Raggiunto il record di emissioni di CO2: il cambiamento climatico è il problema più urgente di cui occuparsi

In questi mesi non abbiamo fatto altro che parlare di salute. Nel bilanciamento d’interessi degli ultimi mesi il diritto alla salute – per ovvie ragioni – è prevalso, comportando la compressione di altri diritti e libertà: dal diritto allo studio alla libertà di circolazione, molte sono le limitazioni che il nostro essere ‘animali sociali’ ha dovuto accettare. Eppure, in quest’anno pandemico, l’acceso dibattito sul diritto alla salute risulta essere quantomeno parziale, incompleto. 

In tivù, sui giornali e anche sui social, il diritto alla salute viene rappresentato monoliticamente, come se esso implicasse solo la negatività al covid-19. Nelle rare volte in cui si cerca di ampliare la discussione sul tema “salute”, al più si prospetta una concezione di quest’ultima come salute fisica, “assenza di malattie”. Timidamente si configura il diritto alla salute nella sua accezione forse più immediata, ma sicuramente anche più semplicistica. Così, non si tiene in conto che salute è anche salute mentale e che molto più efficace di curare le malattie è il prevenirle, concentrandosi anche e soprattutto sui fattori sottostanti al diritto alla salute, come ad esempio un ambiente sano. Insomma, diritto alla salute non è soltanto accesso alle cure mediche, ma anche – nel limite del possibile – ottimali condizioni di vita. 

Il Guardian del 23 Novembre 2020 riporta che quest’anno si è raggiunto il livello record di gas ad effetto serra, nonostante i mesi di lockdown. Il trend è in continua salita e gli scienziati – ormai da tempo – ci allertano degli effetti devastanti che il cambiamento climatico avrà (vorrei utilizzare un condizionale, ma purtroppo questo modo verbale è inadeguato a rappresentare una certezza per il futuro) su milioni e milioni di persone. E quel che è peggio è che i costi del cambiamento climatico non saranno distribuiti equamente: a patirne di più saranno i Paesi in via di sviluppo che, paradossalmente, sono anche coloro che hanno meno contribuito al fenomeno. Infatti, questi Paesi a causa della loro conformazione geografica sono anche i più esposti ai rischi della crisi climatica. L’Africa sub-sahariana, l’America Latina, le regioni tropicali, ma anche la Cina e il sudest asiatico patiranno maggiormente le conseguenze del cambiamento climatico, i cui effetti possiamo già notare.

Gli effetti del cambiamento climatico sono sia diretti che indiretti e colpiscono più fronti. La parola d’ordine, in questo contesto, è “interdipendenza”. I problemi della nostra società non sono dei compartimenti a tenuta stagna, piuttosto essi si implicano a vicenda. Ad esempio, il covid-19 non è solo un problema di salute, ma è un problema che interessa la tenuta di sistema dei Paesi di tutto il mondo, non solo a livello sanitario, ma anche lavorativo, sociale, culturale e – da ultimo – democratico. Pensare al diritto alla salute solo come “assenza di malattia” è riduttivo, perchè manca di tenere in considerazione la salubrità dell’ambiente, le condizioni lavorative in cui sono costrette milioni di persone, il contesto sociale e culturale e, più in generale, la causa della “malattia”. È il momento di riconoscere che l’impatto maggiore del cambiamento climatico si ha proprio sulla nostra salute: ad esempio, l’esposizione a temperature estreme, le inondazioni, i cicloni e le siccità comportano un incremento degli allergeni e di certi inquinanti nell’aria. Inoltre, questi fenomeni indirettamente impattano sulla produzione di cibo, così comportando un accentuato problema di malnutrizione nelle regioni globali più vulnerabili.

Se, da un lato, temperature più calde e umide creano condizioni favorevoli all’aumento di vettori stagionali (insetti, mosche tze tze, etc…) di diverse malattie (malaria, dengue, febbre gialla, etc…), il cambiamento climatico porterà – e sta già portando – ad un mutamento dei cicli idrologici. Così, la siccità comporta l’evaporazione di acqua pulita, che a sua volta induce le persone a ricorrere a risorse idriche inquinate e di conseguenza aumentano le possibilità di epidemie che si originano in acque insalubri. Allo stesso modo, le inondazioni causano danni devastanti – per non andare troppo lontano basta guardare a quanto è accaduto gli scorsi gironi a Crotone e, prima a Cuneo, Vercelli e Verbanio-Cusio-Ossola, a Palermo, a Venezia, Genova, Savona, e… (potrei continuare così all’infinito). I danni dovuti alle inondazioni non si limitano, però, alla perdita della casa, dell’attività in cui si erano spesi i risparmi di una vita, etc…, ma comportano anche la distruzione del raccolto e aiutano a diffondere il rischio epidemiologico semplicemente perchè conducono ad un’amplificazione del range di vettori di malattie, ad esempio sciogliendo i pesticidi agricoli nelle acque potabili. 

