Ritratto di una presidenza pro-life

L’amministrazione Trump non ha mai nascosto né a parole né a fatti la sua posizione sull’aborto: limitarlo il più possibile. Una scelta netta, che potrebbe però essere perseguita in modi non scontati.

Manca poco meno di un mese alle elezioni statunitensi. Si sfideranno l’attuale inquilino della Casa Bianca, il newyorkese Donald Trump, e il candidato democratico Joe Biden di Scranton, Pennsylvania. È tempo di iniziare a fare un bilancio dell’attuale amministrazione; cogliamo la palla al balzo degli ultimi avvenimenti transatlantici per limitare il nostro primo articolo di questa serie alla questione – di per sé già divisiva di suo – dell’interruzione della gravidanza.

È il 1973. Il processo “Roe vs Wade” si conclude con una sentenza decisiva per gli Stati Uniti d’America: l’interruzione di gravidanza diventa lecita e legale per tutta l’unione. Non solo: è un diritto della donna abortire fino alla ventottesima settimana in ogni circostanza. Nessun governatore può vietarlo né ha più discrezionalità in materia. L’aborto è, a tutti gli effetti, libero. Già da prima e anche in seguito negli Stati Uniti si fa largo il dibattito che imperversa ancora oggi, e non solo oltre l’Atlantico, tra i pro-choice, secondo i quali una donna ha il diritto di pretendere l’interruzione di gravidanza senza alcuna giustificazione, e i pro-life, per cui il feto fin dal concepimento è vita e come tale nessuno ha il diritto di sopprimerla.

Pennsylvania Avenue e l’interruzione volontaria di gravidanza

Washington è stata finora piuttosto lasca in materia, evitando di entrarvi a gamba tesa: è una tematica che riguarda la libertà di scelta dell’individuo, cara perciò all’entroterra culturale statunitense (tant’è che in alcuni stati, ad esempio l’Oregon o la California, il suicidio assistito è consentito, mentre a livello federale è legale l’eutanasia passiva), ma negli ultimi anni l’orizzonte degli eventi è mutato. La presidenza Trump non è rimasta mera spettatrice passiva ed ha anzi voluto partecipare alla discussione: l’attuale inquilino alla Casa Bianca non ha mai negato le sue simpatie verso i movimenti a sostegno della vita. Lo scorso gennaio ha partecipato alla marcia antiabortista di Washington, parlando ai presenti dal palco e assicurandoli di essere totalmente dalla loro parte.

Every life brings love into this world. Every child brings joy to a family. Every person is worth protecting

Donald Trump, 24 gennaio 2020, Washington D.C.

Di certo la sua presenza al corteo (la prima volta per un presidente degli Stati Uniti d’America) non è stata meramente un’azione pensata ad hoc soltanto per racimolare i voti dei conservatori nell’anno delle elezioni. Trump è sinceramente convinto delle sue posizioni e negli ultimi quattro anni non ha nascosto il suo obiettivo: un cambiamento culturale in seno alla società statunitense, tagliando i fondi federali alle associazioni che direttamente o meno aiutano le donne ad abortire (la famosa “Mexico City Policy” firmata nel ’17) e arrivando perfino a dichiarare nel 2018 il 22 gennaio “Giornata nazionale per la santità della vita umana“. O ancora quando il 25 settembre 2020 ha firmato un ordine esecutivo volto a impegnare il governo USA a tutelare la vita dei bambini fin dalla loro nascita.

Amy Coney Barrett: un altro conservatore alla Corte Suprema

Non ultimo in ordine di importanza, la nomina di Amy Coney Barrett come nuovo giudice della Corte Suprema, in seguito alla scomparsa di Ruth Bader Ginsburg. Se il Senato dovesse confermarle la nomina, matematicamente molto probabile vista la maggioranza repubblicana nella camera alta del Campidoglio, sarebbe il terzo giudice deciso da Donald Trump: un’opportunità d’oro da cogliere al volo per il Tycoon così da rinforzare la trincea della magistratura (di fatto a maggioranza repubblicana e conservatrice) in vista della sua rielezione.

