Scommettere sulle persone: la scuola secondo Tortuga

Intervista a Francesco Olivanti

Per la rubrica “Cara, vecchia scuola” del collettivo Un’Altra Scuola

Per l’ultima intervista del semestre, della rubrica “Cara, vecchia scuola”, ho scelto un focus un po’ diverso dal solito: invece di indagare le cause dei problemi del nostro sistema scolastico volevo cercare qualche possibile soluzione. Così non ho potuto che pensare ai ragazzi del collettivo Tortuga, autori del libro “Ci pensiamo noi: dieci proposte per fare spazio ai giovani in Italia” (Egea 2019), in cui si parla, naturalmente, anche di scuola. Francesco Olivanti, membro ormai onorario del gruppo, ci ha raccontato la mission di questo collettivo e la loro visione, chiara e concreta, per una scuola migliore.

Di solito presento brevemente i nostri ospiti ma, data la particolarità della vostra esperienza, questa volta chiedo a te di raccontarci un po’ chi siete, voi ragazzi e ragazze di Tortuga, e perché nel vostro libro parlate anche di scuola.

Tortuga è un think-tank fondato a Milano nel 2015, che si occupa di politiche pubbliche ed economia con un approccio divulgativo e orientato alla produzione di “evidence-based policy analysis”. Io sono ormai un “alumno” di Tortuga: ora faccio il ricercatore al Politecnico di Milano e per l’ONG Teach For Italy. Nonostante molti, come me, dopo l’università abbiano preso strade diverse, il gruppo è rimasto numeroso e molto unito. 

Qualche anno fa abbiamo deciso di radunare tutto il lavoro fatto in una sorta di manifesto, il libro “Ci pensiamo noi”, una raccolta di dieci proposte politiche per il nostro Paese. I presupposti sono però un po’ diversi da quelli a cui siamo abituati, già nel titolo: l’accento è sul termine “pensiamo”, perché vogliamo partire da un approccio ragionato e da un’analisi seria dei dati, ma anche sul “noi” come collettività giovane. Pur non avendo la presunzione di rappresentare tutti i giovani, infatti, noi siamo giovani, e vogliamo presentare la nostra visione del mondo.

In questa visione la formazione è centrale, perché è tale nell’idea di futuro che ha un Paese. Negli ultimi mesi stiamo tutti pensando a come utilizzare al meglio le risorse del Recovery Fund e noi abbiamo notato più che mai quanto si fatichi pensare in grande, nell’ordine dei prossimi dieci, venti, trent’anni. Il nostro focus, invece, è proprio sui grandi temi del futuro: formazione, lavoro, welfare e politiche sociali, disuguaglianze e povertà. Temi di cui ci siamo sempre occupati e che abbiamo fatto confluire nel libro, un modo per noi anche per capire in cosa possiamo davvero dare il nostro contributo al Paese.

E’ un libro davvero interessante, che consiglio a tutti di leggere: anche solo il discorso sulla scuola, che si sviluppa in termini ampi e sistematici, è qualcosa di raro e prezioso in Italia. Puoi parlarci dei tre filoni principali riguardanti la scuola, ovvero gli insegnanti, la riforma dei cicli scolastici e l’educazione all’imprenditorialità?

Certo: partiamo dagli insegnanti. La scuola è un sistema fatto dalle persone per le persone, cioè da docenti, dirigenti e personale scolastico per gli studenti e le studentesse: per questo è sempre fondamentale ragionare sul fattore umano, e in particolare sulla classe dei docenti. Questi, in Italia, sono pagati un po’ meno dei loro pari – circa il 90% rispetto a una persona che ha lo stesso titolo e fa un altro lavoro. Se questi dati vengono “corretti” tramite una serie di fattori (come ad esempio il tempo speso sul luogo di lavoro), il gap in realtà si allinea. Il problema è che offrire un salario più basso, per qualsiasi occupazione, significa selezionare persone con competenze – o comunque aspirazioni lavorative – più basse. Noi proponiamo quindi un aumento generalizzato dello stipendio degli insegnanti, allo scopo di attirare i giovani laureati e professionisti più capaci, che ora non considerano l’insegnamento un’opzione realistica. Questo accade sia perché il sistema di selezione è troppo rigido e complesso – a tratti demenziale – sia perché la remunerazione offerta è troppo bassa. 

