Messico e muralismo, 1920: una data, due rivoluzioni

“Roaring Twenties”, quale espressione più calzante per descrivere il roboante entusiasmo che si sviluppò nel corso della prima metà del secolo scorso? Avanguardie storiche, cinema sperimentale, media e manifesti pubblicitari, charleston, pailettes, jazz sono solo alcune delle parole che da sempre riempiono il cuore dei più nostalgici. Ma siamo davvero sicuri che l’unico modo per leggere i “ruggenti anni venti” sia lo spirito da Grande Gatsby? Se provassimo, per un momento, ad allargare il nostro orizzonte geografico resteremmo sorpresi nello scoprire che, a pochi chilometri dalle sfavillanti metropoli statunitensi, un altro “ruggente secolo” prendeva avvio in Messico.

Il 5 settembre 1920 viene eletto presidente del Messico Alvaro Obregón, ex comandante dell’esercito costituzionale messicano e militante esponente del PRI (partito rivoluzionario istituzionale). Solo un anno dopo, nel 1921, Obregon  nomina Segretario della pubblica istruzione (SEP) José Vasconcelos con cui prende avvio una nuova stagione artistica e culturale. Uno degli esiti più eloquenti della politica illuminata di Vasconcelos è, senza dubbio, il muralismo messicano. Nel 1923 Vasconcelos commissiona a Diego Rivera, Josè Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros la realizzazione di tre grandi cicli murari che decorassero le pareti di alcuni edifici pubblici di Città del Messico, concretizzando gli ideali di pubblicità di fruizione promossi dal governo post-rivoluzionario.

Il muralismo messicano non è solo l’esito di nuove ricerche stilistico-formali, ma un radicale ripensamento della funzione sociale dell’arte: se i contemporanei movimenti di avanguardia avevano deliberatamente escluso dai proclami dei loro manifesti il coinvolgimento delle masse popolari in favore di un’arte che si emancipasse sempre di più dai condizionamenti sociali imposti dal grande pubblico, il muralismo scelse di intraprendere una strada diametralmente opposta, sostenendo un’arte che ritornasse ad essere pubblica. Alla rinnovata funzione civile dell’arte si aggiunse un altro fattore determinante: un nuovo sentimento nazionalistico. Questo portò i muralisti ad indagare retrospettivamente le tappe della storia del Messico fino a risalire alle radici della propria cultura individuate nelle popolazioni precolombiane.

La “scoperta degli indigeni” fece sì che il Messico cominciasse a percepirsi come Nazione autonoma, slegata dalle ingerenze della cultura statunitense e forte di una storia e una tradizione ben radicate. Arcaismo e passato rivoluzionario, colonizzazione ed emancipazione in senso nazionalistico, rifiuto delle incursioni statunitensi e recupero delle forme d’espressione dei nativi americani si fondono nell’accecante repertorio figurativo dei grandi cicli di affreschi che a partire dagli anni Venti comincia a popolare gli spazi pubblici di Città del Messico per spingersi poi, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, oltre i confini autoctoni verso i tre fari della “americanità”: San Francisco, Los Angeles e New York.

L’arrivo dei muralisti negli States influenzò in maniera significativa sia sul piano formale che su quello ideologico gli sviluppi dell’arte statunitense, e, per osmosi, anche quella degli artisti europei che proprio in quegli anni si erano trasferiti a New York diventata ormai la capitale culturale d’inizio secolo. Il muralismo messicano rappresenta un momento di svolta nell’evoluzione dell’arte del XX secolo ed è in questi termini che deve essere ricordato in contrapposizione alle tendenze “occidentalizzanti” che hanno ingratamente tentato di occultarlo.

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