Cattolica, conservatrice e antiabortista: sono i tre aggettivi che i diversi giornali usano per descrivere la Barrett da quando ha iniziato a calcare il palco politico in seguito alla decisione di Donald Trump; nulla di più esatto. Ma al tempo stesso non è solo questo: sposata (il marito, Jesse Barrett, è anch’egli avvocato), con cinque figli naturali (di cui uno disabile) e due adottati da Haiti, ha insegnato per diverso tempo all’Università di Notre Dame, in Indiana, dove si è laureata in giurisprudenza con una borsa di studio. Ha inoltre una laurea in letteratura inglese, anch’essa ottenuta con il massimo dei voti al Rhodes College.

Sostenitrice dell’originalismo di Scalia, filosofia giudiziaria per la quale la Costituzione non dev’essere interpretata ma applicata alla lettera (su cui si ritornerà con un articolo ad hoc), nel corso dell’audizione per la sua nomina alla Corte di Appello nel 2018 – sempre voluta da Donald Trump – la Barrett, incalzata dalla Commissione Giustizia del Senato per sapere come procederà circa i precedenti legali LGBT storici, ha asserito che li avrebbe seguiti se confermati. È anche fortemente contraria alla pena di morte e all’aborto: non considera la “Roe vs Wade” un super precedente, perché è venuto meno il concetto di mutua responsabilità legata al sesso. Ma al tempo stesso, proprio in forza della sua appartenenza all’originalismo, è convinta che qualsiasi magistrato debba mettere da parte il proprio pensiero filosofico, etico e religioso mentre lavora ed applicare stricto sensu la legge.

What greater thing can you do than raise children? That’s where you have your greatest impact on the world

Amy Coney Barrett, 19 febbraio 2019, Notre Dame Club, Washington D.C.

Se da una parte la Barrett rappresenta quindi la quintessenza dell’antiprogressismo inviso ai democratici d’oltreoceano, dall’altra la stessa Amy Coney rappresenta un nuovo modello di femminismo, di stampo squisitamente conservatore: una donna che è riuscita a realizzarsi nel lavoro e al tempo stesso coltivare una famiglia.

A rischio la “Roe vs Wade“?

Arriviamo alla domanda fondamentale: la sentenza del 1973 è a rischio? La risposta secca è: improbabile. Non è nelle intenzioni di Washington giungere all’annullamento di un pronunciamento che, a tutti gli effetti, ha fatto giurisprudenza a livello federale. In tal senso, agire di istinto e direttamente contro la “Roe vs Wade” porterebbe diverse difficoltà ad una seconda amministrazione Trump, che, come abbiamo già detto, è contraria all’aborto. Piuttosto lavorerà di fino e con basso profilo, agendo a livello culturale ed economico, facendo sì che istituzioni come la Planned Parenthood rinuncino ai fondi federali ed abbiano difficoltà finanziarie, oppure promuovendo giornate a favore dei bambini o della maternità.

O ancora, operando a livello statale nelle Camere e nei Senati dove i repubblicani hanno la maggioranza per stringere le maglie entro cui si può ricorrere all’aborto, in netto contrasto con gli stati democratici dove i requisiti sono stati resi meno stringenti (anche se in un sondaggio del 2019 molti pro-choice sarebbero comunque a favore di restrizioni in merito). Alla fine non è impossibile che l’obiettivo di questo approccio sia rendere di fatto la “Roe vs Wade” inutile, senza che sia necessario ricusarla. Per i pro-life, sarebbe per Trump un colpo da maestro.

Alessandro Soldà

Classe 1996, mi sono laureato in Filosofia all'Università di Trento, dove proseguo gli studi con la specializzazione in Etica e Scienze delle Religioni. Sull'Universitario mi occupo principalmente di politica (estera e nazionale) e di attualità.

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