Il senso dell’esistere in Moravia

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, di Paul Gauguin, 1897.

La storia della filosofia tra ‘800 e ‘900 è caratterizzata da un minimo comune multiplo che consiste nella critica ai valori assoluti, conseguentemente riproponendo in tutta la sua forza la domanda sul senso dell’esistenza. Domanda che era stata, con tutte le dovute cautele, parzialmente eclissata dall’avvento della dottrina cristiana, la quale prevedeva un orizzonte teleologicamente orientato per il genere umano. Se i valori sono i criteri che indirizzano e dirigono l’azione dell’uomo nel mondo, fintantoché il fine ultimo da ricercare è stato chiaro, non è stato difficile trovare la strada da seguire. Fino a quando il cosmo umano è stato dominato da un’idea regolativa, certa e indiscutibile, si è potuto con discreta agevolezza tendervi, guidati appunto dai valori. Questi non erano visti come arbitrari, ma al contrario, come l’unica forma attraverso cui l’uomo poteva giungere alla realizzazione del suo essere. Tuttavia, nel momento in cui quel fine ultimo cessa di essere riconoscibile, venendo anzitutto messo in discussione, diventa a sua volta oscura la ricerca della strada da percorrere, aprendo in questo modo un profondo squarcio nel sistema valoriale umano. È proprio su questo terreno che si instaura la riflessione filosofica degli ultimi due secoli, che trova paradossalmente uno dei suoi iniziatori in un filosofo profondamente religioso come Kierkegaard, che, pur basando e instradando la sua intera riflessione filosofica sulla figura del divino, ammonisce a proposito dell’inconciliabilità tra valori umani e assoluto. Per il filosofo danese, vivere in maniera autentica sembra un’impossibilità esistenziale, poiché più ci avviciniamo all’assoluto, più ci allontaniamo dai valori che ci definiscono in quanto esseri umani. In questo senso, sembra che per vivere in modo autentico, si debba obbedire ad un dovere incompatibile con le condizioni all’interno delle quali noi uomini siamo costretti a vivere. Paradigmatico, è l’esempio kierkegaardiano di Abramo, che per obbedire a Dio, infrange uno dei valori che definiscono e contraddistinguono l’uomo – assurdo.

Nietzsche ritiene che i valori assoluti, derivanti tipicamente dalle religioni, siano dei costrutti che vanno a minare la libertà creatrice originaria dell’uomo, la quale è la chiave che muove la storia. Il filosofo tedesco ha lottato contro la concezione tradizionale di libertà, interpretando la tradizione filosofica e morale come ciò che ha rinnegato la vita in nome di una verità che in realtà è la negazione della vita stessa. C’è questa forte esigenza scettica di lottare contro le visioni metafisiche abituali, che partono dall’idea che la verità sia qualcosa di immutabile. Il problema centrale resta quello della verità: Nietzsche, non vuole disincentivare l’uomo dall’occuparsi del vero, ma vuole suggerire che la verità con la V maiuscola, è capovolta rispetto alle verità tradizionalmente esposte dalla religione. Ritiene pertanto, che sia necessario operare la trasvalutazione di tutti i valori tradizionali, al fine di liberare l’uomo da quelle dottrine morali che imponendo una condotta di vita, indeboliscono la vita ed esaltano la morte. Uno degli esiti fondamentali della filosofia nietzscheana è proprio quello di sostenere che la storia procede attraverso la valutazione e la svalutazione di valori, i quali non hanno esistenza assoluta, ma sono conformi ad una determinata visione che l’uomo si costruisce della realtà.

Lo snodo problematico, ma che al contempo, fonda il fascino della riflessione esistenziale contemporanea, è situato proprio qua: se i valori non hanno validità assoluta, che rapporto sussiste tra l’uomo e il mondo? Se, per dirla con un gergo pascaliano, l’uomo guarda le stelle e l’universo, ma le stelle e l’universo non guardano l’uomo, quale è il senso dell’esistenza e dell’azione nel mondo?

È proprio su questo terreno che si instaura la riflessione filosofiche di uno dei maggiori letterati italiani del Novecento: Alberto Moravia. Moravia, ne La noia, ci conduce mediante il protagonista del romanzo Dino, nell’analisi ontologica del significato che per lui aveva la noia. Per dirla con le stesse sue parole, la noia è «propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà […]. Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza» (pagine 7-8). La noia, pertanto, non è semplicemente e banalmente il contrario del divertimento, ma è un’insufficienza della realtà, una mancanza di rapporto e comunicazione con essa: in poche parole la noia fa apparire la realtà come assurda e totalmente slegata dalla vita, rendendo impossibile trovare significato e senso in ciò che ci è da cornice, e catapultando l’uomo in una dimensione esistenziale in cui mancano strutture e punti di riferimento.