Un’offerta più alta però, secondo noi, non può essere indiscriminata: il senso del sistema scolastico è quello di servire al meglio le persone a cui si rivolge, cioè gli studenti. Dobbiamo essere sicuri non solo di selezionare i docenti migliori, ma anche di supportare una loro continua crescita professionale. La professione del docente, in Italia, non prevede carriera se non sulla base dell’anzianità, perciò molti preferiscono lavorare in aziende che offrono un percorso di remunerazione in crescita, oltre che aumento di responsabilità e più possibilità di imprimere il proprio segno sull’organizzazione. II capitolo sulla scuola si chiama “Scommettere sulle persone” proprio per questo: bisogna selezionare i migliori, supportarli con una formazione continua, dare loro più responsabilità e autonomia per incidere positivamente sugli studenti, ma anche controllare che questo accada realmente.

Per quanto riguarda invece la riforma dei cicli, che prevede nella vostra proposta la riduzione di un anno del percorso scolastico come già accade in altri Paesi: questo secondo voi è necessario e in che modo andrebbe organizzato?

Non è necessario, può però avere senso all’interno di una vera riorganizzazione dei cicli, che invece è prioritaria. I due principali problemi degli studenti sono l’abbandono scolastico (o la mancata prosecuzione degli studi superiori, soprattutto quelli vocazionali) e un orientamento sbagliato in fase adolescenziale, che porta moltissimi a scegliere un percorso non adatto, accumulando ritardi o competenze inutili per il loro futuro lavorativo.

La prima causa sono le scuole medie, che dovrebbero avere, ma non hanno, una funzione di “triennio orientativo”. La seconda è il cosiddetto tracking, ossia il fatto che i percorsi degli studenti, da un certa età in poi, sono “canalizzati” o verso l’università o verso il mercato del lavoro. Questo sistema obsoleto distorce molto le loro scelte. Appena adolescenti e senza un adeguato orientamento, essi si trovano a dover scegliere della propria vita per i futuri 15 anni. Una scelta non solo troppo difficile, ma che tende a perpetuare dinamiche di disuguaglianza, portandoli verso l’ambiente che la famiglia conosce, ma ignorando i loro veri talenti: proverbialmente, il figlio del medico farà il medico e il figlio dell’operaio farà l’operaio.

La nostra proposta, simile a quella delle triennali per l’università, è di tagliare un anno alle scuole medie per trasformarle in un biennio armonizzato e realmente orientativo. Questo avvicinerebbe la meta dell’entrata nel mercato del lavoro, stimolando di più i ragazzi a raggiungerla e lascerebbe comunque varie vie d’uscita che si possono aggiustare lungo il percorso.

E anche questo è parte di quella distanza fra la scuola e il “mondo reale”, il mondo del lavoro, delle aziende, che è “fuori” dalla scuola e deve restarne lontano. Una delle proposte che voi invece avanzate, in un capitolo integrativo del libro, uscito a febbraio 2020, è l’educazione all’imprenditorialità. Che cosa significa?

Questo è un tema molto rilevante anche per l’università. In Italia viene spesso frainteso: in inglese, in realtà, entrepreneurship non significa solo “imprenditorialità”, tanto che anche da noi si cerca di usare la parola “imprenditività”. La traduzione più semplice è “l’essere intraprendenti”, qualcosa che la scuola e l’università italiane sono molto poco orientate a stimolare nei ragazzi. Mentre sul “fare impresa” tutti sono un po’ scettici, l’insegnare ad “essere intraprendenti” è, sulla carta, nei programmi di qualunque scuola o università. Concretamente però ci sono pochi strumenti per farlo, o questi (dal cosiddetto lavoro hands on a quello di gruppo) non fanno parte della tradizione didattica nel nostro rigido sistema scolastico. 