Come dicevo, a soffrire maggiormente degli effetti negativi di questi fenomeni sono i Paesi in via di sviluppo, che sono anche quelli che più fanno affidamento su regolari cicli idrologici e che hanno una minore capacità di adattamento. Inoltre, la loro geografia rende queste regioni globali particolarmente minacciate da fenomeni meteorologici estremi. Questo implica che parte della popolazione spesso finisce a vivere in tendopoli o altri rifugi di fortuna con condizioni igienico-sanitarie tali da favorire il diffondersi delle malattie più disparate (sono le “internally displaced persons”); altri cercano piuttosto di emigrare. Tuttavia, il fenomeno delle migrazioni ambientali non è ancora regolamentato a livello internazionale, di qui l’esposizione di queste persone ad abusi e soprusi di ogni genere con una sistematica e reiterata violazione di diritti umani fondamentali.

Il quadro è già desolante in questo modo, eppure non è ancora completo. È importante anche accennare agli effetti che il cambiamento climatico ha sulle fasce della popolazione più svantaggiate. Infatti, i gruppi sociali più marginalizzati subiscono i prezzi più alti del cambiamento climatico. Quest’ultimo, incidendo direttamente e/o indirettamente sulla salute e sulle possibilità di sostentamento delle persone, incrementa la morbilità (cioè l’incidenza statistica delle malattie) e allo stesso tempo le capacità lavorative delle persone interessate diminuiscono. Ma si tratta di un circolo vizioso: minore è la capacità lavorativa di una persona, minore sarà il suo reddito, minori saranno le possibilità di accedere ai servizi sanitari e di vivere in un ambiente salubre, maggiori saranno le possibilità di ammalarsi. In questo modo chi vive ai margini della società, sarà sempre più marginalizzato e sarà indotto a stili di vita più rischiosi per la salute. UN Chronicle riporta come nella regione cinese di Chongqing, il rischio di diffusione di HIV/AIDS e di tubercolosi resistente alle droghe associato a condizioni di vita precarie è destinato ad aumentare. 

Il modello attuale di gestione del rischio alla salute è inadeguato e il covid-19 ne è la prova lampante: si segue un pattern di “care and cure” relativo ad una specifica malattia senza tener in considerazione le cause ambientali, climatiche e socio-economiche sottostanti. Per di più le politiche ambientali dei nostri governi sono più che insufficienti per molti motivi. Ad oggi l’UE ha fallito nel garantire un’aria più pulita per i suoi cittadini; molti Paesi Membri – tra cui l’Italia – hanno mancato gli obiettivi di riduzione di CO2 del 2018 e 6 Paesi (Italia, Romania, Polonia, Bulgaria, Croazia e Repubblica Ceca) hanno violato i limiti europei di emissioni di particolato fino (limiti che, per inciso, sono meno stretti di quelli stabiliti dall’WHO). Da ultimo, in sede di rinnovo della PAC (Politica Agricola Comune), un emendamento in tema di riduzione dei finanziamenti agli allevamenti intensivi della Commissione ambientale del Parlamento Europeo è stato bocciato dalla Plenaria, di fatto confermando la vecchia disciplina e discostandosi dagli obiettivi del Green New Deal. Una recente politica della Commissione UE incentiva al “Beefatarianism” incurante del fatto che gli allevamenti, insieme alle risaie e allo sfruttamento di carboni fossili contribuiscono al 17% delle emissioni di gas ad effetto serra. Per di più, i nostri sistemi energetici, industriali e di trasporto sono obsoleti, inadeguati ed estremamente inquinanti. 

Qualche dato sullo stato della crisi climatica ad oggi in meno di 5 min – TED, 29 ottobre 2020

Concludo (ma potrei continuare per ore) con le parole di Margherita Tolotto, senior policy officer presso il Bureau Ambientale Europeo: “ancora quanti campanelli di allarme necessitano i governanti europei per affrontare il problema dell’inquinamento dell’aria? Il loro ritardo ci sta costando in termini di salute e di ambiente salubre. Loro sanno esattamente cosa è necessario fare per migliore la qualità dell’aria: energia e produzione industriale pulite, trasporti più ecosostenibili e allevamento sostenibile”. E ciò vale in generale per l’intero fenomeno climatico: bisogna cambiare i nostri sistemi energetici, produttivi e di trasporto per invertire la rotta. È un qualcosa che dobbiamo a noi stessi, alle popolazioni più vulnerabili e alle generazioni future e non c’è altra via che questa

Vi lascio un ultimo video per approfondire, se volete:

lorena bisignano

Studentessa di giurisprudenza.

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