Un pensiero per affrontare il 2020 (e la sessione)

Il tempo è la nostra ossessione. Siamo circondati da concetti e oggetti che servono a misurare, a parcellizzare e scomporre la nostra esistenza in tanti micro-eventi. Questi scandiscono quello che chiamiamo tempo: la successione di unità, la misura di un processo esterno.

Questo è il tempo che Bergson chiamava “spazializzato”. Cosa intendeva? Intendeva dire che quasi sempre pensiamo al tempo in modo scomponibile, come se il tempo avesse un’estensione spaziale, come se fosse divisibile. Questo è infatti il tempo della scienza, quello che scorre rigido e sempre uguale a sé stesso, è una grandezza misurabile come la lunghezza di un campo da tennis. Visto in questa prospettiva il tempo non ha nulla di speciale e tutta l’enfasi riservatagli dalla poesia e dall’arte non sarebbe giustificata.

Ma noi avvertiamo che il tempo non è solo questo. Sappiamo che ha poco senso andare in giro dicendo “buon anno”, come se qualcosa cambiasse davvero con l’arrivo del 2019. Solo perché a causa di una convenzione ci ritroviamo a cambiare anno, non significa che quel cambiamento avvenga al livello esistenziale. Ecco il punto: il tempo convenzionale, quello misurato dall’orologio e dal calendario, non ha niente a che fare con la nostra esistenza, con il nostro essere individui.

Questo può sembrare paradossale visto che il tempo ci domina, ci forza ad essere in orario, ci costringe nella puntualità, nei ranghi della ripetitiva e sempre uguale a sé stessa routine per cui abbiamo sacrificato il tempo vero. Accanto al tempo dell’orologio ce n’è un altro: il tempo dell’esistenza. Esso non ha nulla a che vedere con la misurabilità, per una ragione precisa: possiamo misurare solo se abbiamo a disposizione delle grandezze omogenee, se possiamo scomporre una grandezza in parti uguali l’una all’altra, se possiamo trovare una unità di misura. Ma il tempo della vita è per definizione eterogeneo. 

Questa dimensione temporale, che Bergson chiamava Durata, è la differenza pura, nel senso che dalla sua prospettiva non è possibile trovare niente di unificante, niente che sia un possibile metro generale di misurazione. Il tempo dell’orologio ci domina, è vero, ma lo fa al livello più superficiale.

Il vero tempo, non si calcola in secondi, settimane o anni ma in punti di rottura dell’anima, nelle fratture della nostra vita, negli strappi nel tessuto narrativo della nostra storia biografica. 

È questa dimensione temporale che ci permette di ammirare lo svolgersi dell’esistenza da un punto di vista profondo, perché solo attraverso il suo filtro riusciamo a vedere i veri sfasamenti, i veri cambiamenti epocali nella vita di un uomo che non corrispondono all’inizio di un nuovo anno o di un nuovo mese o al proprio compleanno.

L’orologio e il calendario, anche quelli biologici, sono orpelli contingenti (ma non per questo inutili, eh) che ci fanno perdere di vista il tempo profondo della nostra coscienza, la durata della nostra individualità. Ogni momento della nostra vita è talmente unico e individuale che è strutturalmente impossibile misurare la nostra anima, calcolare la durata di una vita. In questa percezione del tempo si realizza l’esistenza, al suo interno è possibile che si verifichino delle esplosioni spettacolari, delle svolte epocali.

L’esistenza non si conta in anni ma in traumi. I punti di riferimento non sono gli anni che scorrono imperterriti e alla stessa velocità sotto di noi; sono le persone che conosciamo, quelle di cui ci innamoriamo, quelle che perdiamo, gli addii che diamo, le idee che incontriamo, le storie che ci sconvolgono. La fine dell’anno è solo un momento da prendere come spunto per rimettere in discussione il vero tempo interno che ci definisce come esseri umani. Io sono le storie che mi colpiscono, le lacrime versate sulle spalle dei miei amici, i film che mi fanno commuovere, le idee che mi aprono interi universi. Io sono le esperienze travolgenti che faccio, che non a caso diciamo che ci cambiano la vita.

Scavano dei solchi dentro di noi. Si impongono. Dopo di esse non si torna indietro.

Per questo dobbiamo vivere come diceva Nietzsche, così intensamente che se ogni nostra azione dovesse ritornare infinite altre volte, ne saremmo gioiosi; come diceva Orazio, “cogliendo il giorno”, riempendolo di produzione, intensità, di picchi di individualità, di abissi di umanità. Agiamo come diceva Seneca, non aspettando nella routine che le lancette dell’orologio diventino le pale che scavano la nostra tomba. Glorifichiamo ogni attimo come se fosse l’ultimo, o meglio, come se fosse il primo di una serie di ricordi che continueranno a cambiarci la vita ogni volta che faremo un passo avanti grazie a loro stessi, quando ci ripenseremo, quando ne faremo esperienza di nuovo.

Non contiamo la nostra vita in anni. Contiamola in momenti, contiamola in cadute, in trionfi, in commozioni, in risate e pianti. Quindi vi auguro un buon 2020 (e buona sessione). Vi auguro che sia un contenitore ricco di durate, ricco di tempo. Riempite questo 2020 di voi, di quello che potete essere solo e unicamente voi con la vostra vita. Siate la vostra vita, non lasciatela sfuggire nella routine.

Buon VOI.

E buona sessione.

Angelo Andriano

Nelle feste piccole, non c'è intimità.

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