David di Donatello 2024: un modello di italianità in risposta agli Oscar?

I premi verranno assegnati il 3 maggio presso gli Studi di Cinecittà a Roma e l’evento sarà trasmesso in prima serata sul canale di Rai 1

La data del 3 maggio dirà ben poco alla maggior parte degli italiani, ma quest’anno mi permetto di asserire che ci possa essere ben più di un motivo per dare una sbirciatina alla 69esima edizione dei David di Donatello.

E questi, dirà qualcuno tra voi lettori, da dove spuntano fuori? Presumo che in molti siano ancora “a secco” sulla conoscenza del riconoscimento italiano più prestigioso, per quanto riguarda la premiazione della stagione cinematografica appena trascorsa. Perchè, è bene ribadirlo, i celeberrimi e tanto nominati Academy Awards, altresì noti come Oscars, celebrano innanzitutto (e soprattutto) l’industria americana. Al massimo possono essere ammesse co-produzioni europee, o meglio: riconoscere l’operato di artisti anglosassoni impegnati in loco (Christopher Nolan, di nazionalità inglese, vive e lavora oramai negli Stati Uniti, così come nel secolo scorso fece Stanley Kubrick, rimanendo in tema “Grandi Registi”). Oppure, come si è visto di recente, i giurati stanno prendendo decisamente gusto a rovistare e a prevalere il meglio offerto sul versante esotico dell’Estremo Oriente (Parasite e Everything Everywhere All at Once per ricordare gli ultimi conquistatori).

Per capire meglio l’importanza che qui da noi dovrebbero ricevere i David dal pubblico, basterebbe riflettere su alcuni esempi tratti dal mondo dello sport: chi non ha mai guardato i Mondiali di Calcio, anche senza essere un appassionato? E di rimando, come possiamo sminuire il peso per un ciclista nel vincere una grande corsa del calibro del Tour de France, o la gioia per un podista nel tagliare il traguardo della Maratona di New York, nonostante in pochi siano a conoscenza delle loro gesta? Per cui, venendo al nocciolo della questione: a livello mediatico, di marketing e all’indubbio valore per chi ha investito i suoi soldi in un film, una vittoria agli Oscar rappresenta una svolta nella carriera per qualsiasi maestrante dell’Arte del Cinema, sia esso nato negli Stati Uniti o nella piccola Corea del Sud.

Questo però non va minimamente a sminuire la necessità di dare “onori e oneri” allo svolgimento annuale dei David di Donatello: fin dal Dopoguerra (la prima edizione si svolse nel 1956, n.d.r.) hanno dato lustro, non solo ai grandi eroi nazionali che rispondono al nome di De Sica, Fellini e Bertolucci primi fra tutti, ma soprattutto a quei giovani e coraggiosi autori che piano piano cominciarono a farsi strada nel business. Non dimentichiamoci infine che i David furono un vanto (e non sono io a dirlo) per l’Italia durante gli anni d’oro tra Sessanta e Settanta, in cui il Cinema Italiano era riconosciuto a livello internazionale, amato e imitato come modello di qualità. Purtroppo siamo tutti a conoscenza del declino che prese poi piede sul finire del secolo e di conseguenza estendendosi nel nuovo millennio, fattore che non coincide con una minore qualità del prodotto offerto, ma semplicemente la globalità del mercato odierno ha tolto opportunità ai nostri autori di rivelarsi al mondo intero.

Autori i quali, però, attraverso appunto i David di Donatello, hanno saputo costruire una carriera di tutto rispetto: chi come Paolo Virzì è un ospite frequente in fatto di candidature, regista forse poco apprezzato all’estero ma indubbiamente i suoi film sono sempre sugli scudi quando escono nelle sale italiane (il successo de Il Capitale Umano nel 2013 gli ha tuttavia garantito una distribuzione in oltre 20 paesi). Altri invece hanno abbinato ai David una lunga trafila di riconoscimenti a corredo di una reputazione giunta fino alle orecchie dei tanto “presuntuosi” americani: è il caso di Paolo Sorrentino, già vincitore di un Oscar con La Grande Bellezza (Oscar al Miglior Film Straniero nel 2014, n.d.r.), senza dimenticare alcune personalità più legate alla tradizionalità di “casa nostra” come Nanni Moretti e Marco Bellocchio.

Quest’ultimo in particolare, a coda di una carriera iniziata nel lontano 1965 e lungi dall’essere terminata (dopo il successo de Il Traditore nel 2019, ha diretto una serie per la televisione ed è tornato a Cannes con Rapito nel 2023), è uno dei tanti che compaiono assiduamente sulle locandine dei festival più blasonati, similmente al collega Nanni Moretti, vincitore infatti della Palma d’Oro nel 2001. Nanni Moretti, curiosamente, è uno dei nomi di punta dell’edizione 2024, a fronte infatti di ben sette candidature ottenute grazie a Il Sol dell’Avvenire, film che oltre a segnare un gradito ritorno dell’autore a Cannes (Palma d’Oro nel 2001 per La Stanza del Figlio, n.d.r.), ha fatto centro al box-office nell’anno appena trascorso. Il totale ammonta a 4,2 milioni di euro incassati al botteghino nazionale e, nonostante possano apparire spiccioli se confrontati con i dati registrati dalla concorrenza più legata al cinema “commerciale” e meno “autoriale” (concedetemi i termini alquanto riduttivi), sono un buon indice di gradimento. Anche perché danno prova di un atteggiamento, oserei dire più serio e maturo, da parte del pubblico nostrano, a discapito infatti di una mentalità spesso remissiva e discostata verso quei film (e registi) abituati a concorrere nei Grandi Festival. 

