Il giornalista-artigiano

Essere unici, pensare con la propria testa e sperimentare il giornalismo da “ribelli senza causa”. È questa la filosofia di Toni Capuozzo, giornalista italiano, inviato di guerra nei più caldi scenari internazionali e vicedirettore del TG5.
È lui il protagonista della conferenza “Toni Capuozzo: l’artigiano del giornalismo”, tenutasi venerdì 25 ottobre nel palazzo della regione di Trento ed organizzata dall’Associazione Stampa della Provincia di Trento, in collaborazione con il sindacato regionale giornalisti, la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti e moderata dalla Presidente di Assostampa Patrizia Belli. Toni Capuozzo torna nella città che nel 1969 lo ha accolto come giovane studente di sociologia, incuriosito da quel clima sociale e politico che ispirerà il suo libro “Andare per i luoghi del ‘68”; questa volta però, è qui per presentare la sua visione sulla figura professionale del giornalista e mostrarne il ruolo nello scenario moderno.

Capuozzo parte dalla sua definizione di giornalista-artigiano: crede infatti che il giornalismo debba riappropriarsi dell’umiltà dell’artigianato, per poter leggere la quotidianità con gli occhi di chi vuole sempre imparare e il buon senso di chi sa che la conoscenza è data dall’esperienza e non dallo studio. Lui di esperienze da raccontare ne ha sicuramente tante. Il suo primo lavoro è stato presso il giornale “Lotta continua”, come inviato in America Latina: è da qui che è iniziata la sua passione per il giornalismo e in particolare per la figura dell’inviato di guerra, anche se non è così che gli piace definirsi perché “non sono io lì che faccio la guerra”. Importante è stata anche la sua collaborazione con Mediaset, che lo ha portato a seguire i conflitti in Medio Oriente, Afghanistan, Somalia, ex-Jugoslavia e Unione Sovietica, senza dimenticare le sue inchieste sulla mafia per il programma televisivo “Mixer”.

Ripercorrendo alcuni degli innumerevoli eventi che lo hanno coinvolto, arriva a parlare anche di quelli che invece lo hanno sconvolto; come lui stesso afferma, ci sono esperienze che cambiano il nostro modo di vedere la vita, che fanno apprezzare la sua bellezza ma hanno anche un sapore agrodolce. Queste con il tempo lo hanno allontanato dalla “sbornia illusionista” come lui la definisce e gli hanno fatto assumere uno sguardo più disincantato sul mondo. E’ accaduto a Sarajevo nel ‘93, per esempio: mentre registravano da giorni le stragi e gli scoppi delle bombe, ha sentito l’esigenza di fermarsi per strada e filmare due anziani che pacificamente svolgevano un’azione quotidiana: raccogliere dell’erba intorno ad una rotonda. I due, ad un certo punto si accorgono di essere ripresi e chiedono al giornalista di continuare, perché volevano che la loro voce fosse ascoltata e che tutto il mondo sapesse della loro situazione. Toni Capuozzo ricorda quell’appello così speranzoso con grande amarezza: era consapevole di non poter rispettare quel patto perché quella piccola storia, rispetto al fragore della guerra, sarebbe stata così poco considerata dal mondo tanto da mettere in dubbio che sia veramente accaduta.

La forza motrice del giornalista, però, sta anche in questo, nell’“essere felice di raccontare una storia, un filo nel corso di un avvenimento”, perché quella storia rappresenta uno spaccato irripetibile della vita di qualcuno e permette al giornalista di diventare il megafono di quelle voci poco ascoltate. Questo rappresenta, per Capuozzo, la vera etica del giornalista. Il suo metodo è infatti quello di un giornalismo senza parte, non votato alle esigenze del mercato o alle varie bandiere politiche ma basato sul racconto delle storie, a volte proprio quelle più scomode che non finiscono sotto la luce del riflettore ma che offrono un quadro completo e vero del reale.

A Capuozzo, infatti, il giornalismo moderno non piace: lo ritiene troppo appannato, frettoloso e superficiale, “simile ai fast food” e figlio di una società che non si fa domande perché non vuole essere scomoda con se stessa e per questo, preferisce dimostrare tesi già sicure. Un giornalismo percorso anche dalla rivoluzione tecnologica, che porta con sé la formidabile libertà di scrivere senza censure e senza editori ma che cela, dietro questa libertà, l’ombra dell’anonimato che alimenta la mancanza di responsabilità. Ciò che Capuozzo del giornalismo in rete non sopporta è la mancanza di caparbietà, frutto dell’esigenza di pubblicare notizie in modo frenetico, quasi nevrotico. La pervicacia è invece per Capuozzo una delle doti più importanti per un giornalista: l’insegnamento migliore che poteva lasciarci è quello di pensare sempre con la nostra testa, nel rispetto della nostra unicità. In un certo senso, dovremmo semplicemente seguire il suo esempio, perché Capuozzo è quel tipo di giornalista che si fa trovare dove c’è una storia da raccontare deve raccontare una storia, con la sua faccia un po’ arrogante a mostrare l’altro volto della medaglia del giornalismo, tutto quello che gli altri dimenticano o vogliono dimenticare.

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