Dino è un pittore che dipinge proprio nel tentativo di cercare di costruire, attraverso la pittura, un rapporto più diretto con la realtà, tuttavia, in modo a lui insoddisfacente. Infatti, già dalle prime battute, decide di smettere con la sua arte, velleitariamente cercando di essere più fedele alla sua natura; dipingere è diventato un imperativo categorico che si pone lui stesso, ma che non lo rappresenta più, poiché non è più in grado di metterlo in comunicazione con il reale. Solo quella modalità espressiva è riuscita, fino ad allora, a tenere Dino a contatto con il mondo, ma nel momento stesso in cui nemmeno la pittura è più in grado di assolvere a quella funzione, la sua vita inizia a perdere di senso e significato. Emblematicamente, dopo aver squarciato in un impeto di rabbia una tela alla quale lavora da almeno un paio due mesi, decide di firmarne una nuova: bianca e vuota. La appende nel suo studio, pensando a quella tela come il quadro che meglio gli è riuscito, in quanto descrive in modo maggiormente realistico il rapporto che sussiste tra lui e la realtà: il nulla. Quella tela, è per Dino, l’espressione maggiormente veritiera del suo modo artistico di esprimere il reale.

In questo momento di empasse esistenziale, Dino incontra Cecilia, una ragazza con la quale instaura una serie di incontri a sfondo sessuale. Il rapporto tra i due rimane sempre fermo al livello della carnalità, facendo regnare l’incomunicabilità. Cecilia viene descritta come una ragazza di poche parole, superficiale, evasiva, una di quelle persone che pur essendo in un posto, sembrano essere altrove e distanti; nelle pseudo conversazioni tra i due le risposte che regnano sono “non lo so”, “forse”, “uffa”, “non ho niente da dire”, e via dicendo. Cecilia sembra non possedere una volontà che porta con sé il nuovo, l’inatteso e l’inaspettato, parendo un semplice oggetto inesistente che si allinea alla scelta del suo padrone. Questa banalità porta Dino alla soluzione di liberarsi di Cecilia come se si trattasse di un oggetto, poichè le cose, per quanto le si possa possedere in modo esclusivo, rimangono sempre circondate da un alone di mistero e impenetrabilità, dovuta alla loro non-realtà. Questa distanza tra i due amanti non va che ad alimentare il sentimento di noia provato da Dino, che, nonostante i continui suoi tentativi di possederla sessualmente e non, si rende tragicamente conto della paragonabilità tra la persona dinanzi a lui e un meccano privo di qualsivoglia forma di personalità, volontà e realtà.

Imprevedibilmente però, esattamente il giorno in cui Dino decide di separarsi da Cecilia, scopre che in realtà ella non lo ama, e che probabilmente lo tradisce. Ecco che la ragazza acquista agli occhi del suo amante realtà, in quanto non è più completamente riconducibile alla sua volontà, ma diviene sfuggente; non è più un oggetto, bensì un ente dotato di volontà. Se prima Cecilia appariva a Dino incomprensibile poiché paragonata alla stregua di un oggetto, ora l’incomprensibilità deriva dalla distanza che Cecilia apre tra sé e il suo amante.

Detto altrimenti, il sospetto di tradimento, trasforma Cecilia da oggetto noioso e irreale a desiderabile e reale. Questo continuo fluttuare emotivo nella mente di Dino, dal considerare Cecilia prima noiosa, e poi reale, e dopo ancora noiosa, ripetutamente, è la dialettica che colora l’intera opera. Infatti, Dino passa diverse volte dall’annoiarsi perché Cecilia gli appare come un oggetto insignificante e privo di sussistenza, appiattito alla sua volontà, al soffrire perché la vede sfuggente in quanto dotata di una sua volontà reale, e per questo desiderabile. In entrambi i casi però, è come se Dino si sentisse lontano da Cecilia: «Cecilia, che mi era sembrata così desiderabile [ma lontana] sinchè avevo sospettato che mi tradiva, ora che mi ero convinto del contrario, era tornata ad essere un oggetto insignificante, presente forse alla percezione più superficiale dei miei sensi, ma non per questo veramente reale» (pagine 165-166).