Un tratto peculiare del nostro libro è la volontà di combattere l’idea della rendita, del “si è sempre fatto così” ed essere imprenditivi o imprenditoriali è esattamente questo. E’ la nostra generazione che ha il dovere farlo, a partire dalla scuola: l’impianto rigido dei percorsi scolastici, dell’insegnamento delle materie e della didattica frontale va scardinato. Nell’università questo significa confrontarsi sempre di più con la società, qualcosa in cui l’Italia ha già una forte tradizione e che va potenziato dotandosi di più mezzi, portando alla luce molte piccole esperienze positive, che restano però marginali.

Chiudo con un esempio per chiarire la “rigidità” del sistema scolastico, di cui ho parlato: se oggi una scuola ha bisogno di una certa figura professionale, per rispondere ad esigenze specifiche, ad esempio quella del covid, non può assumerla se questo non è previsto direttamente dal Ministero. Per questo, quando nasce un bisogno nuovo (il counselling, l’orientamento, la creazione di progetti), le scuole non possono che affidarlo ai soliti docenti, i più bravi e più disponibili, che così si trasformano da ottimi insegnanti in insegnanti stanchi, pieni di lavoro e di responsabilità burocratiche. La nostra proposta è di dare alle scuole quell’autonomia che oggi purtroppo non hanno: basti pensare agli insegnanti di sostegno, che hanno un compito delicatissimo e vengono invece spesso assunti andando a “pescare” tra le riserve delle altre classi di concorso.

Un tema importantissimo: quando si parla degli insegnanti, spesso si dimentica che al loro numero di ore settimanali bisogna aggiungere una serie di responsabilità che non sono nemmeno immaginabili, dall’esterno, perché non stanno sulla carta, e che impediscono di dedicarsi pienamente al loro ruolo, già molto delicato, di insegnanti ed educatori.

E’ vero, molti docenti svolgono un lavoro enorme, difficilmente comparabile anche a quello dei contesti aziendali più competitivi e stimolanti, un lavoro che però non emerge perché non ha contropartita, né in termini di valutazione o remunerazione, né di riconoscimento sociale. Il punto non è cacciare da questo sistema chi non lavora, ma costruirne uno che selezioni le persone più preparate e che metta chi è già al suo interno, magari stanco e demotivato, nelle condizioni di lavorare al meglio

Il problema è che, mentre le scuole sono occupate a gestire le emergenze momentanee, il Ministero a Roma passa il 95% del suo tempo a reclutare docenti (basti pensare che il reclutamento per quest’anno scolastico è ancora in corso, a dicembre). Bisogna passare ad un sistema in cui il Ministero governa il sistema, chiedendosi: che cosa serve agli studenti, oggi, per affrontare i prossimi cinquant’anni della loro vita? E le scuole, invece, abbiano le risorse e l’autonomia per rispondere ai bisogni locali, perché una scuola dell’area interna non ha le stesse esigenze di quella del centro di Roma, o della periferia di Milano.

E questo approccio estremamente positivo, di cui c’è molto bisogno in un Paese così carico di pessimismo, è quello che caratterizza tutto il vostro libro e che spero possa essere stato d’ispirazione per chi ci ascolta o ci legge. Soprattutto per un gruppo di studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici così giovani, arrivare a formulare e divulgare delle proposte così ambiziose ma così concrete non è per nulla scontato. Voi lo avete fatto, dimostrando che è possibile, anche in Italia.

Potete trovare il podcast completo dell’intervista sulle pagine social di Un’Altra Scuola o nell’archivio di Sanbaradio, a questo link: https://www.sanbaradio.it/content/scommettere-sulle-persone-la-scuola-secondo-tortuga-intervista-francesco-olivanti

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