L’asticella.

La notizia con cui, oggi, hanno aperto parecchi giornali italiani parla della “madre di tutte le bombe”, un’ordigno micidiale di fabbricazione americana nato nel 2002 e utilizzato ieri, per la prima volta, contro una base dell’ISIS in Afghanistan. Sulla pagina Wikipedia in cui si descrive la storia di questo ordigno (ebbene sì, esiste una pagina di Wikipedia sul tema) è descritta come una “tra le più grandi e potenti bombe mai costruite dagli Stati Uniti”. Forse Wikipedia non è la fonte più attendibile a cui guardare, ma se date un’occhiata ai principali quotidiani nostrani le notizie non sono molto diverse.

Come mai, una bomba prodotta nel 2002 è stata utilizzata solo nel 2017? Il fatto è che siamo, a detta di commentatori ed esperti, di fronte all’ordigno non-atomico più potente mai realizzato. Usare una bomba simile significa ricorrere ad un’arma, sì “convenzionale”, ma dotata di un potere immenso. E dunque bisogna usarla con un certo criterio (“da grandi poteri…”). Non solo: si tratta di un’arma psicologica prima ancora che di distruzione, di uno strumento nato per affermare in maniera netta una superiorità bellica incontrastabile, nato per creare sgomento nel nemico, in una gara “a chi ce l’ha più lungo”, tutta testosterone e poco cervello.

Ma è anche l’esito estremo di qualcosa di diverso: usare armi (ma anche metodi, tecniche, strategie) sempre più micidiali, sempre più estreme, porta ad un continuo innalzamento dell’asticella del “tollerabile”. Quante cose sono diventate tollerabili dopo l’11 settembre, per poi essere di nuovo condannate, ma che vengono rievocate ogni volta in cui “il nemico” compie qualcosa di particolarmente deprecabile? Ogni volta che una parte alza quell’asticella, automaticamente tutti gli attori si sentono legittimati a fare altrettanto: in questa gara al rilancio, tutto è consentito. Lo è la madre di tutte le bombe, così come lo è l’uso di gas tossico sulla popolazione (tanto l’altra settimana ad Idlib quanto nel 2013 a Damasco), i bombardamenti serrati, la distruzione degli ospedali, gli stupri, per limitarsi alla guerra in Siria, che però non è l’unica (in Congo, l’uso di bambini soldato; in Libia, i campi di prigionia per gli immigrati; nel Nord della Nigeria, i rapimenti e le rappresaglie di Boko Haram; in Yemen, la guerra che ha portato ad una gravissima carestia).

E, in questa folle sfida al rialzo, si innesta un altro problema che riguarda il modo in cui affrontiamo queste atrocità. Mi spiego meglio: spontaneamente, ripensando ai fatti di Idlib viene spontaneo ragionare attorno alle immagini, di quel bombardamento, alle foto che sono penetrate nelle nostre vite piuttosto che al bombardamento di per sé. Le immagini, non i fatti.

Ora, questo bizzarro scrupolo di coscienza si potrebbe risolvere dicendo che tutto sommato non è nulla di problematico: non solo quelle immagini sono il veicolo per mezzo del quale quei fatti sono penetrati nelle nostre vite, ma su quei fatti, più che denunciarne l’orrore, non si può dire molto senza risultare banali o retorici.

Tuttavia non sono sicuro che sia abbastanza:  di quei fatti ci preoccupiamo, di quei fatti inorridiamo, solo perché esistono delle immagini. Anzi: solo perché esistono immagini talmente forti, talmente atroci da bucare gli schermi e gettare una ventata di orrore nella nostra quotidianità, perlomeno per qualche giorno. Sì, perché quelle foto forse verranno ricordate così come ricordiamo quelle della morte di Aylan o del bambino coperto di sangue e calcinacci durante i bombardamenti di Aleppo. O della ragazzina che corre nuda in Vietnam.

O forse no.

Oggi servono immagini forti, “spettacolari” da un certo punto di vista, in modo da avere simboli capaci di suscitare sentimenti reali ma inevitabilmente circoscritti allo spazio di una fotografia. Questo riduce il nostro cordoglio, il nostro sgomento, solo a coloro che muoiano a portata di scatto: più in là, il nulla. Considerazione, questa, tanto banale e retorica quanto vera al punto che, oggi, è qualcosa di naturale, parte integrante dell’ordine delle cose: del resto, una sequoia che cade in una foresta senza che nessuno la veda, non fa rumore sebbene sia caduta. Qualcuno dice che (noi occidentali) non possiamo stare male per ogni morto, per ogni orfano, per ogni ferito perché “alla fin fine non siamo dei santi”. Però, se invece stessimo male per ciascuno di loro, considerando quel loro un “noi” morto o ferito o distrutto da una qualunque delle guerre che coinvolgono il nostro pianeta (ma, apparentemente, non il nostro mondo o, almeno, non il mondo di ciascuno di noi), non sarebbe più semplice porre fine a tutto questo?

Cecilia Strada, dopo la diffusione di quelle immagini, ha scritto su Facebook:

Le prime vittime di armi chimiche in epoca contemporanea che ho visto in foto erano quelle di Halabja, Kurdistan iracheno, 1988: cinquemila morti, e non dimenticherò mai la madre che muore cercando di proteggere suo figlio dal gas, con un abbraccio.
L’idea che bambini, uomini e donne vengano uccisi così ci fa impressione – e meno male; ci fa più impressione rispetto a quando muoiono sotto una casa bombardata che gli crolla in testa, perché? eppure se ci pensi sei morto uguale; la vera domanda, tuttavia, è: ci fa impressione, ma ce ne fa abbastanza? Ce ne fa abbastanza per riuscire a capire che non è questo o quel cattivo, questa o quell’arma, ma è la guerra che va abolita, perché la guerra è sempre questo: quello che ha gli occhi sbarrati finché non glieli chiudi, quello a cui non riusciresti ad aprirli perché sono distrutti, quello che non ha più la faccia? La guerra è. Ed è giusto che ci faccia impressione.

Domanda: ce ne fa abbastanza per convincerci a smetterla?

Quindi forse è giusto parlare delle immagini, senza le quali questi orrori sarebbero altrimenti ignorati, prima che dimenticati. Forse (ma è un forse meno convinto) è anche giusto che non ci siano le immagini di tutte le atrocità che si susseguono nella quotidianità di tanti esseri umani, i famosi “altri-da-noi”, perché altrimenti diverremmo subito saturi, incapaci di “stupirci” ancora, incapaci di inorridire. E quindi anche di riflettere, sebbene per un secondo, sul fatto che tutto questo non abbia senso.

Non ha senso uccidere in quel modo, come non ha senso morire di fame, o per una bomba che ti disintegra il salotto di casa, o per un barcone sul quale hai fatto salire tutta la speranza per un futuro diverso e che poi (infingardo!) non ha retto a quel peso.

Nulla di tutto ciò ha senso. Ma non ci sono immagini forti abbastanza per farcelo capire.

Emanuele Pastorino

Vivo a Trento, orgogliosamente come immigrato, da un po' di tempo. Membro dell'associazione Ali Aperte.

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