Solitamente si è visto come lo spettatore medio sia maggiormente disposto a spendere un biglietto per quelle commedie figlie dello stile a là “cinepanettone” che hanno fatto la fortuna negli ultimi due decenni del secolo scorso. La quale atmosfera giocosa, infatti, riecheggia ancora in molte pellicole odierne, diverse sì nell’ambientazione ma che ne preservano quello spirito goliardico, frivolo e sempliciotto, quindi scevro da contenuti o argomenti cosiddetti “impegnati”. Proseguendo sulla scia dell’espressione “film impegnato” o parimenti “a sfondo socio-politico”, soprattutto se declinati con spirito e originalità nello storytelling, non possiamo non nominare un altro autore davvero visionario (per temi, personaggi ed estetica), già consacrato nel panorama nazionale: Matteo Garrone.

Anche lui protagonista di questa edizione, le 15 candidature ottenute per Io Capitano non hanno bisogno di spiegazioni: la pellicola, e qui saranno in molti a conoscere la sua storia fino ad oggi percorsa, ha rappresentato la (vana) speranza di un ritorno da trionfatori in quella luccicante Los Angeles patria degli Oscar, un vuoto che persiste ancora da quel lontano 2014, anno della vittoria de La Grande Bellezza. Al di là di questo piccolo dispiacere, è l’ennesima dimostrazione di forza di un regista che, alternando cult divenuti patrimonio della cultura narrativa italiana soprattutto in salsa crime con Gomorra (2008), e altri tentativi invece meno fortunati nel re-immaginare lo scenario nostrano come in Pinocchio (2019), ha saputo mantenere una cifra stilistica unica, in poco meno di 30 anni di carriera e 11 film all’attivo.

Dagli esordi con L’Imbalsamatore (2002) dove sperimenta la catabasi tragica e surreale di un outsider, chiuso nella sua ostentata passione/ossessione (il titolo aiuta a indovinare quale) e combattuto nella duplice veste di vittima/carnefice, riuscendo poi con maggior esperienza a rielaborare il concept anche di recente in Dogman (2018). Infine, cimentandosi in una narrazione corale, aperta a più popoli e persone: quelle del presente (Gomorra nella Napoli di oggigiorno), o in un passato anacronistico ma non per questo meno magico e appassionante (Il racconto dei Racconti, 2015).

Detto questo, trovo del tutto inappropriate (anche se comprensibili) le critiche che alcuni giornalisti hanno mosso all’alba dell’enunciazione delle scelte dei giurati: è inequivocabile il netto dominio dei grandi nomi dell’industria che si sono spartiti la grossa fetta di nomination, ma fermarsi qui nel ragionamento è alquanto limitante. Abbiamo già parlato di Moretti, di Bellocchio e di Garrone, a cui si aggiungono le 10 candidature di Io Comandante, che più che per il suo regista, Edoardo de Angelis, si guadagna la sua quota soprattuto per la statuaria presenza del suo indiscusso protagonista Pierfrancesco Favino, e la mai doma Alice Rohrwacher con 13 nomination per La Chimera.

Ultimo tra i grandi titoli di quest’anno, primo davanti a tutti per numeri anche in termini di soldi incassati al box-office, è l’exploit più sorprendente della stagione, o come tutti dicono, il “caso dell’anno”: C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Attrice di lungo corso e qui al suo debutto (fortunato appare quasi riduttivo, visti gli esiti, non solo commerciali ma anche sullo scenario politico): il suo film anche a distanza di mesi continua ancora adesso ad infiammare il dibattito pubblico. La sua storia è nota e ampiamente discussa, e non voglio essere io a riproporre la pappardella “trita e ritrita” che in questo periodo ha imbottito le pagine delle riviste: tra chi osanna il ritorno del “vero” cinema italiano (ma quando mai se ne è andato, mi verrebbe da controbattere) e chi lo ha strumentalizzato come mezzo di propaganda politica.

È sicuramente encomiabile che un film, per di più se diretto da una regista donna, abbia guadagnato così tanto in termini di visibilità, ma in tutta onestà questo è forse il titolo più altisonante tra i candidati: è sì accattivante e per certi versi geniale in alcune chicche di regia (la scena della danza tra marito e moglie, volta a mascherare allegoricamente le botte e i maltrattamenti subiti dalla seconda). Ma è altrettanto banale e scontato (l’uso della musica dei Rolling Stones è un trucchetto alquanto datato e abusato), frettoloso e incoerente in alcuni passaggi narrativi (la scena della dinamite, per chi lo ha visto, la dice lunga sulla credibilità).

Possiede sì una capacità di catching sull’audience, come direbbero gli inglesi: per come infatti la Cortellesi sia riuscita a parlare della Storia e allo stesso tempo del presente, condensando gli aspetti di entrambi i contesti in poco più di un’ora e mezza. Ma paragonare l’estetica, diciamolo sinceramente, da commedia un poco più seria delle altre, con la reale crudezza del neorealismo di Pasolini & Co. si rischia di sfociare in un campo pieno di trappole e tranelli… e forse è meglio bloccarsi qui.  

Per gli altri film, invece, non dovrebbe stupire il grande numero di voti ottenuti, anzi: sono semplicemente la prova che chi sta dietro alla cinepresa sono persone altamente qualificate e che il loro successo se lo sono meritatamente costruiti da sè, mettendosi in gioco e sporcandosi le mani sul set, per dirla in gergo. Se proprio qualcuno doveva commentare, più che lamentarsi del film della Cortellesi, mi sarei indispettito per la mancata nomination alla Miglior Regia per Edoardo de Angelis: che dopo essere stato incensato per le precedenti opere da colleghi quali Emir Kusturica (forse uno dei pochi autori di rilievo a livello internazionale provenienti dalla scena dell’Europa Orientale), questa volta rimane “in disparte”.

Nonostante in passato avesse già messo in bacheca una vittoria (alla Miglior Sceneggiatura Originale nel 2017 per Indivisibili, n.d.r.), due nomination sempre per lo stesso film, mentre quest’anno si deve accontentare delle categorie “di rimessa” come Miglior Produttore e il (quasi) trascurabile David Giovani. C’è chi ha anche sbattuto nella bolgia dei “dannati” Alice Rohrwacher, pure lei definita una scelta “scontata” da parte dei giurati: definirla una gigante dell’industria italiana appare alquanto esagerato, non solo per i suoi incassi modesti, ma la sua visione nel “fare cinema” è sempre stata (e per fortuna, aggiungerei) un’affare per pochi.

