Lettera aperta al professore Orsini

Gent.mo Professore Orsini,

Le scrivo in risposta ad un Suo post durante una pausa dallo studio: sono un protostorico “ideologizzato” iscritto all’Università – prima di definirmi storico attenderò che mi rilascino la patente L10 (180 CFU) – e mi sono perso. Già, perso, perché con le elezioni che si avvicinano minacciose l’ideologia non riesce a indicarmi la via. Come molti cresciuti nel mito di Gaber e De André, sempre dalla parte del Gorilla, sono nato mentre il “Partito” moriva. La mia visione politica, miope e scancaciata, mi suggerisce solo pessimismo. Ma in una domenica di sole freddo mia sorella ha deciso di inviarmi il Suo post a rasserenare i cereali. E finalmente eccola, sulla via per la cucina, l’Alternativa. Come Saulo sono stato tentato di cambiare nome e citare le politiche economiche di Berlusconi e Renzi. Ma ho deciso di non farlo perché la sua alternativa mi sembra debole. Attraente sicuramente, ma terribilmente debole.

Sì, l’economia avrebbe risentito positivamente di capitali investiti e degli italiani ad acquistare libri e a mangiare al ristorante. Ma questo non avrebbe di certo ristrutturato un paese dall’economia in ginocchio. Sembra un poco utopistico pensare di risollevare l’economia puntando sui consumi privati dei cittadini, poteva funzionare per gli Stati Uniti del primo novecento, non per l’Italia dei primi anni duemila. Anche perché questa crisi non è una crisi dei consumi.

Certamente dare cento euro in più alle famiglie colpite dalla povertà suona filantropico, ma anche dare due euro al clochard fuori del supermercato è filantropia, eppure lui il giorno dopo è di nuovo fuori dal supermercato con il braccio teso. Quei soldi di certo non li avrà spesi in alcolici, o forse sì, ma in ogni caso la filantropia non è una risposta, è un palliativo. Una risposta è fatta con politiche economiche che investano nelle infrastrutture, lo diceva Keynes non io [nota dell’editore: lo sostengono anche pensatori contemporanei, come l’esperto di relazioni internazionali Parag Khanna in Connectografy], o nel settore pubblico, in ogni caso nel risolvere problemi strutturali del paese.

Ma su questi due punti io, ignorante, poco posso argomentare. E se avessi una risposta costruttiva e non una sterile ennesima critica non sarei seduto sulla terrazza di casa mia. Quello di cui voglio parlare è la sua critica a Gramsci, è la spiegazione di quell’orrore pedagogico della nota frase di Gramsci “odio gli indifferenti” e come questa si compone con la Sua Alternativa.

Quel discorso e la famosa frase nascevano in clima ben preciso: l’Italia del 1917. L’Italia era in guerra grazie ad un accordo tra primo ministro, sovrano e l’Entente. L’accordo, maturato a Londra, era stato un vero colpo di mano. Salandra aveva sorpassato il Parlamento, le istituzioni per ottenere l’ingresso italiano in guerra. Di quella guerra non mi interessa parlare, dovremmo conoscerla tutti. Ma quello che colpisce Gramsci di quell’Italia, molto lontana e diversa, era la passività delle masse. Era un’Italia che aveva ottenuto da poco il suffragio universale maschile, in mano ai liberali (erano gli anni di Giolitti, Salandra appunto e altri) che scoprivano appena l’industria. Tra quelli che contavano si discuteva sull’entrata in guerra, erano gli anni di neutralisti e interventisti. Sappiamo tutti come andò a finire. Ma a colpire di Gramsci quell’Italia, era il senso di ineluttabilità percepito dalle masse rispetto alle decisioni del Parlamento. La classe dirigente, scollata dal paese, troverà la guerra a bussare alla sua porta e sarà Lei a decidere, questo pensava il contadino, l’operaio, l’uomo comune illetterato. La maggior parte della massa percepiva la guerra come inevitabile, e per quanto fosse contraria si lasciò trascinare nel conflitto. E poi furono il radioso maggio, i sei milioni di morti della propaganda, la conquista del trentino e la vittoria mutilata. Ai posteri l’ardua sentenza sul conflitto, ma a rimanere il discorso di Gramsci. Un discorso che voleva responsabilizzare la popolazione, renderla consapevole di quanto fosse importante e della sua capacità di influenzare il corso degli eventi.

“Il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà”

Questo il significato del discorso, criticabile o meno. L’indifferente non è il nemico ideologico come Lei dice, non l’avversario politico. L’indifferente era l’uomo colpevole di non comprendere la propria responsabilità e il proprio peso sul corso degli eventi. Ci si può interrogare su quanto Gramsci avesse ragione rispetto agli eventi di quegli anni, ma non distorcere la natura della sua riflessione. Paradossalmente la Sua lettura è frutto di ideologizzazione. Sembrerà un gioco di parole ma la Sua è l’ideologia dell’antideologia, il pregiudizioso rifiuto di ciò che puzza di ideologia. Ma d’altronde è questa la Sua Alternativa: un’alternativa capace di svuotare del significato le idee politiche, spaventata dal solo aleggiare di una possibile accusa di ideologia.

L’Alternativa è seducente: il liberalismo delle idee, il riscoprire la bellezza dell’altro. Ma sono frasi totalmente prive di senso. Ciò che lei chiama ideologia non nega il rispetto, la possibilità di pensare e “scoprire la bellezza dell’altro”. Ad oggi l’alternativa estetica di sedersi al bar con un bel dolce vita nero urlando la lingua è fascista, in mezzo a un piccolo uditorio, e definirsi liberi pensatori fa gola a molti. Ma non è il libero pensiero, è stupidità. L’alternativa di predicare l’abbattimento dei muri, la libertà democratica mentre si organizza una marcia su Roma non è libero pensiero, semplicemente è anticostituzionale. Noi millenials, noi dell’Ulivo siamo stati addestrati a riconoscere l’ideologia dal supposto tanfo di odio. Ma in verità abbiamo solo imparato a confondere idee e ideologia, visione politica e ideologia. Cresciuti da una generazione che ancora ricorda il muro di Berlino, non poteva essere altrimenti. La vera eredità lasciataci dal Novecento è l’odio verso il mondo bipolare, ideologizzato. Ma quel mondo era il frutto della desemantizzazione delle idee politiche. O sei nero o rosso, ed esserlo dipende dal colore e il modello della giacca, dalla musica che ascoltavi, dalla droga che prendevi e l’alcolico che bevevi. Era il mondo del finale della guerra fredda, capitalismo o comunismo, la storia a uno dei due darà ragione. Ma le uniche eredità che abbiamo raccolto sono state il disamore verso la politica, il complottismo e la sfiducia nelle istituzioni, e prima di tutto la paura per qualsiasi cosa puzzasse di ideologie dell’odio. Incapaci di rispecchiarci in un’istituzione, pur vivendo nel paese della rappresentanza, abbiamo vissuto il doloroso paradosso del non essere rappresentati. Ora persi vaghiamo, timorosi di essere ideologizzati e in un pauroso vuoto di idee, spaventati alla sola idea di prendere posizione.

 

Trento, 03/12/17

Cielo

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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