La Cina, gli uiguri e i campi di rieducazione

La storia insegna”, quante volte abbiamo sentito questa frase. Eppure, gli anni passano e l’uomo cade sempre negli stessi errori; non impara mai. Guerra dopo guerra, strage dopo strage, l’uomo persevera nella sua testardaggine e ignora deliberatamente gli insegnamenti provenienti dalle tragedie che egli stesso crea.

Non ci sorprenderà così sapere che è in corso un’altra crisi umanitaria: da aprile dell’anno scorso, infatti, migliaia di persone sono state arrestate nella regione autonoma cinese dello Xinjiang e sono state successivamente rinchiuse in campi di detenzione di proprietà del governo, con l’obiettivo di essere rieducate.

La colpa di queste persone è essere uiguri, ovvero di appartenere ad una delle 56 minoranze etniche ufficialmente riconosciute dalla Repubblica Popolare Cinese, che si differenzia dalle altre però per due caratteristiche fondamentali: lingua turcofona e religione islamica. Ulteriore elemento che la rende ancora più rilevante agli occhi del governo cinese è la presenza al suo interno di un forte movimento indipendentista con cui più di una volta è arrivato allo scontro violento; il caso più emblematico è certamente quello del 2009, quando circa 200 persone hanno perso la vita.

Tradizionalmente gli uiguri abbracciano una visione dell’Islam moderata, ma recenti influenze provenienti in particolare dal Medio Oriente hanno portato ad alcuni casi di radicalizzazione. Da qualche anno, infatti, è stata segnalata la presenza di mujaheddin uiguri sul fronte siriano e di loro contatti con gruppi estremisti quali Al Qaeda e i talebani in Afghanistan. A seguito di questi episodi il governo cinese ha inasprito la sua lotta contro il fondamentalismo islamico, facendo così di tutta la minoranza uigura un target.

All’inizio sono stati proibiti i segni visibili di fede, quali la barba lunga per gli uomini e l’hijab per le donne; poi è stato il turno dell’osservanza del Ramadan, del cibo halal e, infine, dell’istituzione di un registro ufficiale a cui è necessario iscriversi per continuare a frequentare le moschee. Chi non rispetta queste ordinanze, o compie altri atti che potrebbero insinuare un “forte” sentimento religioso, viene automaticamente rinchiuso in questi centri rieducativi. A volte basta davvero poco: fare visita ai parenti all’estero, indossare magliette vagamente riconducibili all’Islam o addirittura pregare in casa propria davanti ad ospiti.

Purtroppo non si hanno ancora dati certi su cosa avvenga all’interno di questi campi di detenzione: gli unici elementi che si hanno provengono dalle testimonianze degli ex detenuti. Secondo queste dichiarazioni i prigionieri sono costretti ad elogiare il Partito Comunista, prendere lezioni di cinese mandarino, intonare cori patriottici, conoscere il pensiero e la politica adottata dall’attuale presidente cinese Xi Jinping e confessare le loro “trasgressioni”, anche tramite il ricorso a torture psicologiche (vestiti troppo leggeri, condizioni igieniche squallide, separazione netta e prolungata dalle proprie famiglie) e fisiche come aggressioni e waterboarding (pratica in cui l’individuo viene immobilizzato con i piedi più in alto della testa e gli viene versata acqua sulla faccia). In tutto ciò, le autorità non forniscono alcun documento ufficiale alle famiglie né notificano loro la durata del periodo di detenzione dei loro cari.

Nonostante il crescente interesse di varie organizzazioni ed enti per la tutela e la difesa dei diritti umani, la Cina non replica in maniera esaustiva, ma anzi accusa i paesi occidentali di doppiopesismo opportunista; ovvero di considerare gli estremisti islamici dei terroristi quando sono in Europa e America, ma degli oppressi quando sono in Cina. Il 31 agosto del 2018 poi, ad un’udienza dell’ONU riguardante proprio l’eliminazione delle discriminazioni razziali, il rappresentante del governo Hu Lianhe ha negato che siano in corso sia detenzioni arbitrarie sia violazioni dei diritti di alcun tipo, in quelli che ha definito come “centri di istruzione vocazionale e di addestramento al lavoro”.

Rimane il fatto che ciò che sta accadendo agli uiguri è un fatto molto grave e degno di maggior visibilità internazionale. Intere famiglie vengono separate giorno dopo giorno, i bambini privati dei genitori vengono messi in appositi convitti sempre più affollati, i mezzi di comunicazione sono sotto controllo costante delle forze dell’ordine e basta un minimo sospetto per sparire irrimediabilmente per mesi, se non anni, senza alcuna possibilità di difendersi dalle accuse in un regolare processo in tribunale. Quello a cui stiamo assistendo è ancora una volta un progressivo e sistematico tentativo di cancellazione dell’identità culturale e religiosa di un intero popolo, messa in atto proprio da chi dovrebbe preservarla in quanto organo governativo. “La storia insegna” ma l’uomo non ascolta.

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