Uno sguardo delicato e fanciullesco nel ritrarre i paesaggi campestri a contorno della storia al centro del film, unito ad un tocco schietto e semplice per tratteggiare i personaggi umili e “contadinotti”, o meglio, un po’ fuori dal mondo (il protagonista di Lazzaro Felice, o quello interpretato da Josh O’Connor ne La Chimera, in concorso proprio quest’anno, sono esempi lampanti del suo stile narrativo). La Chimera è solo il quarto film, da lei sempre scritti e diretti, a 43 anni ancora da compiere; eppure vanta un riconoscimento prestigioso ottenuto a Cannes, il Grand Prix Speciale della Giuria (per Le Meraviglie nel 2014, n.d.r.), premio che valorizza l’indole da esteta dell’immagine: una cornice mutevole in cui racchiudere le vicende.

Non dimentichiamoci infine la nomination agli Oscar 2023 nella categoria Miglior Cortometraggio (Le Pupille), prodotto in prima persona da un certo tale chiamato Alfonso Cuarón… quattro Premi Oscar vinti, solo per precisare. Definire Alice Rohrwacher una raccomandata, o una sprovveduta baciata dal caso appare ingiusto: lei così come Garrone, Bellocchio e mettiamoci pure Moretti, non sono lì ad occupare la categoria Miglior Regia per nulla, anzi.

E in ogni caso, la giuria si è riservata la premura di aggiungere come quinto nome alla Short List quello di Andrea Stefano, a(u)ttore (ancora) poco noto nelle vesti di regista (è sua la firma del film Escobar del 2014, ma la critica allora non fu gentile). La svolta avviene proprio in questo ultimo decennio, quando smette di occuparsi di “recitazione” e tenta la via della “direzione”, dimostrando che per quanto inesperto i film “di genere” a tinte crime-noir sono “pane per i suoi denti”. La recente nomination ottenuta per L’ultima notte di Amore è la ciliegina sulla torta, concedendo in aggiunta al beniamino del pubblico Pierfrancesco Favino, l’occasione di cimentarsi in un ruolo lontano dai riflettori della fama, mentre per il suo autore è l’occasione di rivitalizzare un genere cinematografico altrimenti morto in Italia.

Sono pochi infatti i registi davvero impegnati nell’ambito del poliziesco vintage, con quelle atmosfere appunto un po’ datate: retrò, grezze e provinciali che solitamente apprezziamo nel contesto americano, sulla scia dello stile dei fratelli Coen (Fargo, se dovessimo trovare un parallelismo per la presenza del poliziotto come protagonista). Altri generi, come la fantascienza o ancora peggio il fantasy, rimangono un tabù in Italia: un passo falso assicurato per chi tenta disperatamente di provare a creare qualcosa di davvero serio e originale immischiandosi in una dimensione fantastica. Ipersonnia (2022), tra gli ultimi usciti di recente, vantava nel cast un attore “navigato” come Stefano Accorsi, e a malapena è riuscito a racimolare qualche migliaio (attenzione: non milioni) di euro al botteghino, per poi infine scomparire letteralmente nell’oceano di titoli sul catalogo di Amazon Prime Video.

Perlomeno, sull’altro versante, il thriller inteso in senso lato e declinato in tutte le sue molteplici sfaccettature (noir, giallo, poliziesco, horror, gangster e via discorrendo) sembra avviarsi verso la costruzione di un’identità propriamente nazionale. Tralasciando il modello “American Style” incarnato da Stefano Sollima, forse uno dei migliori nel cinema action (non solo regista del celebre Suburra, ma merita di essere riscoperta la pellicola d’esordio ACAB – All Cops Are Bastards), possiamo trovare tanti esempi locali di narrazione avvolte da fascino e mistero, capaci quindi di essere intriganti per quanto contorti, tragici e per alcuni spettatori atroci da guardare.

Atmosfere che traggono ispirazione sia dal grottesco a là David Lynch, fino alla cupa freddezza dello stile noir impersonato da David Croenberg nella realizzazione dei suoi due film più iconici in questo preciso ambito: History of Violence (2005) e La Promessa dell’Assassino (2007). Fra i più giovani e freschi di tanti elogi e nel contempo oggetto di sprezzanti attacchi, sono sicuramente i fratelli Damiano e Fabio e D’Innocenzo, mai candidati ai David di Donatello ma già in concorso per la Miglior Sceneggiatura al Festival di Berlino. Due autori pienamente ascrivibili nell’aggettivo “incompresi”, tuttavia qualificati a rappresentare il genere, anche sbagliando: la loro idea di cinema si colloca a metà strada tra i paesaggi periferici del Meridione, tanto cari al racconto della mafia italiana (Gomorra e Suburra primi fra tutti), ma non sdegnano nemmeno un lontano omaggio ai grandi prodotti della serialità come True Detective.

Ecco, forse loro sono tra i tanti nomi “italici” che vengono trascurati anno dopo anno dall’Accademia del Cinema Italiano, la fondazione che si impegna nell’assegnazione dei David… a cui si potrebbe anche aggiungere un certo Gabriele Muccino, guarda caso reo di aver accusato la commissione di favoritismi, se non addirittura nepotismo. Arrivare a pensare che in Italia si possa davvero fare lo sgambetto per questioni di politica e ideologia spicciola, purtroppo (e mi dispiace dirlo) non è una suggestione così distante dalla nostra realtà: il caso della televisione e delle nubi di tempesta che si abbattono puntualmente nelle sedi della RAI sono innanzi gli occhi di tutti. Tuttavia le precedenti edizioni dei David di Donatello hanno (e provato, al netto di difficoltà, anche e soprattutto economiche) a mettere in luce il lato bello del cinema locale: forse a volte con un’accezione più votata al gusto popolare piuttosto che al giudizio critico, ma la lista dei nomi presenti sono sempre stati, oltre che una costante qui da noi, un vanto nazionale nelle rassegne internazionali, europee e non solo.

