Cimiteri degli angeli: analisi della vicenda di Marta L.

Il 28 settembre 2020, Marta L. ha diffuso sul suo profilo Facebook una fotografia scattata all’interno del cimitero Flaminio a Roma, in cui c’era una croce bianca con scritto il suo nome e cognome. L’autrice del post aveva avuto, mesi prima, un aborto terapeutico; la croce, rappresentata in foto, indica il punto dove è stato sepolto suo figlio, senza il suo consenso. L’esequia era stata effettuata, stando alle descrizioni delle testate giornalistiche, da un’organizzazione della quale rimangono ancora ignoti nome ed entità. A seguito della segnalazione di Marta L. e di altre donne, che hanno denunciato la medesima situazione in altri cimiteri della capitale, l’associazione Differenza Donna ha avviato un’azione legale per violazione del diritto alla privacy contro l’organizzazione che ha deciso di effettuare le esequie senza loro il consenso. Il Garante della privacy sta attuando l’indagine in merito alla denuncia. Purtroppo, nei giorni seguenti alla denuncia di Marta L. sono saltate fuori altre segnalazioni simili al cimitero di Bergamo.

La descrizione di questo episodio mi fa sorgere alcune domande etiche: “È lecito effettuare le esequie, anche se per conto di terze parti?”; “I cimiteri degli angeli sono legali?”; “L’esequia di un bambino nato morto è obbligatoria o facoltativa?”; “È possibile rimanere anonimi?”.
Per rispondermi a questi dilemmi etici, ho cercato informazioni all’interno del regolamento nazionale della polizia mortuaria, focalizzandomi sulla ricerca degli articoli che regolamentano la pratica delle esequie in caso di interruzione volontaria di gravidanza (IVG) o di aborto spontaneo. L’articolo 7 del regolamento della polizia mortuaria, risalente al 1990, sancisce quando la sepoltura è una procedura facoltativa e se l’amministrazione di un Comune deve riservare uno spazio specifico per le esequie (questa parte di articolo può essere soggetta a delle variazioni o delle aggiunte da parte dell’amministrazione della Regione o del Comune)
L’articolo 7 afferma che i bambini nati morti devono essere seppelliti. Dunque, sancisce che questi cimiteri sono di fatto legali e devono esistere ma non significa che queste aree debbano essere denominate “cimiteri degli angeli”: i media nazionali che hanno raccontato quanto accaduto a Marta L. e le associazioni che effettuano queste esequie hanno chiamato così quelle zone. All’interno di questo articolo vi è una tabella che sancisce come viene considerato, a livello civile, un feto in caso di decesso in base alle settimane della gestazione della gravidanza. Viene stabilito, in base a questa suddivisione temporale, che la pratica delle esequie è una procedura facoltativa se l’IVG avviene in un periodo di tempo inferiore alla 20esima settimana di gestazione. La normativa sul diritto all’anonimato aggiunge che non si può scrivere il nome e/o il cognome della donna oppure usare nomi inventati su una lapide senza il suo consenso.

Riprendendo il discorso della facoltatività, per effettuare le esequie ci vuole il consenso scritto di entrambi i genitori [sic] o solo della madre entro 24 ore dall’espulsione o dall’estrazione del feto. La richiesta di sepoltura può essere espressa all’anagrafe del Comune o all’ASL. Inoltre, il regolamento specifica che nel caso in cui entrambi i genitori rifiutassero di volere fare la sepoltura, la struttura medica dove è stata praticata l’IVG è obbligata a seguire la procedura di trattamento di rimozione di sostanze e prodotti biologici pericolosi. Perciò, ospedali e cliniche non potrebbero accordarsi con delle associazioni esterne a queste strutture affinché possano effettuare la sepoltura dei feti. La normativa vieta tassativamente la sepoltura tramite persone terze anche quando sono in nome della donna.
Ho scoperto, leggendo varie inchieste giornalistiche, che quasi nessuna paziente viene informata della procedura delle esequie sia quando è una pratica obbligatoria, sia quando essa è facoltativa, anche quando le pazienti hanno domandato al personale che cosa succedeva a seguito dell’IVG o dell’aborto. Infatti, quasi nessuna Regione italiana, tranne il Veneto con un regolamento emanato nel 2018, obbliga le strutture ospedaliere e le cliniche specializzate in ginecologia a informare le pazienti di questa procedura, anche quando lo domandano.

Questo particolare fa emergere il fatto che in Italia e in altri Stati parlare o discutere di aborto, anche solo come procedura medica, rimanga un tabù, principalmente per via della delicatezza dell’argomento. In generale, la discussione di questo tema avviene a scuola, in terza media oppure tra la quarta e la quinta superiore nell’ora di religione (per chi partecipa) o di scienze, o nei circoli o nelle associazioni che le persone frequentano quotidianamente. Oppure la spiegazione di questo argomento viene effettuata dalle piattaforme digitali, come Youtube o Instagram, come uno strumento di apprendimento che però può rilevarsi un’arma a doppio taglio perché potremmo tendere a cercare del materiale che conferma le nostre idee ed opinioni su questo tema. Inoltre, è anche difficile mantenere dei toni neutrali nella discussione. Negli anni precedenti alla pandemia, ci sono stati episodi di denuncia nei confronti di insegnanti, che hanno discusso e trattato dell’aborto mostrando materiale audio-visivo oppure facendo delle affermazioni classificate coercitive nei confronti degli studenti per lo sviluppo delle proprie opinioni e della propria coscienza civica.
Concludo l’articolo lasciando a voi lettori queste domande: “È giusto difendere il diritto di vita arrivando perfino a retrocedere il nostro dovere a mantenere il rispetto per le scelte altrui?”; “Bisogna arrivare a metodi coercitivi per convalidare la nostra percezione su questo argomento agli altri?”; “Pensate che una maggiore trasparenza di queste informazioni tecniche possa servire ad evitare gli episodi descritti?”
Non voglio fare della demagogia su un argomento ancora non compreso e non appreso. Possiamo avere idee contrastanti su questo tema, sì. Ma su come agiamo su questo tema, dobbiamo domandarci sul limite tra rimanere integri alla nostra moralità e rispettare la volontà e la fragilità degli altri.

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