La nostra responsabilità sulle morti in mare: dialogo alla Fondazione Demarchi, esperienze di vita vissuta

di  Emma Ludovica Breda

Fondazione Demarchi, 23.11.2017. Presenti Gennaro Guidetti (volontario per l’ONG Sea Watch), Raffaele Crocco, giornalista RAI e fondatore dell’associazione trentina 46° parallelo, Claudia Poscia, presidente dell’associazione Ali Aperte.

 

6 novembre scorso, 7 e 30 del mattino. Gennaro Guidetti, volontario dell’ONG tedesca Sea Watch si trova sul primo gommone che scende in mare. Devono soccorrere il barcone di migranti avvistato dalla guardia costiera italiana, dalla quale giunge la segnalazione – è a 30 miglia dalle coste libiche. Sul gommone di Gennaro sono in tre: lui e altre due donne, una addetta al soccorso e l’altra alla fotografia. Il gommone di Sea Watch inizia ad avvicinarsi, quando già i primi corpi senza vita iniziano ad affiorare al pelo dell’acqua. Gennaro e i suoi collaboratori trascinano sul gommone il corpicino di un bimbo già deceduto: avrà forse 2 anni. Altre grida. I migranti per lo più non sanno nuotare, quindi, come entrano in acqua, cadono a picco verso il fondo. Quando il mare ha ormai fagocitato la persona, solo allora si vedono le mani uscire dall’acqua, agitarsi disperate per poi venir sepolte per sempre nel cimitero che il fondale del Mediterraneo ospita. Nel frattempo, una nave della Guardia Costiera libica si avvicina al gommone da cui i volontari di Sea Watch stanno prestando i soccorsi.

 

 

Gennaro ci parla, visibilmente commosso, delle operazioni che seguono per soccorrere le persone ancora in mare: tenta di descriverci a parole cosa si provi nel dover scegliere chi salvare, se una donna sola, alla sua destra, o un gruppo di tre donne unite tra loro, alla sua sinistra. Per mere ragioni numeriche sceglie di salvare le tre donne e, come previsto, non fa a tempo a recuperare la ragazza sola. Solo lui, solo loro, possono sapere cosa si possa provare a dover selezionare tra uomini da salvare e da lasciar morire.

Nel frattempo, anche la Guarda Costiera libica inizia le operazioni di salvataggio, frustando e malmenando (così emerge chiaramente anche dalle riprese della giornata) i migranti soccorsi. Gennaro ci spiega – anche se non era difficile da immaginare – che, chi viene recuperato dai libici, verrà nuovamente gettato nelle carceri nordafricane da cui era finalmente uscito per intraprendere il viaggio sul barcone. Tant’è che un uomo appena trascinato sulla motovedetta libica tenta di buttarsi giù dalla nave, nel disperato tentativo di tornare verso il gommone di Sea Watch. Nonostante l’elicottero sopra di loro a pattugliare la situazione e la nave tedesca abbiano ripetuto in loop per svariati minuti alla nave libica di spegnere i motori, per non uccidere l’uomo, quest’ultima riparte alla volta della Libia. Il ragazzo è ora appeso alla scaletta sulla fiancata della nave: chissà per quanto potrà resistere, aggrappato con una mano tra la vita e la morte. O forse, tra la morte e la morte.

Il racconto sconcertante di Gennaro è seguito dagli interventi di Crocco e dell’avvocatessa Poscia, per porre in luce quello che è il ruolo delle ONG nel Mediterraneo e le sorti dei migranti una volta approdati in territorio italiano. Raffaele fornisce innanzitutto dei dati, sui quali iniziare a riflettere: nel 2016 sono state tratte in salvo dall’Italia più di 175 mila persone, grazie all’opera della Guardia Costiera, della marina militare e delle dieci ONG che perlustrano abitualmente la zona. Solo queste ultime, da sole, hanno salvato circa 46mila migranti da morte certa.

Crocco risale a quella che per lui è la causa di tale “giro di vite”, chiedendosi perché si arrivi a situazioni al limite dell’umanità come quella vissuta da Gennaro; lui risponde: “perché gli neghiamo l’accesso” -riferendosi a tutte le complicazioni che i migranti incontrano per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o per vedersi riconosciuta la protezione internazionale. L’avv. Poscia precisa che, nel 2009, la Corte europea dei diritti umani emise una sentenza che condannava duramente l’Italia per aver respinto un barcone carico di migranti provenienti dalla Libia, ricacciandolo verso le coste del Paese africano (caso Hirsi Jama, 2009). L’Italia avrebbe violato il divieto alle espulsioni collettive e la Corte ribadisce fermamente il principio di non respingimento, se il Paese di provenienza dei migranti riserva loro un trattamento inumano e degradante.