Grazie alla categoria Miglior Regista Esordiente, a mio dire una grave lacuna assente in altri premi come Oscar o Golden Globe, si dà la possibilità agli autori emergenti di essere in gara, senza il rischio di venir esclusi o eclissati dai nomi più grandi. Qui invece mi pare corretto, in accordo ad una serie di commenti recenti, parlare della scelta discutibile di accorpare Paola Cortellesi e Micaela Ramazzotti nella suddetta categoria, assieme ad altri tre registi che, rispetto alle sopracitate “madrine del cinema italiano” sono essenzialmente (e per davvero) dei perfetti sconosciuti. Le due attrici, anche se sono effettivamente delle debuttanti, vantano una lunga scia di riconoscimenti dalla critica, dalla stampa e soprattutto dal pubblico; non solo, entrambe si sono già aggiudicate la statuetta per la Miglior Attrice Protagonista ai David di Donatello, a fronte di un ulteriore cospicuo numero di candidature. Per concludere: Paola Cortellesi non ha certo bisogno di uno slancio alla carriera, considerando che con commedie quali La Befana Vien di Notte, oppure proprio C’è ancora domani (restando sull’attualità) si è sempre ben disimpegnata ai botteghini nazionali con incassi ragguardevoli… e nel secondo film aggiungerei pure: eccome!

L’altro novellino è Giacomo Abbruzzese, in gara con Disco Boy (da notare che l’anno scorso fu l’unico film in selezione a Berlino) e forse meriterebbe un po’ più di attenzione dalla critica italiana (quella estera, invece, se ne è già accorta e l’autorevole The Guardian ha addirittura scritto una recensione), anche per compensare il magro bottino ottenuto nelle sale di poco superiore ai 50 mila euro. Il terzo “esordiente” è Giuseppe Fiorello, attore e personaggio televisivo sì di lungo corso, ma mai davvero baciato dalla fortuna o da notevoli picchi di notorietà.

Al contrario, se accostato al ben più celebre fratello maggiore Rosario, il quale invece passa con disinvoltura e altrettanto successo dalla musica alla radio, radunando a sé entusiasmo (e audience), per Giuseppe il bilancio della carriera dice poco o nulla. Presente in ruoli di secondo piano nei più disparati film italiani e non (fu nel cast di Il Talento di Mr. Ripley), ma mai davvero interprete principale o “volto copertina”.

Leggermente diverso il discorso sul fronte del panorama televisivo, dove viene spesso coinvolto nelle vesti di protagonista, recitando nelle innumerevoli produzioni (film o miniserie a fasi alterne) che assiduamente la RAI trasmette in prima serata, in memoria di un personaggio o di una data storica. Nel 2013, Volare – La Grande storia di Domenico Modugno lo vede infatti calarsi nei panni del cantante, e il successo della fiction è attestato dallo share raccolto nel corso delle due serate di messa in onda: 34% nella prima e 38% nella seconda. Il film da lui diretto e candidato al premio si intitola Stranizza d’amuri: non ritengo che verrà ricordato a posteriori e non aiuta il fatto che il plot, per nulla originale (ragazzi, estate, cotte d’amore… le serie teen-drama su Netflix, a quanto pare, non bastano mai) si accoda ad una lunga trafila di opere focalizzate sul turbolento mondo adolescenziale. Torna nuovamente la coppia di innamorati omosessuali e quel disperato tentativo di risanare la storia della narrativa passata parlando ora di questi argomenti, ma con ossessiva e ridondante ripetitività di schemi: come al solito si affronta il tema dell’accettazione, dell’integrazione e del riscatto.

Per carità: i temi sono sempre importantissimi e attualissimi ieri come oggi, per di più poi bisogna riconoscere al novello regista di avere compensato lo scenario vintage basato sul connubio mare/estate ambientando la vicenda nella Sicilia degli anni ’80, in concomitanza con lo svolgimento dei Mondiali di calcio del 1982 e ispirato al caso tuttora irrisolto del Delitto di Giarre (31 ottobre 1980, n.d.r.). La morale non è nulla di nuovo “sotto al sole” (scusatemi per il gioco di parole), quindi rimane piuttosto da valutare come Fiorello sia effettivamente riuscito a mescolare queste prevedibili suggestioni: dalla cittadina “fuori mano” nel profondo Meridione, il calcio come leitmotiv che scandisce le giornate d’estate e quel sottile riferimento ad una verità storica dimenticata e ora emersa tra le onde del mare.

La cinquina si completa infine con Michele Riondino: il classe 1979 è noto ai più per essere colui che ha vestito anni fa i panni del giovane Montalbano nell’omonima serie televisiva targata (manco a dirlo) RAI. Qui invece, sdoganandosi dal format della fiction all’italiana (è stato anche il protagonista della miniserie TV Pietro Mennea – La freccia del Sud), la quale non rappresenta sicuramente l’apice dell’aspirazione artistica, l’autore tenta la via maestra del cinema cosiddetto “politico” con Palazzina Laf. Calandosi anche nel ruolo dell’interprete principale, Riondino azzarda una sagace reminiscenza del neorealismo italiano partito da De Sica ed evolutosi con Fellini, per poi passare alla satira sociale tanto cara a Elio Petri (non a caso il tema del mondo del lavoro era il focus de La Classe Operaia va in Paradiso da lui scritto e diretto nel 1971).

