Come i media (non) devono raccontare la violenza: il doppio stupro di Palermo

Una sveglia che suona troppo presto, ti alzi, apri l’armadio e ti infili in fretta e furia i primi vestiti che ti capitano sotto mano; mentre il caffè sale dalla moka trovi un attimo per sederti e leggere le ultime notizie. Tra la politica estera, gli articoli di costume, le proteste del momento, il tuo occhio è attirato da articoli a cui ormai sei fin troppo abituata. Oggi si parla dei fatti di Palermo. Ieri erano altri stupri, molestie, femminicidi, discriminazioni fuori e dentro il luogo di lavoro ma la narrazione rimane sempre la stessa, inadeguata e inaccettabile.

Questa mattina è un termine in particolare che attira la tua attenzione: “branco”. Non c’è via di fuga: le testate giornalistiche, lungo tutto lo spettro della compagine politica usano lo stesso identico termine. D’un tratto, gli uomini che hanno violentato e umiliato quella ragazza lungo le strade del Foro Italico smettono di essere esseri viventi capaci di raziocinio e dotati volontà, diventano una sorta di enti subumani, quasi a dire che le loro azioni non sono più un problema che riguarda tutti. Non è la società a sbagliare: i loro gesti sono un difetto del sistema, non ne sono parte integrante. La violenza, certo, si può verificare, al suo termine però la società che l’ha prodotta torna in un attimo al suo stato naturale, dove le donne ormai sono alla pari degli uomini e dove la loro oggettificazione appartiene ormai al passato. Il percorso è semplice: non associamo il problema all’individuo, ma a una sorta di animale interiore che può scatenarsi all’improvviso. Un’eccezione che non ci riguarda, almeno fino alla prossima notizia di cronaca.

Ovviamente, nell’era della globalizzazione, non sono solo i giornali a rappresentare un problema: la vittima, anche in questo caso, è sottoposta alla gogna mediatica, perpetrata in primo luogo dai suoi carnefici. Le minacce arrivano tramite social, alla 19enne viene intimato di ritirare la denuncia e all’ennesimo attacco risponde raccontando la sua parte della storia.

Anche in questo caso, i media tornano ad infierire. “I giornalisti fanno di tutto per proteggere la sua intimità. Ma la ragazza di 19 anni, vittima di stupro, non molla i social e mostra tutto di sé. Lo fa, dice, per contrastare la versione dei sette balordi che l’hanno violentata”, scrive uno tra i giornali più letti nel nostro paese, e continua a infierire: “una ragazza di 19 anni che rimane incollata al cellulare anche nei momenti più drammatici”. Il messaggio è chiaro: tu denuncia, certo, ma se vuoi raccontare la tua storia evitando la narrazione che ne fanno altri stai solo cercando attenzioni, e sei solo un’altra ragazzina che vive la sua vita attraverso uno schermo. Sei condannabile come lo sono i tuoi violentatori, solo che loro sono “balordi”, termine infelice che ricorda una ragazzata fatta per sbaglio per terminare in bellezza una notte di divertimento. 

Non si capisce nemmeno, del resto, dove si trovino questi fantomatici giornalisti che cercano di proteggere l’intimità della ragazza, quando ogni fonte di informazione è piena di foto e video che non fanno che ricordare continuamente alla vittima ciò che le è capitato e che rimarrà con lei tutta la vita.

Ma il ripetuto delitto dei media non finisce qui, e i giornalisti (uomini) trovano utile aggiungere altri particolari: “era sola”, “girava di notte”, “era ubriaca”. Perché è veramente riprovevole che tu abbia dovuto subire una violenza, ma devi anche essere consapevole che in quanto donna sei un essere debole, fragile, e certe cose che un uomo farebbe normalmente dovresti evitarle. Il mondo non può cambiare, allora se non sei abbastanza attenta la colpa in fondo è anche tua. Forse la prossima volta rispetterai il coprifuoco.

Accettare che un sistema di questo tipo si perpetui, che questi bias continuino a riproporsi, significa non solo alimentare il già diffuso sessimo e a rendere le diseguaglianze giuste, legali, consuetudinarie, ma anche a infierire sulla ferita aperta non solo delle dirette interessate, ma di milioni di altre che in altri momenti e altri luoghi hanno sofferto lo stesso destino. Il fatto che poi i responsabili siano spesso fonti che riteniamo autorevoli e affidabili rende questo uso del linguaggio e dell’informazione ancora più grave.

L’appello è tanto scontato quanto necessario: la prossima volta che una donna viene uccisa due volte fateci caso, e indignatevi.

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