico, dal momento che si trova sulla principale autostrada che attraversa l’Armenia da Nord a Sud. Era stato oggetto di recente dibattito politico, menzionato dal primo ministro come uno dei tanti possibili punti di incontro nelle politiche di appeasement con l’Azerbaijan. Il piccolo paese ospita una comunità armena di poche centinaia di persone, che si sono insediate in seguito alla guerra combattuta tra il 1992 e il 1994, la stessa con cui l’Armenia aveva preso il controllo del Nagorno-Karabakh.

Chi osserva con fare disinvolto e distaccato – ma interessato – quanto sta succedendo nella regione sono Unione Europea e Italia. A seguito dello scoppio del conflitto russo-ucraino, il vecchio continente si è rivolto ad altri attori per rifornirsi di gas naturale cercando di isolare la Russia (che continua comunque a essere il principale fornitore) in una delle blande forme di sanzione economica. Questo problema deriva, a monte, da un’arretratezza strutturale sulle rinnovabili. I nostri governanti si stanno dimostrando molto abili nel fare orecchie da mercante, in quanto due di questi nuovi partner sono l’Algeria – uno dei paesi che ha apertamente dichiarato di sostenere il regime di Hamas in Palestina – e l’Azerbaijan stesso. Evidentemente i 100mila del Nagorno Karabakh sono sacrificabili – tanto per Roma, quanto per Bruxelles – a fronte dei termosifoni da accendere quest’inverno. Il conflitto in Nagorno-Karabakh rappresentava una minaccia per il gasdotto del Caucaso del Sud, che transita in quelle zone. Le tubazioni fanno una deviazione da quello che sarebbe un percorso lineare e ideale, attraversando la Georgia al posto dell’Armenia.

I tre gasdotti che collegano Baku a San Foca, in Puglia. Didascalie in tedesco.

Approvvigionandoci nel giacimento azero di Shah Deniz, oltre a un beneficio economico strategico (diminuiremmo la nostra dipendenza dall’aggressore russo) avremmo molti ambiti in cui gli affari con Baku potrebbero ampliarsi in futuro. Tra gli entusiasti di questo nuovo asse c’è anche il ministro della difesa Guido Crosetto, che sta preparando una massiccia fornitura di armi da spedire a Baku, per un miliardo abbondante di euro. «Abbiamo superato la dipendenza dal gas russo soprattutto grazie alla cooperazione con l’Azerbaijan e dopo che abbiamo preso quello che ci serviva ho visto molte titubanze nel proseguire un rapporto, per esempio nell’ambito difesa. Ma se si sceglie una linea, dobbiamo andare fino in fondo, anche se qualche alleato non è contento» ha commentato il ministro a La Stampa. Spediamo allora jet d’addestramento, fucili d’assalto, semoventi contraerei e batterie di missili terra-aria a una democrazia illiberale che potrebbe presto alzare la tensione anche con il vicino Iran; un paese che Freedom House ha classificato come «non libero», dove limitazioni dei diritti civili e della libertà di stampa non accennano a diminuire. Stiamo scambiando un Putin con un Aliyev, che dimora nella scintillante capitale sul Mar Caspio dal 2003 ed è succeduto al padre Heydar, che a sua volta fu al potere dal 1993. Parlare oggi di membership UE è prematuro e forse anacronistico, ma non è da escludere che il processo di allargamento tanto caro a Ursula von der Leyen possa tangere anche questi paesi, similarmente alla candidatura che è stata ufficializzata per la confinante Georgia. Non è questo il momento di discutere le potenziali conseguenze di tali prospettive, ma la strada che la repubbliche caucasiche dovranno percorrere per mettersi al passo con gli standard europei – Orban escluso – in termini di sistema giudiziari, riforme anti-corruzione, de-oligarchizzazione, riduzione della polarizzazione nel sistema politico, diritti umani, uguaglianza di genere e molto altro… è senz’altro in salita.

Nonostante molti potenziali ostacoli – l’imprevedibile attore che si è dimostrata la Russia, su tutti – c’è una reale possibilità di un accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan, che potrebbe migliorare significativamente la connettività della regione a beneficio di milioni di persone. Il mai così vicino «difficile compromesso» potrebbe sbloccare a sua volta ulteriori collegamenti e un corridoio transcaspico verso l’Asia centrale, il quale porterebbe sicuramente a un aumento degli investimenti da parte di attori chiave come gli Stati Uniti e l’UE. Tutto ciò richiederà delicate manovre e decisioni strategiche da parte delle leadership dei due paesi, per mitigare i rischi e cogliere le opportunità in un momento critico, sia nelle loro relazioni bilaterali che nelle loro relazioni con gli attori influenti che stanno ricoprendo ruoli prominenti in tutta la regione.

Riccardo Eger

Zaino in spalla e voli low-cost, poi, nel tempo libero: tennis, giornalismo e Studi Internazionali

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