Questa mescolanza di idee, dall’astratto al concreto, sono mosse da una vena poetica e surreale, dissolta nello sguardo critico e accorto sulla realtà nuda e cruda; atteggiamento il quale per molti osservatori presenta dei collegamenti con l’operato, per certi versi similare (anche se calato nella società inglese) del regista Ken Loach. Il film, tratto dal libro-inchiesta Fumo sulla città (2013) del giornalista scomparso prematuramente Alessandro Leogrande (1977-2017), affronta il taciuto e mai risolto problema del sistema ambiguo e contorto alla base del rapporto tra datore di lavoro e operaio dipendente, in uno scenario di scorrettezza, abusi e soprusi.

Una situazione di degrado mai davvero visibile ad occhio nudo e per questo poco dibattuta rispetto ad altre problematiche di oggigiorno; le quali invece continuano a ricevere molta più attenzione, e mi permetterei di dire morbosità da parte della popolazione, più interessata a seguire la cronaca nera o le “buffonate” del governo. La vicenda, ispirata ad una storia vera, sfrutta l’ambientazione frammentata di Taranto per dipingere il paesaggio urbano diviso tra l’area portuale e la zona industriale: un ecosistema sporco di contraddizioni e malumori, dove il popolo di lavoratori sventurati sono maltrattati e sballottati da “un posto all’altro” senza la garanzia di un domani assicurato.

Il fatto che la stessa Rai Cinema, in combutta con un’altra solida realtà produttiva quale Palomar (è anche sua il merito dell’ultimo successo in casa Sky Call My Agent, o molto tempo prima del fenomeno Braccialetti Rossi in onda su RAI in prima serata) si siano mosse in prima linea nella realizzazione del film è encomiabile. Questo fa capire che lo sforzo di portare nelle sale delle opere a sfondo sociale, come avveniva di frequente decenni addietro (ho citato Elio Petri, ma in Italia furono in molti, da Pasolini a Bellocchio, ad occuparsi di politica e sociologia), è notevole. Ma affidandoci ai dati numerici, freddi e incontestabili, l’incasso “penoso” di 700.000 euro mostra purtroppo l’andamento del mercato nazionale, in cui un certo tipo di cinema non riesce, né ieri né oggi, a fare breccia nel cuore delle persone.

Per tutti quelli che gridavano all’epifania, alla vista degli oltre 38 milioni di euro raccolti da C’è ancora domani, forse non hanno colto come il suddetto caso rappresenti un’eccezionalità (aiutato non poco dal governo, il quale ha promosso numerose iniziative soprattutto nelle scuole) piuttosto che un modello replicabile. Senza scordare che la sua regista si accomoda su un canovaccio di sicuro successo (almeno qui da noi) della simpatica e furbetta commedia a tinte melò, tanto cara (e amata) dallo spettatore medio, abituato al palinsesto quotidiano della televisione nazionale, piuttosto che alla frequenza di rassegne e festival cinematografici. Pur trattando con consapevolezza un tema importante come la violenza sulle donne e suggerendo la necessità di un’azione politica tempestiva, non lascia trasparire uno spiraglio di cambiamento nella gente: per chi lo ha visto, sa che la sensazione sul finale è più all’insegna della risata spensierata che di una presa di coscienza fervida e convinta.

Dispiace dirlo, ma scorrendo le liste pubblicate quotidianamente da Cinetel (società affiliata all’ANEC e all’ANICA, enti nazionali in rappresentanza dell’industria audiovisiva), in relazione agli incassi, ai biglietti venduti e agli spettatori presenti in sala, è facile notare un dominio delle pellicole d’oltreoceano. Dalle epopee di fantascienza (Dune – Parte 2 ha già superato i 10 milioni dalla première avvenuta il 28 febbraio) ai film di animazione: che da qualche anno non sono più un affare esclusivo della Disney, ma come testimonia il successo dei Minions (e ovviamente della casa di produzione Illumination Entertainment) sono di varia entità… e attualmente, il quarto capitolo di Kung Fu Panda procede a ritmo davvero spedito per essere l’ennesimo sequel di una saga iniziata nel 2008.

Nel mezzo si inseriscono di frequente film pienamente italiani sia nella produzione che nel cast, guadandosi spesso le prime pozioni nella Top Ten grazie al passaparola, ma soprattutto all’attrattiva degli attori che senza la loro presenza, non darebbero un valido motivo per accorrere a vedere storie e personaggi tutto sommato stereotipati. E’ per questo che Un Mondo a Parte, di e con Riccardo Milani (è abbastanza buffo notare che sia l’attuale coniuge della Cortellesi, quest’ultima già dominatrice dell’annata appena trascorsa), è riuscito ad afferrare lo scettro di “Primo Film Italiano” al box-office nazionale dal primo gennaio 2024 ad oggi (attualmente l’incasso nella quarta settimana di aprile si attesta sui 6 milioni e un calo di per sé ancora molto contenuto: un meno 42% che induce a penare che abbia le gambe ancora lunghe…).

Nel complesso, i David di Donatello guardano (direttamente o indirettamente) a questi numeri, forse non tanto alle commedie che raramente raccolgono premi e consensi (l’ultima a definirsi tale che vinse la statuetta al Miglior Film fu il pseudo-musical Ammore e Malavita nel 2018), ma comunque a quella fetta di film cosiddetti “pop” o “mainstream”, per usare un lessico sul generis. Con questi, mi riferisco a quelle pellicole che, furbamente, adocchiano ad un’estetica accattivante ed efficace anche nelle scene emotivamente più dure: è per questo che solitamente i film a stampo storico-drammatico ottengono facilmente un ottimo riscontro sia dal pubblico che dalla critica. Prendendo in esame l’edizione del 2024, su cinque candidati tre sono basati su fatti realmente accaduti: Rapito di Bellocchio racconta per iscritto la storia vera di Edgardo Mortara, preso in custodia dal Vaticano ai danni della famiglia di origine. Questo dà modo al suo grande autore di immettere nella trama innumerevoli spunti di critica, che possono valere nel corso dell’Ottocento (la vicenda si svolge nel 1851) così come proprio adesso (anche l’anno scorso Bellocchio affrontava la Storia con Esterno Notte, dove il caso Aldo Moro veniva reinventato nei fatti ma preservando lo sfondo storico, per poi porre una lucida e fredda esamina dell’Italia tra ieri e oggi).