Per Dino, Cecilia non è semplicemente una ragazza qualsiasi, ma rappresenta una grande metafora di quella che è la sfuggevole, indefinibile, intoccabile, inconscibile realtà del reale.

Moravia riprende qui delle tematiche tipicamente schopenhaueriane, secondo cui se non si può soddisfare la volontà si cade nel dolore, oppure, al contrario, il suo soddisfacimento, porta con sé il sentimento della noia. Schopenhauer, descrive la volontà come una forza di gravità metafisica, che fa si che le cose abbiano un peso nel mondo. Se la volontà è ovunque, essa non è qualcosa che non può mai essere soddisfatta una volta per tutte: La volontà diventa così la dimensione temporale dell’esistenza. Quindi, per l’uomo vivere significa soddisfare la propria volontà attraverso l’appagamento di qualche bisogno specifico, che nell’esatto momento in cui viene esaudito, fa sprofondare l’anima della noia. Moravia, a differenza di Schopenhauer, intende però la noia non tanto come il raggiunto possesso di una cosa, ma al contrario, come l’impossibilità di esercitare la comprensione di una cosa vista la sua non realtà. Nonostante questa differenza, la cosa interessante da tenere presente e che mi premeva sottolineare, è che sia per l’uno che per l’altro, la volontà che ricerca l’affermazione in qualcosa, sia nell’effettivo raggiungimento che nel suo contrario, conduce ad una situazione di sofferenza. Proprio quella situazione di sofferenza dalla quale Dino cerca sterilmente di sottrarsi, lo porterà ad utilizzare qualsiasi metodo per tentare di ricondurre Cecilia alla noia, e poterla di conseguenza abbandonare: prima con l’idea di ucciderla, poi con quella di sposarla. Tuttavia, i suoi vari tentativi di ridurre Cecilia ad oggetto privo di senso e significato, continuano a sfumare, per via dei continui incontri sessuali con altri uomini che lei continua a condurre. Dino, alla fine in un momento di completa irrazionalità, esasperato dalla costante condizione di sofferenza, tenta il suicidio.

In un rapido capovolgimento di scena, troviamo l’uomo che si risveglia in una camera d’ospedale, e inizia a contemplare disinteressatamente un albero che vedeva fuori dalla sua finestra, esprimendo così, il suo chiamarsi fuori dal meccanismo del desiderio inconciliabile: «non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell’albero, ossia ne avevo riconosciuto l’esistenza come di un oggetto che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia c’era e non poteva essere ignorato. […] Adesso contemplavo l’albero con un compiacimento inesauribile, come se il sentirlo diverso e autonomo da me, fosse stato ciò che mi faceva maggiore piacere. […] Qualsiasi altro oggetto, come mi rendevo conto, mi avrebbe ispirato lo stesso genere di contemplazione, lo stesso sentimento di inesauribile compiacimento. […] Questa contemplazione non avrebbe mai avuto fine appunto perché io non desideravo che finisse, cioè non desideravo che l’albero, o Cecilia, o qualsiasi altro oggetto al di fuori di me, mi annoiasse e di conseguenza cessasse per me di esistere. In realtà, come mi accorsi improvvisamente, con un senso quasi di meraviglia, io avevo definitivamente rinunciato a Cecilia; e, strano a dirsi, proprio a partire da questa rinunzia, Cecilia aveva cominciato ad esistere per me» (pagine 344-345-346).

Come avevo accennato prima, la figura di Cecilia esprime un grande affresco che descrive il rapporto conflittuale tra uomo e realtà. Fuori di metafora, l’adesione finale di Dino è quella di abbandonare la pretesa di possedere Cecilia, ovvero la realtà. Ciò significa che solo attraverso l’accettazione dell’impossibilità umana di possedere il reale l’uomo può procedere nella sua ricerca – solo rinunciando a possedere la realtà la vita è possibile. Esclusivamente attraverso l’accettazione dell’imperscrutabilità della realtà, Dino è in grado di ricominciare a cercare il senso della sua esistenza in pace – cosa che Dino fa guardando con occhi nuovi l’albero. La noia infatti, blocca l’uomo al segno – inteso come punto – dell’infinito che è la realtà; e solo liberandosi della noia il filosofo può trascenderne il limite e naufragare dolcemente nell’infinito.

Bibliografia essenziale:

Alberto Moravia, La Noia, 1960, edizione Bompiani.

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