È nato il Governo Draghi: i partiti sono con lui

Un governo di coalizione nazionale, da Forza Italia a LeU passando per la Lega e il MoVimento 5 Stelle. Fuori invece Fratelli d’Italia. Otto i ministri tecnici, il resto di estrazione politica; una compagine eterogenea e composita che porterà il Paese alle elezioni del ’23?

È nato, l’esecutivo italiano porta la firma di Mario Draghi, già Presidente della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea; ad accompagnarlo in questa sua avventura quasi tutto il Parlamento, dalla destra di Matteo Salvini fino a Liberi e Uguali, assieme a Forza Italia, Partito Democratico, i pentastellati e Italia Viva di Matteo Renzi. Un capolavoro, un Esapartito con sostenitori più o meno esterni agli azionisti diretti del governo, nato dopo la crisi del Conte Bis scatenata dall’ex sindaco di Firenze: che è uscito e rientrato dalla porta girevole principale di Palazzo Chigi senza fare una piega. Alla fine, è lui a detenere in mano le quote di maggioranza del nuovo Consiglio dei Ministri, com’è stato per lo scorso esecutivo fin dalla defezione sua e dei fedelissimi dal PD, partito che ingenuamente non ha pensato alla pericolosità politica del Rottamatore – insidiosità già ampiamente dimostrata con il Governo Letta; la Storia insegna, ma non tutti sono però attenti alla lezione.

Il coup de théâtre più rilevante in questa versione nostrana di House of Cards è l’adesione della Lega all’alleanza di governo. Sorprende? C’è una sola risposta a questa domanda: ed è sì. In una coalizione di respiro europeista, il Carroccio si presenta come la mosca bianca che è riuscita ad inserire tra i principali ministeri chiave la figura di Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo Economico, che assieme a quello dell’Economia presieduto dall’economista Daniele Franco svolgerà un ruolo fondamentale perché lo stato si riprenda dopo un anno di crisi sanitaria ed economica. La Lega, trovatasi ad un bivio, ha deciso di perseguire una politica di compromesso rivedendo radicalmente molte sue posizioni inerenti all’Unione Europea, all’Euro e in parte all’immigrazione, una scena già vista con il MoVimento 5 Stelle che da movimento di massa populista, antieuropeista e purista della dicotomia noi contro loro ha fatto del trasformismo politico di convenienza il suo tratto distintivo già dal cambiamento repentino dell’alleanza di governo dalla Lega al Partito di Bibbiano con cui, citiamo il Ministro degli Esteri, mai si sarebbero alleati (sebbene i prodromi di tutto ciò si siano già visti nel lontano 2017 tra le stanze dell’Europarlamento con il tentativo fallimentare dell’ingresso dei pentastellati nell’ALDE di Verhofstadt).

Giorgia Meloni, invece, si è chiamata invece fuori dai giuochi di palazzo. Lei e il suo partito ondeggiano tra l’astensione e il no, sicuramente nessun sì verrà proferito dai suoi deputati e dai suoi senatori: è una scommessa politica, sul tavolo c’è la credibilità politica del movimento e anche il bacino elettorale potenziale degli scontenti se quest’esecutivo presidenziale non dovesse andare a buon fine oppure, viceversa, dovesse davvero risollevare l’Italia dall’immobilità in cui è scivolata con lo scoppio della pandemia. Se Draghi dovesse fallire, molti voti della Lega e di Forza Italia potrebbero confluire sotto la fiamma tricolore: è questa la scommessa della Meloni, in ballo per lei c’è tutto. La leadership del centrodestra oppure l’oblio politico. Un discorso diverso invece si potrebbe fare per i democratici, che per non andare al voto sono costretti a governare assieme a Silvio Berlusconi per interposta persona e a Matteo Salvini, sempre per procura, il che anche in questo caso la dice lunga su quanto sia meglio politicamente parlando scendere a patti con il nemico invece di rimanere fedeli alle proprie posizioni. È la democrazia parlamentare; e il transatlantico ha questo potere: comporre affreschi inimmaginabili di amicizie e simpatie politiche che alla prova dei fatti sono più persuasive di una campagna elettorale cui rendere conto delle proprie azioni agli elettori.

Chi ne esce sconfitto alla fine è la politica, scricchiolante già dal 2018, ma ora totalmente annichilita. Il parlamento ne è la plastica rappresentazione: non esiste un partito o una coalizione che sia effettivamente di maggioranza, ma al contrario in esso vi è una serie di pesi e contrappesi perché permanga un perenne stato di precario equilibrio ove alla fine non cambi niente qualsiasi cosa succeda. Né il voto sarebbe stata la soluzione ottimale e il Covid non c’entra, semmai i risultati elettorali che ci saremmo ritrovati una volta chiuse le urne sarebbero stati pressoché gli stessi, tranne i 5 Stelle dispersi per le continue rese dei conti interne tra le fazioni guidate da Vito Crimi, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Senza scordarsi, pure, che il Paese avrebbe avuto bisogno, e tutt’ora tale mancanza persiste, di una nuova legge elettorale per ridisegnare i collegi in seguito all’esito referendario del taglio dei parlamentari. La scelta del Presidente Mattarella di conferire l’incarico a qualcuno che non c’entrasse direttamente con l’agone politico si è rivelata realisticamente l’unica realizzabile, sebbene personalmente possa rivelarsi più o meno infelice oppure più o meno saggia. Ora bisognerà vedere quale Draghi governerà, se riuscirà a governare, sullo stato d’eccezione: se quello keynesiano memore dell’insegnamento di Caffè o Modigliani, oppure quello liberista che ha tenuto in mano le redini della BCE. Solo alla prova dei fatti verificheremo quale Mario sarà a Palazzo Chigi. Per ora sospendiamo il giudizio.

Un ultimo accenno lo riserviamo ai ministeri. Viene da chiedersi se non siano troppi, specie se sia effettivamente necessario uno improntato alla transizione ecologica. Ingenuamente si potrebbe pensare che esista già un dicastero deputato alla salvaguardia dell’ambiente e del territorio, sito per l’appunto in Via Cristoforo Colombo 44 a Roma, oppure della necessità di quello dedicato al Sud e alla coesione territoriale quando ne esiste un altro dedicato agli affari regionali e alle autonomie. Ma anche in questo caso la soluzione è pragmaticamente semplice: coesione ed equilibrio politico. Sono necessari i voti del MoVimento e di Forza Italia, quello è il dazio da pagare per il nuovo Presidente del Consiglio. Lo scorso sabato 13 febbraio si è tenuto il primo Consiglio dei Ministri dopo un breve giro di consultazioni e una veloce Cerimonia della Campanella. Adesso arriva il bello: vedere se l’attuale esecutivo arriverà a fine legislatura oppure, come tutti gli altri governi italiani, durerà la bellezza di un anno e mezzo prima che la coalizione imploda su se stessa per mancanza di visione comune. Ci consola sapere che sia il governo più lungo che quello più breve l’Italia li abbia vissuti durante la monarchia; meno, però, che i governi repubblicani vivacchiano e siano soggetti al capriccio di una perenne bufera che mena da una parte all’altra i ministri e i politici sulla scia di una ben nota coppia dantesca. L’Italia, ci rendiamo conto che il paragone possa essere un po’ azzardato, è il Divin Poeta; quanti Paolo e Francesca incontrerà ancora prima che cadda “come corpo morto cade”?

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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