C’è ancora domani invece, anche se presenta personaggi completamente immaginari, si affida a precisi riferimenti (sopratutto spaziali) legati al contesto socio-politico dell’Italia nell’immediato dopoguerra, nonostante l’ambientazione risulti infarcita da un gusto neo-barocco e deliziosamente retrò, inequivocabilmente anacronistico. Stessa cosa per Io Capitano, che pur ispirandosi solo liberamente alla tragedia giornaliera degli immigrati costretti ad emigrare dall’Africa, ha saputo raffigurare con vera poesia e sguardo incantato da impavido reporter il (meta)viaggio di Seydou (la giovane star), testimone votato a dare voce alle storie sommerse di molti conterranei.

Più variegata, se devo essere onesto, è stata la selezione di film negli anni precedenti: sempre affidandoci alla categoria per il Miglior FIlm come parametro di riferimento, gli ultimi vincitori retrocedendo di anno in anno sono stati rispettivamente, Le Otto Montagne, È stata la mano di Dio, Volevo Nascondermi e Il Traditore. Quest’ultimi due rientrano pienamente nell’etichetta della canonica biografia su personaggi storici (il pittore Antonio Ligabue e il mafioso Tommaso Buscetta), anche se i loro due autori (Il Traditore, manco a dirlo, è scritto e diretto da Marco Bellocchio) sanno come scardinarsi dai topos del genere. Mi verrebbe da definire più originale, invece, il processo dietro Le Otto Montagne e il film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio. Sono due pellicole dirette con personalità e per questo difficilmente classificabili: si collocano a metà strada tra la commedia allegra e spensierata come in una giornata, a seconda del caso, in montagna o al mare, drammatiche come la fine di un’amicizia o la morte di una famiglia, per poi immettersi su viali sconosciuti dove le immagini del paesaggio si confondono nei ricordi dei personaggi sullo sfondo. Un’altra costante è sicuramente l’appeal commerciale con la quale questi film vengono pubblicizzati: solo per citare il vincitore dell’edizione del 2023, Le Otto Montagne (interpretato da due grandi nomi del nostro cinema quali Alessandro Borghi e Luca Marinelli) è stato indubbiamente un successo straripante: 11,3 milioni di euro incassati nonostante fosse tratto da un “libretto” (di Paolo Cognetti, Premio Strega nel 2017, n.d.r.) e a fronte di un finanziamento inferiore ai 10 milioni.

Come concludere questo lungo approfondimento, in cui sì: mi sono permesso di divagare palesemente dal soggetto principale, ma il tentativo è stato (anche) quello di illustrare (o perlomeno rammendare) il contesto del cinema italiano all’alba dello svolgimento dei nostri “Oscar Nazionali”. Purtroppo il denaro conta eccome: innanzitutto nella fase di ideazione e produzione, dove nella stragrande maggioranza dei casi “comanda” Rai Cinema, delegando a ruoli di second’ordine le compagnie minori coinvolte in co-responsabilità.

E proseguendo così anche nella fase di distribuzione in cui intervengono le solite due/tre aziende leader del mercato, quali O1 Distribution per citare la più ovvia, che con il pieno supporto delle istituzioni portano quei film ad arrivare a stomaco pieno in concomitanza con la stagione dei premi, dopo aver infatti fatto piazza pulita al botteghino. Agli altri rimangono le briciole e per comprendere ciò, è davvero interessante leggere la statistica condotta dal fumettista Mauro Uzzeo (a lui devo un immenso ringraziamento, per essere stato il primo a parlare dei David sotto una luce attenta e diversa), in cui evidenzia il dato relativo alle nomination ottenute dai cinque film in gara nella categoria principe: su 105 candidature disponibili, 65 sono loro.

Per trovare un film davvero indipendente, come quelli che spessissimo affollano il podio agli Academy Awards negli Stati Uniti (mai come negli ultimi anni gli Oscar hanno rivelato perle “anti-sistema” come Nomadland, o prodotti esotici come i coreani Parasite e Everything Everywhere All At Once), bisogna scorrere in fondo alla lista. Alla voce del Premio per i Migliori Effetti Speciali, si scorge un titolo solitario (unica candidatura ottenuta): Denti di Squalo, passato in sordina nelle sale dei cinema durante il periodo estivo, ma che perlomeno ha ricevuto un caldo plauso dalla critica. Il film è uno dei tanti “figliol prodigo” della beniamina Lucky Red, realtà produttiva slegata appunto dagli enti statali (fu fondata da Andrea Occhipinti nel 1987 e tuttora rimane una società a responsabilità limitata), fautrice del compimento di alcuni dei film più gettonati ai festival europei (in modo particolare quello di Berlino). Tra cui, non scordiamoci, il gelido ma toccante Sulla mia Pelle (2018), interpretato da un sempre bravo Alessandro Borghi, ancora in procinto di diventare quello che è meritatamente adesso.

Riannodando i fili del discorso, appare evidente il bisogno urgente di sforzarsi ad aiutare nella maniera più opportuna (finanziamenti, marketing, pubblicità, ecc.) tutti quei film cosiddetti indipendenti: quelli che in Italia si potrebbero tradurre nell’espressione “non sovvenzionati dalle istituzioni statali e governative”. È vero: di recente si sono viste alcune soluzioni interessanti (almeno nella teoria) per invogliare il pubblico ad orientarsi verso prodotti locali, al di fuori dei soliti blockbuster americani, che convergono facilmente il maggior quantitativo di spettatori (soprattutto famiglie e orde di adolescenti, visto che: o trattasi di film di animazione, o cinecomic e più in generale opere a sfondo horror-fantasy).

