Quando avere un utero non basta a farti capire l’importanza dell’aborto

In Italia l’interruzione volontaria di gravidanza è stata legalizzata nel 1978 con la legge 194, a seguito di battaglie da parte dei gruppi femministi e dei radicali italiani. E’ una pratica gratuita, anche se il capo della Lega Matteo Salvini ha avuto da ridire a riguardo, e che garantisce la massima privacy. Si può effettuare entro 90 giorni: dopo i primi 7 giorni con la pillola RU486, entro 12 settimane e 6 giorni con un intervento chirurgico. Può però essere soggetta ad obiezione di coscienza da parte dei medici, a meno che la salute della donna o del bambino non siano in pericolo. E’ prevista anche la contraccezione d’emergenza, con la “pillola del giorno dopo” e la “pillola dei cinque giorni dopo”, per le quali serve una prescrizione medica solo se si è minorenni. Secondo l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, ad oggi 7 medici su 10 sono obiettori di coscienza. Praticamente come se andassi al ristorante, ordinassi una bistecca e il cameriere si rifiutasse di portarmela perchè è vegano.

Donatella Tesei è la governatrice dell’Umbria, donna, pro-life, leghista e la prova vivente che non è sufficiente avere un utero per capire l’importanza dell’aborto libero ed accessibile. Ha fatto scandalo la sua decisione di imporre l’obbligo di ricovero per tre giorni in ospedale nel caso in cui una donna decida di interrompere una gravidanza con i farmaci, ma il vero scandalo è che questa sia la realtà nella maggior parte delle Regioni d’Italia. La signora Tesei ha infatti deciso di abrogare una riforma del 2018 effettuata dalla legislatura precedente, quando l’Umbria si era unita a Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e Lazio permettendo di praticare l’aborto farmacologico in day hospital. Questo non solo è ritenuto sicuro dalla scienza – giusto per rassicurare le anime pie che limitano la libertà del singolo giustificandola con necessità medica – ma sarebbe altamente consigliato in tempi di Covid: oggi e sempre, il ricovero in ospedale dovrebbe essere riservato alle emergenze o ai casi di necessità. Il ricovero dovrebbe essere un’opzione, come suggerisce Filomena Gallo dell’associazione Coscioni, non un obbligo. Alcune donne inoltre non possono permettersi di rimanere 3 giorni in ospedale, per svariati motivi: potrebbero dover nascondere l’aborto ad un partner o ad una famiglia violenta; potrebbero essere in gravi difficoltà economiche e non potersi permettere di passare tre giorni senza lavorare. Il Ministro Speranza, a seguito della bufera scatenatasi, ha deciso di chiedere un nuovo parere al Consiglio Superiore di Sanità che si era espresso 10 anni fa sull’argomento. In Italia ci sono regioni in cui la RU486 non è ancora arrivata, regioni in cui per un aborto è ancora obbligatorio un ricovero di tre giorni in ospedale o regioni dove è virtualmente impossibile abortire, per via della vastissima presenza di obiettori di coscienza; la decisione dell’Umbria è, chiaramente, un grosso passo indietro – ma è purtroppo in linea con l’atteggiamento italiano rispetto all’aborto.

In Italia infatti (per chi non se ne fosse accorto) persiste l’idea che l’autonomia sul proprio corpo sia un capriccio, che la donna sia “fatta per procreare”, che una gravidanza indesiderata sia sintomo di uno stile di vita “incivile” e che l’aborto sia sostanzialmente un omicidio. Ci si preoccupa che con la concomitanza di aborto legale, calo di nascite dovuto ad un’economia sull’orlo del collasso e una crescente coscienza dei propri diritti da parte delle donne, queste smettano di produrre tanti piccoli italiani. Si potrebbero spendere fiumi di parole su quanto sia contradditoria la posizione dei cosiddetti “pro-life”, zelanti paladini delle vite umane quando si tratta di feti, molto meno quando si tratta di chiedere giustizia per le vite perse in mare o per le armi italiane vendute all’estero.

Il punto è questo: sostenere il diritto all’aborto non equivale a dichiarare che al posto della donna si agirebbe nello stesso modo, significa riconoscere ad un essere umano libertà di scelta sul proprio corpo. Si tratta di una considerazione che dovrebbe andare al di là di qualsiasi ideologia politica. L’interruzione volontaria di gravidanza è, come suggerisce il nome, un’azione volontaria; può essere compiuta, non senza dolore e senza ponderazione, per una quantità di ragioni che non devono interessare nessuno tranne la donna incinta. Tutti siamo liberi di avere un’opinione e anche di esprimerla, possibilmente nei limiti della decenza, ma le idee di alcuni non possono e non devono limitare la libertà di altri fino ad influenzarne il corso di vita. Personalmente non permetterei mai che la zia Rosalia che sbraita su Facebook che l’aborto è opera del demonio mi dica cosa posso e non posso fare di me stessa, che si tratti di aborto o di piercing all’ombelico. Dovremmo cercare costruire una maggiore sensibilità rispetto a diritti e libertà fondamentali e continuare ad affidarci ai pareri scientifici, invece di distruggere le fondamenta che a fatica abbiamo costruito in questi anni e continuare a garantire a tutti maggiore libertà di scelta.

Rebecca Franzin

Studio a Trento, ma sono di Vittorio Veneto (tecnicamente Solighetto). Forse un giorno mi laureerò in Studi Internazionali; nel frattempo, se siete credenti, sentitevi liberi di includermi nelle vostre preghiere.

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