Col senno di Poi: intervista a Giorgio Poi
di Valentina Chelodi
Per il nostro caro Giorgio Poi il Poplar Festival è stato il primo concerto a Trento. Non lo conoscete? Significa che non avete letto il nostro ultimo cartaceo! Molto male. Per rimediare andate a ripescarvi le presentazioni degli artisti, e ascoltate le sue canzoni dalla playlist di Poplar. Ma ora bando alle ciance, arriviamo al sodo e vi lasciamo alla breve chiacchierata che abbiamo avuto la fortuna di fare con lui. Di certo non ha esaurito la nostra curiosità, l’ha solo alimentata, ma speriamo di poterlo rivedere presto nella nostra città.
L’armonia viene prima di tutto nelle tue canzoni, tanto che il testo sembra un filo interverbale che le attraversa e si intreccia e si inserisce tra i vari piani musicali. Il discorso molto spesso si ingarbuglia, inciampa in giochi di parole ed assonanze. I tuoi testi trasmettono un’interiorità ricca di immagini e rimandi. Le emozioni vengono raccontate e si rispecchiano in dettagli e oggetti quasi trascurabili, penso per esempio a Tubature e Paracadute. Di cosa preferisci raccontare? Perché?
È una domanda a cui è piuttosto difficile rispondere, come se uno chiedesse per quale motivo tu sei fatto così. Le cose vengono abbastanza spontaneamente, uno dice una cosa perché la sta pensando, ce l’ha dentro al corpo e quindi la deve in qualche modo tirare fuori. Penso che la scrittura delle canzoni sia la stessa cosa. Non si sa da dove vengono le canzoni, uno se le ritrova un po’ in bocca.
Non mi piace viaggiare è forse un titolo un po’ paradossale per un artista che sembra incarnare l’odissea generazionale dei cervelli in fuga. La tua carriera è così internazionale che ti ha portato in Inghilterra, in Germania, in America e ad aprire i concerti dei Phoenix. La musica italiana con Calcutta parla di una ragazza italiana all’estero che ripensa nostalgicamente al nostro paese. Cosa porti dentro di quell’atmosfera straniera? E quale immagine di Italia secondo te emerge nella lontananza?
In realtà nella mia vita non ho viaggiato molto, mi sono trasferito in tanti posti ma viaggiare è un’altra cosa. Tra l’altro in quest’ultimo periodo la mia avversione è per il turismo e per il viaggio nel senso di spostamento soprattutto. Però non ce l’ho con un viaggio che sia un percorso personale che uno compie, ce l’ho con i due giorni a Parigi a vedere le attrazioni principali, in mezzo a orde di altre persone, senza portarsi a casa nulla. E ce l’ho anche con i check-in all’aeroporto, i controlli, li odio anche perché li ho fatti molto spesso vivendo fuori e tornando anche spesso in Italia. L’idea di Italia che mi sono fatta all’estero è un po’ mitizzata, come il ricordo di una cosa lontana, così come tutti possiamo mitizzare la nostra infanzia, la nostra adolescenza, un periodo precedente a quello attuale. Improvvisamente quello che si è lasciato sembra un po’ più dolce. Da lontano ho avuto questa sensazione che non era nostalgia, perché contemporaneamente ero molto contento per quello che trovavo lì, per tutte le cose nuove che vedevo. Insieme però nasceva l’entusiasmo per tutto quello che avevo lasciato, una cosa che non avevo veramente mentre frequentavo il liceo.
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