Per esempio, la proposta del biglietto d’ingresso a prezzo ridotto non ha sortito nessun effetto… mi spiego meglio: nelle prime settimane alcuni film effettivamente hanno mostrato un lieve aumento nel numero di ingressi, ma sul lungo periodo questo non ha comportato alcun beneficio all’industria tout-court. (Per essere più preciso, il riferimento è alla campagna estiva “Cinema in festa” promossa dall’11 al 15 giugno, poi estesa fino al 16 settembre attraverso la seconda fase, in cui è stato riservato, solo ai film italiani ed europei, il biglietto a 3,50 euro).

Non mi stupisco quindi che in molti hanno azzardato ad affermare che la scelta di dimezzare il prezzo del ticket per i film italiani, abbia paradossalmente svalutato il loro grado qualitativo: quasi come se l’esperienza di vedere un film a 4 euro valga meno rispetto ad un film a 8 euro (ovviamente le cifre sono solo a scopo indicativo). Le soluzioni, ne sono consapevole, non si trovano da un giorno e l’altro e nemmeno rimanere qui a filosofeggiare a parole può davvero cambiare o migliorare le cose. Tuttavia, uno sforzo, anche se solo a livello cognitivo, è doveroso nei confronti del nostro cinema, auspicando che si possano trovare i mezzi, forse pure più economici rispetto alle idee fino ad ora suggerite, per dare il giusto (e necessario) aiuto nel promuovere pellicole di ogni entità, grandi o piccoli che siano.

Per fortuna, a loro modo (pregi e difetti ivi compresi), qualcosa stanno facendo da qualche anno le piattaforme streaming, a partire da Netflix e Amazon Prime Video: queste due in modo particolare, infatti, hanno sovvenzionato numerose pellicole (e ovviamente serie/miniserie) i quali autori (e spesso anche attori) sono italiani. Sulla falsariga di quello che da decenni fanno i festival attraverso le cosiddette sezioni autonome o parallele (nel caso di Cannes, è molto seguita la Quinzaine des Cinéastes), da cui emergono titoli frizzanti e davvero interessanti (i quali senza questo passaggio difficilmente avrebbero una proiezione pubblica), il supporto on-demand è forse la migliore vetrina per pubblicizzare le pellicole di oggigiorno.

Da una parte il motivo per cui queste multinazionali hanno accorpato nel loro catalogo prodotti, che ad una prima occhiata non trovano “una ragion d’essere” nelle logiche del mercato odierno (per contenuti, per stile e altro che va a cozzare con l’estetica pop delle serie di punta a cui normalmente l’abbonato si rivolge), è giustificata dalla necessità di diversificare (e allargare) il più possibile l’offerta. D’altro canto esistono da sempre una categoria di contenuti, film e serie, che per budget sono effettivamente indipendenti, nel cui staff produttivo si inseriscono realtà e autori novizi, dimostrando altresì una pretesa di farsi strada attraverso, non mezzi e strumenti costosi, ma con idee e trucchetti “artigianali”, tanto nella scrittura quanto nel montaggio.

Poco sopra avevo accennato al film Sulla mia pelle che fu distribuito, in concomitanza all’uscita nelle sale grazie appunto a Lucky Red, in streaming su Netflix, anche se questo fu a detta degli enti nazionali a tutela del mercato (ANEC, Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici, n.d.r.) una penalizzazione. Stessa cosa è accaduta di recente ad un altro grande film, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, vincitore tra l’altro di ben cinque David di Donatello (a fronte di sedici candidature complessive, ma forse ricordato più che altro per la nomination agli Oscar 2022), ritenuto svantaggiato a causa proprio dell’interferenza dell’azienda americana, che preferì adottare una distribuzione nei cinema limitata.

Per quanto questo possa danneggiare le pellicole con alle spalle una grossa produzione e una spesa ingente (il budget del film di Sorrentino ammontava a circa 10 milioni di euro, non proprio pochi per gli standard italiani), d’altra parte la mano (scusate il gioco di parole) di Netflix può risultare essenziale, se non salvifica. Giusto per avviarmi alla chiusura dell’articolo, vorrei tornare a parlare dei candidati ai David, dove possiamo scorgere in una delle tante categorie Mixed by Erry. Film il quale, anche se non prodotto direttamente dalla piattaforma streaming, quest’ultima ha garantito una visibilità e un indice di popolarità di gran lunga maggiore del previsto, nonostante non abbia avuto una finestra temporale nei cinema allineata alle altre pellicole di medesima “origine e provenienza”. Infatti, considerando che in molti altri casi il modello classico di distribuzione non ha lasciato ricordo nella memoria degli spettatori, scomparendo dalla circolazione senza che nessuno ne parli mai più, il qui citato invece si è preso una rivincita che persiste a distanza di un anno dalla sua pubblicazione (il 2 marzo 2023, n.d.r.).

“A suon di visualizzazioni” ha scalato fino alle prime posizioni della classifica dei prodotti più visti, ottenendo un successo traversale che può fare davvero bene alla sopravvivenza di un film sul lungo termine, per poi prenotare un posto nei principali premi nazionali (oltre alle due candidature ottenute ai David 2024, tra cui Miglior Sceneggiatura Adattata, si aggiungono tre vittorie su cinque nomination totali ai Nastri d’Argento, rinomati per essere il premio cinematografico più antico in Italia).

Non vorrei dilungarmi oltre, ma il film merita una breve parentesi, non fosse altro per dare il giusto merito al lavoro che oramai da più di 10 anni porta avanti con successo la compagnia di produzione Groenlandia (fondata nel 2014 da Matteo Rovere e Sydney Sibilia, quest’ultimo regista del film di cui qui sopra, n.d.r.). Non sono tanti gli anni di vita dell’azienda, eppure i suoi giovani imprenditori hanno regalato al pubblico italiano un’offerta davvero originale, che anche se in pochi casi toccano vette immacolate, hanno mostrato una via italiana parallela all’American Style. Avete presente quel gusto eclettico, quel melting-pot di culture e influenze, il cosiddetto tocco pulp a là Tarantino con tanta azione e perché no, sangue, epicità, dramma e ritmo al cardiopalma? Quella sorta di commistione di generi, che vanno dalla commedia de I soliti sospetti con l’umorismo di Kevin Spacey, per poi virare sul lato thriller tanto caro ai “drammoni” alla Clint Eastwood, infine ammiccare all’ambientazione cupa e opprimente dei grandi film d’azione di Zack Snyder e Christopher Nolan?

Ebbene, questi sono solo alcuni dei tanti aggettivi con i quali si possono qualificare le pellicole fino ad ora distribuite: dalla storia tragicomica di Smetto Quando Voglio che rielabora in maniera più felice il plot alla base della celeberrima Breaking Bad. Oppure all’epica mitologica di antica memoria alla base del materiale d’ispirazione de L’ultimo Re (diretto da Matteo Rovere nel 2019), che mischia la tragedia nostrana della leggenda latina di Romolo e Remo con la tradizione cinematografica dei grandi peplum hollywoodiani, in pieno stile “Il Gladiatore” ma con toni più tetri e criptici.

Mixed by Erry si colloca in una di queste tante definizioni: è una commedia dotata di carisma, non solo per il suo montaggio ma soprattutto per come gli autori hanno saputo scrivere una sceneggiatura dotata di ritmo e carattere (ricordate: si può fare un brutto film da una buona sceneggiatura, ma è impossibile fare un buon film da una cattiva sceneggiatura… l’ABC di ogni manuale di regia). È vero, questa e molte altre possono fin da subito connotare un sentore di già visto e sentito, rendendole infatti vittime di accuse per essere una “brutta copia” delle produzioni americane fatte da un gruppo di scalmanati italiani senza mezzi né talento.

Qui vorrei permettermi di assicurare che sarebbe meglio dare un’occasione alla filmografia della giovane compagine: effettivamente lo stile visivo sfrutta anonimamente molti trucchi tecnologici appresi mnemonicamente dal modus operandi dei macchinisti e professionisti nel settore statunitense. Ma la scrittura, in modo particolare, trasmette un gusto di autentica italianità: un linguaggio composto da parole, temi e contenuti che possono essere pensati e apprezzati in primis da noi conterranei.

In questo la banda capitanata da Matteo Rovere e suoi fidati collaboratori ha fin da subito confermato, continuando dal 2014 ad oggi a produrre film senza mai fermarsi… e ora passando pure al formato delle serie TV (la prima fu Romulus prodotta sulla scia del successo de Il Primo Re in combutta con Sky, giudicata positivamente per alcune peculiarità, come l’adozione del proto-latino nei dialoghi).

E se Netflix si è associata investendo nella loro crescita e offrendo uno spazio esclusivo sulla sua piattaforma online, qualcosa vorrà pur dire, o no? Per cui, ladies & gentlemen, siamo giunti alla fine: la morale, o come voi vogliate definirla, è che il cinema in Italia non è né vivo né morto… tradotto, non sta andando benissimo ma nemmeno male, anzi. Ci sono molte produzioni passate e altre in procinto di trovare il giusto finanziatore per nascere, che rinverdiscono di toni e colori il panorama nazionale, ma purtroppo non sempre hanno a disposizione il canale di distribuzione migliore. Quello che manca non è tanto l’inventiva, ma uno sbocco che possa davvero dare consistenza al lavoro di autori e attori, non solo in termini economici ma anche più occasioni di garantirsi premi e posti nei concorsi di tutto il mondo. Per fortuna questo già avviene (in un modo o nell’altro), soprattuto grazie alle rassegne promosse dai festival che sono i primi a selezionare film “di nicchia”.

Similmente, è il medesimo processo che adottano ora le piattaforme streaming, Netflix fra tutte, ma si intravedono ottimi risultati anche dalle produzioni di Amazon Prime Video (le serie sono ancora le preferite, ma piano piano cominciano a spuntare lungometraggi diretti da autori novelli, per ultimo: Il migliore dei mondi, una stramba commedia contaminata da un’atmosfera sci-fi e venature melò, che danno modo al comico Maccio Capatonda di sperimentare con il medium del cinema, dopo anni e anni passati a fare sketch su YouTube). Una parte nell’attività di promozione deve partire innanzitutto dalle giurie e commissioni a capo dei premi, che dovrebbero estendere la scelta dei candidati ad una varietà di film maggiore e meno elitaria (come si illustrava poco sopra nella statistica di Uzzeo nella partizione delle nomination nell’edizione di quest’anno).

Ma se vogliamo sollecitare un cambiamento, anche noi come pubblico pagante dobbiamo imparare ad addentrarci in altri mondi: non sempre verso ciò che l’algoritmo ci dice di guardare, ma tenendo sott’occhio le proposte più innovative. Non è detto che funzioni e non è detto che tutti potranno beneficiare degli stessi vantaggi, forse alcuni talenti rimarranno ugualmente soffocati dall’oscurità. 

Ma perlomeno altri, come si visto di recente, grazie alla lungimiranza del direttivo alla guida delle piattaforme streaming (le quali, non a caso, hanno aperto delle vere e proprie sedi dislocate sul territorio, al di là della base centrale in California) hanno avuto la loro occasione di prendere una videocamera e raccontare la loro storia.

Ora sta a noi dare una chance a costoro e forse qualcuno avrà le gambe abbastanza forti e lunghe per arrivare là dove brillano le luci della ribalta… se non quelle di Hollywood, perlomeno quelle di Cinecittà a Roma dove il 3 maggio si terranno i David di Donatello, non perdeteli!

Pietro

Studente di musica, appassionato di cinema e cultura, ciclista e runner per amore della montagna e della fatica. Laurea di Primo Livello in Organo al Conservatorio di Trento e attualmente iscritto al percorso triennale di Beni Culturali.

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