Per far fronte alla situazione comunemente giudicata emergenziale, Crocco ricorda amaramente l’accordo tra Unione europea e Libia, in base al quale i migranti intercettati in mare dalla guardia costiera libica sono riportati nei centri di detenzione del paese africano. A fine luglio, l’UE ha stanziato 46 milioni di euro per l’Italia, che sta finanziando e addestrando la Guardia Costiera libica. Da allora, le partenze dalla Libia sono logicamente diminuite, ma moltissime persone sono state rinchiuse nei centri di detenzione del paese, in cui è stato appurato si pratichino quotidianamente violenze, stupri e torture d’ogni genere. La Poscia fa emergere, a tal proposito, come, da previsione del Consiglio d’Europa, accordi tra Paesi membri dell’Unione Europea e altri in cui notoriamente si pratica la tortura, non dovrebbero essere rispettati. Anche in questo caso, l’Italia si macchia di palese violazione del precetto.

Come postilla, l’avvocato ricorda che all’art. 10 comma 3 della nostra Costituzione italiana possiamo leggere che lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha dritto d’asilo nel territorio della Repubblica […].

 

 

Le conclusioni del ragionamento sono quasi scontate.

Il giornalista RAI pone, inoltre, l’accento, sul fatto che tali scelte politiche siano, al di là di tutto, il frutto di una responsabilità comune, ricordando come, in uno stato democratico di diritto quale l’Italia, le scelte del legislatore negli ambiti più disparati rispecchino – o dovrebbero rispecchiare – la volontà dell’elettorato. Sia allora nostra responsabilità, dunque, anche in vista delle legislative del 2018, “tirar per la manica” i candidati, interrogandoli su quello che è il loro programma in tema d’immigrazione e come intendano muoversi a proposito. Parte della responsabilità in merito ricade senza dubbio anche sulle nostre spalle.

Gennaro, all’inizio dell’incontro, cercava di riportare la sua esperienza con Sea Watch nel salvataggio di vite umane, le cui sorti future sono, però, del tutto incerte. Egli, infatti, esprime tutta la sua preoccupazione per l’avvenire di queste persone: “Amico mio, adesso arriva il bello!”.

Claudia Poscia spiega, infatti, che il primo scoglio in cui il richiedente s’imbatte è la commissione territoriale, col compito d’esaminare la domanda di asilo o protezione, presso la quale sembra vigere la prassi del “diniego a tutta forza”; solo nella Provincia di Verona – aggiunge – i dinieghi sarebbero pari al 60% delle domande totali. Claudia ci dà alcuni indizi sulla sommarietà dei provvedimenti delle Commissioni: ad esempio, le interviste al richiedente, in cui racconta la sua storia e risponde alle varie domande, dovrebbero essere videoregistrate ove possibile, ma, in caso mancasse l’attrezzatura apposita (e capita spesso), si procede comunque. Per non parlare del decreto Minniti-Orlando, che alimenta ancor di più il senso di arbitrarietà, eliminando la possibilità per i richiedenti di fare ricorso in secondo grado contro un diniego in primo grado. Poscia sottolinea, infatti, come non tutti gli avvocati siano cassazionisti, dunque impossibilitati a presentare eventualmente ricorso in Cassazione (terzo grado), cui comunque si potrebbe accedere.

Nonostante la situazione generale sia a dir poco confusa, la serata si conclude spezzando una lancia a favore della Provincia di Trento, in cui soprattutto il sistema di prima accoglienza funziona a pieno regime, anche grazie ad associazioni come Ali Aperte e Centro Astalli che si spendono senza riserve per assistenza legale, lavorativa e quant’altro, nell’ottica di un’integrazione sempre più spontanea.

 

 

In conclusione una brevissima storia che Claudia ci racconta nel corso della serata.

Cristel è una ragazza camerunese. Il padre, un manifestante che protestava contro il regime, venne ucciso. Fu costretta, dunque, a lasciare il paese e a scappare via verso l’ignoto. Nel posto in cui arrivò subì più volte violenze, allora decise di tornare in Camerun. Ben presto capì che lì non avrebbe avuto vita facile e allora intraprese di nuovo la via della fuga: verso la Libia, prima, per sperare di arrivare in Europa.

Cristel è riuscita ad arrivare in Italia, in Trentino. Studia, va all’università e si è perfettamente integrata.

Cristel non ha rubato il posto a nessuno. È solo sopravvissuta alla vita che le è toccata in sorte.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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