A un anno dalla strage di Cutro

Il 26 febbraio di un anno fa, un’imbarcazione carica di migranti proveniente dalla Turchia naufragò davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, nel Crotonese, provocando una delle tragedie più gravi avvenute al largo delle nostre coste negli ultimi anni. Il drammatico bilancio di 94 vittime, tra cui 35 minori, e ulteriori dispersi, scosse fortemente le coscienze del nostro Paese e riaprì il dibattito sul tema immigrazione, cosa che regolarmente accade in occasioni di queste terribili tragedie.

Nonostante ciò, un anno dopo dobbiamo constatare che le promesse fatte nei giorni successivi al naufragio sono state disattese. Il Governo aveva promesso infatti di aiutare i sopravvissuti nell’ottenimento di permessi di soggiorno e di realizzare corridoi umanitari per fare arrivare in Italia i familiari rimasti nel paese d’origine: un anno dopo molti di loro vivono ancora nei centri per rifugiati, aspettando i documenti, lo status di rifugiati e il diritto al ricongiungimento con le proprie famiglie. Alcuni di loro non hanno ancora ottenuto la protezione internazionale, c’è chi ha quella speciale, ma dura solo un anno e non può essere convertita in permesso di lavoro.

Poche settimane dopo la strage il Governo ha risposto varando il Decreto Cutro: il provvedimento, pensato soprattutto per inasprire le pene per il traffico di essere umani, non solo non ha raggiunto questo primo obiettivo, ma si è dimostrato del tutto inefficace su tantissimi altri fronti, dai centri di permanenza per i rimpatri alla programmazione dei flussi, fino a finire al centro di un acceso dibattito giuridico sulla legittimità di una delle norme più controverse. È di qualche settimana fa infatti la richiesta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in via d’urgenza sulla norma controversa della garanzia finanziaria di quasi 5mila euro, che i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi considerati ‘sicuri’ dovrebbero pagare per poter attendere in libertà l’esito della domanda di protezione.

Nel Decreto si prevede inoltre che i richiedenti asilo siano ospitati nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), senza possibilità di accedere ai servizi del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) gestiti dai Comuni, quali l’insegnamento della lingua italiana, la formazione e la qualificazione professionale, l’orientamento legale, l’accesso ai servizi del territorio, l’inserimento lavorativo, abitativo e sociale, oltre che la tutela psico-socio-sanitaria.

Si tratta di un disegno che agli occhi di chi governa dovrebbe dissuadere i migranti dal lasciare i loro paesi, ma non è altro che l’ennesimo fallimento di una linea dura, che non risolve quello che più che un problema emergenziale, è un fenomeno strutturale. Entro il 2050 il continente africano arriverà a contenere il 23% della popolazione mondiale, circa 2,3 miliardi di persone. È irrealistico pensare di poter fermare o rallentare i flussi: ci attende un futuro migratorio a cui dobbiamo guardare con fiducia perché rappresenta un’opportunità, non una condanna.

Impedire però ai migranti di ottenere un permesso di soggiorno, di poter lavorare e costruirsi un futuro dignitoso in Europa, non è solo mancanza di umanità, ma anche di volontà politica: viviamo in un Paese con la popolazione tra le più anziane d’Europa, che per il futuro ha bisogno di guardare oltre mari, monti e ogni tipo di confine, se ancora questa parola porta qualche significato.

Stragi come quella di Cutro ci forniscono l’immagine di uno Stato che non ha visione, né umana né politica, ed evidenziano le colpe di un’Europa che non agisce secondo i valori di cui vorrebbe essere portavoce.  Oltre alle campagne d’opinione, agli accesi e teatrali dibattiti televisivi, oltre alle inutili modifiche a norme di accoglienza datate e inadatte, dovrebbe esistere e rimanere un’umanità di fondo che cerca e trova i mezzi per salvare e salvarci.

Non solo le stragi, anche i suicidi, tutti gli atti di autolesionismo e i disordini che avvengono ogni giorno all’interno dei Centri permanenti per il rimpatrio (CPR), dovrebbero fungere da campanello d’allarme costante per le nostre coscienze, ricordandoci che la nostra società non può permettersi di voltare le spalle alla sofferenza umana. Il fatto che individui che hanno affrontato l’inferno sulla terra abbiano scelto di porre fine alla propria vita nel nostro paese dovrebbe essere un richiamo alla nostra responsabilità morale e sociale.

Se il nostro mondo non offre speranza e dignità a coloro che fuggono dalla violenza e dalla disperazione, allora siamo condannati a un fallimento collettivo come esseri umani.

La Rete 26 febbraio, che rappresenta oltre 400 associazioni che si occupano di immigrazione, ha cercato in questi mesi di dare voce ai sopravvissuti alla strage di Cutro, affinchè le loro testimonianze fossero ascoltate e le loro istanze accolte. Il gruppo ha organizzato in questi giorni diverse iniziative per commemorare le vittime e sensibilizzare sul tema, e ha reso possibile in quest’occasione il ritorno a Cutro di sopravvissuti e familiari delle vittime.

Nel frattempo, un anno dopo, anche la più piccola delle vittime della strage è stata riconosciuta: quella di Mohammed Sina Hoseyni, noto ai registri come Kr16m0, era solo la più giovane delle tante vite che quella notte il mare si è portato via.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi