il Segnalibro – cap. 2

La ricerca del successo e della realizzazione personale costituisce generalmente la meta a cui ambire nella società contemporanea, un traguardo necessario per conferire un orizzonte di senso alla propria esistenza. La nostra generazione, quella dei nati alle porte del nuovo millennio e degli studiosi, è sottoposta più che mai al peso di enormi aspettative ed è anche quella a cui più di tutte capita di vedere queste proiezioni di grandezza infrangersi, scontrarsi con una realtà decisamente ostile. Vale la pena chiedersi quale sia il senso reale di un immaginario che esorta a raggiungere sempre la vetta, quando il più delle volte le condizioni materiali perché questo si realizzi non esistono nemmeno. A chi sono davvero rivolte queste incitazioni a sfidare i propri limiti e realizzarsi? E poi, cosa significa davvero realizzarsi? Quale idea di successo dovremmo immaginare, oggi? Come si declina una vita degna? Questi interrogativi, che ci si pone presto o tardi di fronte all’accumularsi dei propri insuccessi, mi hanno raggiunta in modo particolarmente insistente nell’ultimo periodo, attraverso alcune letture di cui mi piacerebbe parlare in questo secondo capitolo.

Nella prefazione al suo Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (2006), Michela Murgia – introducendo la narrazione dei suoi anni da lavoratrice precaria in un call center – riconosce in quel periodo la prima circostanza in cui ha usato la scrittura come «mezzo per reagire a qualcosa contro cui nessun’altra reazione sembrava possibile». Murgia ripercorre brevemente la storia della parola “precarietà”, di come questa si sia insinuata, dapprima silenziosamente, poi prepotentemente, nel dibattito pubblico. L’autrice ricorda come ci si ostinasse a chiamarla flessibilità parola ambigua che a noi richiamava l’immagine di cose leggere e forti, il legno dell’arco e le chiome piegate dei giunchi al vento, ma non riuscivamo proprio a declinarla sulle nostre schiene e i nostri progetti di vita, che avremmo voluto assai meno oscillanti delle foglie dei giunchi»). Le considerazioni di Murgia, pregne di risentimento e indignazione, fanno riferimento agli errori commessi dalla classe dirigente nell’esacerbare un contesto di instabilità già invivibile, e all’ingiustificabile ostinazione della politica nell’incitare la generazione dei precari ad entusiasmarsi per le fantomatiche, infinite possibilità offerte dal moderno lavoro flessibile. Parole rivolte a quella che, in un controsenso nient’affatto velato, la stessa classe politica amava chiamare “generazione perduta”. Anche in merito a questa definizione l’autrice reagisce con sdegno: «(…) siamo noi o lo saremo, ciascuno coi suoi sogni non realizzati, le scelte che con più sicurezze lavorative si sarebbero potute fare, i figli mai generati per la paura di non avere abbastanza per crescerli e la pensione dei genitori come estremo paracadute nell’incertezza».

Sebbene la narrazione di Murgia faccia riferimento ad una realtà prettamente italiana, lo stesso senso di sconfitta di fronte alle condizioni materiali della propria vita è riscontrabile in produzioni emergenti anche da altri contesti, che siamo abituati ad immaginarci come distanti dal nostro. Marion Messina, giovane autrice francese, nel suo romanzo d’esordio Faux Départ (Falsa partenza) del 2017, racconta una storia struggente nella sua tremenda ordinarietà. Il romanzo, ambientato nella periferia francese ai giorni nostri, si apre simbolicamente con una breve epigrafe: Ser teco, insistir (sii testardo, insisti). Questa breve riga raccoglie in sé ed anticipa tutto l’andamento del romanzo, che segue una rincorsa ostinata quanto inconcludente. La storia racconta l’intrecciarsi delle vicende di Aurélie, che vive a Grenoble e cerca di fuggire al presente tedioso e inconsistente che le si è spalancato intorno dal suo ingresso all’università, e Alejandro, approdato nella periferia francese dalla Colombia, alla ricerca di maggiori opportunità di realizzazione. I due protagonisti inseguono l’ambizione, perseguono la differenza culturale francese, ma assistono presto allo sfaldarsi di questo mito sotto i loro occhi. Messina descrive nel dettaglio la loro vita fatta di piccole umiliazioni e alienazioni quotidiane, quelle di chi arranca tra studio e lavoro, di chi deve sacrificare un pezzetto alla volta la portata delle proprie ambizioni, per adeguarsi a condizioni inconciliabili con la propria inclinazione personale. Aurélie si sente schiacciata dal suo senso di ordinarietà: l’aver conseguito un titolo di studi non la fa sentire speciale, ma solo un pesce nell’oceano. Si accorge lentamente di non essere destinata a nessun futuro brillante, essendo vuote e sterili le promesse di cui la retorica culturale ha riempito le teste della sua generazione. Generazione che «non aveva nessuna guerra cui opporsi, nessuna vera difficoltà, assolutamente nessuna prospettiva; era il grado zero della sofferenza, un lato B dell’esistenza». Aurélie soffre rendendosi conto di non aver appreso nulla che le sia utile ad arrancare meno faticosamente nel suo presente, percepisce l’inutilità del suo diploma a pieni voti strappato senza troppi sforzi ad una scuola periferica. Quelli che le sono sempre stati presentati come gli anni più belli della sua vita le si stringono attorno come “sabbie mobili amministrative”. Alle dolorose constatazioni circa la sua condizione sociale, si uniscono inoltre le insicurezze dovute al passaggio dall’adolescenza all’età adulta. «Mai veramente a suo agio con nessuno, eppure desiderosa di giocare il gioco cui ci si aspettava che partecipasse in allegria, aveva la sensazione di essersi persa qualcosa delle spiegazioni della vita, sentiva che delle cose succedevano senza di lei, senza che lei sentisse la minima tristezza, ma solo incomprensione mista a frustrazione». Quando declinano le sue speranze di ottenere un benessere significativo attraverso gli studi, Aurélie si trasferisce a Parigi alla ricerca di un lavoro. «Si trattava di un esercizio difficile, perché era impossibile scrivere che si faceva domanda solo per denaro, bisognava allora esercitarsi nell’arte di formulare banalità professionali che includevano il “servizio al cliente”, “l’impegno nella qualità”, la “possibilità che mi dareste”». Aurélie capisce presto come la necessità che tutto sia flessibile, adattabile a richiesta, non riguardi solo la vita professionale (inizia a lavorare presso una multinazionale, vivendo in ostello e percorrendo ogni giorno a piedi tutta la città per svolgere le sue mansioni), ma si estenda a tutta l’esistenza. Tutte le formule della vita sociale sono dunque da prendere per passeggere, senza impegno, rinegoziabili senza preavviso, secondo il desiderio del consumatore. Il romanzo di Messina, che si conclude con una nota particolarmente amara, non lascia spazio ad un lieto fine speranzoso ed ottimistico. «Fuori sentì il rumore del traffico, l’aria sapeva di cenere e alluminio. Aveva vent’anni». La storia di Aurélie, raccontata con una prosa scorrevole quanto densa ed efficace, potrebbe essere la storia di ognuno di noi. Si tratta della testimonianza di una ricerca disperata, in un mondo che non lascia spazio nonostante i mille compromessi.

Anche Napoli mon amour, romanzo del 2018 di Alessio Forgione, ha come protagonista un giovane precario. Amoresano ha trent’anni e vive a Napoli con i suoi genitori. Nonostante abbia due lauree, passa le giornate cercando di riempire il tempo che scorre lentamente, tra la ricerca vana di un lavoro, le partite del Napoli e le uscite con l’amico Russo. La prosa di Forgione è magnetica, e alterna una sintassi concisa e scarna a passaggi densi e poetici. Il che corrisponde anche all’esprimersi della personalità scostante del protagonista, oscillante tra momenti di apatia e sconforto ed emozioni invece turbinanti ed estreme. Amoresano è un osservatore attento di ciò che lo circonda, lo si capisce sin dall’inizio del romanzo, quando aspetta la metro ascoltando le conversazioni degli altri passeggeri, narrando la sua storia, si perde in brevi ma efficaci descrizioni della città di Napoli, che si fa amare e detestare insieme. Come i protagonisti di Messina, anche lui si affatica nella ricerca di un posto nel mondo, un mondo che sembra non volerlo, scacciarlo da tutte le parti, detestarlo, al punto da indurlo a disprezzare se stesso. «Mi sarebbe piaciuto essere chiunque eccetto che me», afferma seccamente il protagonista nelle prime pagine. Amoresano, in realtà, ama scrivere racconti, ma non lo dice a nessuno, lo fa di nascosto, e intanto si candida per impieghi sottopagati e al limite dello sfruttamento e descrive i colloqui affrontati con scarso entusiasmo e un latente senso di umiliazione. «Mi chiesero se fossi una persona gentile, empatica, felice di rendersi utile e nel rispondere di sì mi sentii sporco. Mi chiesero dove mi vedevo tra cinque anni e abbozzai una risposta di circostanza. Non m’andava di dire o qui o morto». La ricerca infruttuosa di un lavoro, che sembra proprio corrispondere alla ricerca di un senso da dare alla propria vita, porta lentamente il protagonista ad un abbandono della fiducia in sé stesso e negli altri. «Dentro mi comparve una pena che poi crebbe, inarrestabile. Per me stesso, per il mio presente e per quello che sarebbe stato il mio futuro. (…)». Agli occhi di Amoresano, tuttavia, il suo stesso disprezzo per la propria persona non giustifica completamente la sua condizione. La sua è una frustrazione crescente per l’inconciliabilità della sua vita precaria con quello che lui pensa invece di meritare, con quello che capisce di star perdendo. «Mi sentivo messo da parte: una stupida e ignobile particella di un tutto che non mi considerava, che non mi ascoltava. In particolare, mi dava fastidio l’idea di una bellezza che esisteva e non potevo toccare». Le giornate della vita di Amoresano sono scandite dal passivo contare in mente i soldi spesi male, in alcol e sigarette, nonché da incontri noiosi, sempre con le stesse persone, con le quali scambia solo conversazioni di circostanza; è stufo della povertà e della mediocrità del contesto cittadino che lo accompagna ogni giorno. Così, matura la decisione di togliersi la vita, una volta finiti i pochi risparmi rimastigli da un lavoro svolto in nave tempo prima. «Avvertivo una punta di dispiacere solo per il fatto di aver attraversato questa terra senza lasciare il segno e senza lasciare proprio niente a nessuno. Ero nato e anche morto e tutto sarebbe rimasto uguale, indipendentemente dalla mia presenza o assenza. Il dispiacere vero e proprio lo provai nel pensare che nel mondo sarebbe potuto accadere qualcosa di bello e che io non l’avrei nemmeno saputo». Una sera incontra Nina, che si rivelerà una pennellata di colore nel panorama grigio della sua esistenza. «Disse di pensare a un mondo (…) che era un posto terribile, che rischiava in ogni momento di non esistere più ed io pensai che era meglio un mondo così, che rischiava di esplodere e finire in ogni istante, che un mondo come il mio, dove non accadeva nulla». Tuttavia, proprio come Messina, nemmeno Forgione lascia spazio al messaggio di speranza o al lieto fine. La realtà di Amoresano non può essere cambiata, e alla fine anche il sentimento amoroso sfocia nell’ennesima conferma di questa realtà brutale. «Scrissi che volevo vivere ma che non ci riuscivo, perché vivere vuol dire anche accettare di rendersi ridicoli ed io mi vergognavo troppo di essere ridicolo. Scrissi che non c’era più tempo perché il tempo, forse, non esisteva». Il romanzo di Forgione è un’esperienza completa, ricca di riferimenti ad altre opere artistiche e presenta uno spaccato di esistenza che – seppure estremo nella sua crudezza e nel suo pessimismo – fornisce spunti di immedesimazione preziosi ed efficaci, che raramente ho trovato nelle altre letture di questo ultimo periodo.

In definitiva, il merito dei romanzi citati è quello di testimoniare con rabbia, asprezza e frustrazione una condizione che finisce per accomunare tanti di noi, a livelli diversi o in punti diversi delle nostre vite. La cosa che più di tutte rende efficaci queste narrazioni è la loro capacità di descrivere il lento e silenzioso estendersi delle preoccupazioni indotte dalla società ad ogni ambito della vita personale. I personaggi di Forgione e Messina ad un certo punto smettono di chiedere a loro stessi cosa vogliono davvero e, in una spirale di preoccupazioni che non si sa bene da dove arrivino, si perdono senza trovarsi più. Quest’azione di testimonianza, poi, non passa attraverso nessun processo di edulcorazione, ma viene sbattuta in faccia con violenza e rabbia, nella sua totale verità e inesorabilità. Si tratta dell’ennesima dimostrazione della più grande qualità dei libri: parlarci di noi stessi e raccontarci la nostra stessa realtà da punti di vista diversi e inaspettati. E questo, come dimostrano gli autori citati, non sempre costituisce un’esperienza priva di dolore.

Sara Nichiri

Sono una studentessa di Letterature, traduzione e critica letteraria presso l'Università di Trento. Mi piace leggere e condividere riflessioni, amo la musica e mi interesso anche di attualità, femminismo e sostenibilità.

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